Tecnologie indossabili, autopercezione e identità alle soglie di una nuova esistenza totalmente quantificabile.
"We have one more thing to cover…"
Urla si levano nella sala, accompagnate da applausi e persone che saltano dalle comode poltroncine del Flint Center for the Performing Arts, Cupertino, California.
"I’m so excited and so proud to share with you this morning the next chapter in Apple’s history… "
Parte una musica incalzante. Sullo schermo ruotano ombre e bagliori che suggeriscono materiali luccicanti. L’inquadratura si muove in uno spazio etereo e così facendo scopre dettagli preziosi, ghiere ruotanti e maglie metalliche che sinuose si muovono una sull’altra. Siamo in Silicon Valley nel bel mezzo dell’ultimo evento Apple, dove Tim Cook ha appena lanciato a sorpresa l’ultimo gioiello del colosso statunitense, l’Apple Watch.
Questo evento rappresenta molto di più dell’ultima trovata commerciale del mondo tecnologico. Con questo lancio il più influente brand della consumer electronics prende parte all’ultimo grande cambio di paradigma nel rapporto fra uomo e artificialità.
Da statica a portatile, da portatile a tascabile, da tascabile ad indossabile: la tecnologia termina l’ultimo passo del suo instancabile avvicinamento al corpo umano.
Chi pensa che questa sia la semplice evoluzione legata alla miniaturizzazione di componenti hardware, commette un errore di eccessiva semplificazione.
Il processo di invasione del corpo da parte dell’elettronica ha sicuramente radici diverse che partono da punti lontani nel tempo e nello spazio, ma quelle sicuramente più interessanti dal punto di vista sociale ed antropologico iniziano in una cantina della California nel "lontano" 2008.
Siamo a casa di Kevin Kelly, co-founder e caporedattore di Wired, dove assieme a Gary Wolf, altro editor della famosa rivista, si riunisce con altre trenta persone nel primo incontro di quello che presto si trasformerà in un movimento mondiale: il Quantified Self (QS).
In Italia non ha mai riscosso successo e fama (e forse non è un caso), ma in altri paesi è un fenomeno ormai consolidato. 37.000 membri ufficiali in 119 città di 37 stati diversi, questo ciò che si conta ad oggi solo sulla pagina Meetup ufficiale.
“Self knowledge through numbers” recita il pay-off.
Attraverso meeting, conferenze, blog e forum Meetup promuove il tema della conoscenza di se stessi attraverso i dati o i numeri, e rappresenta un punto d’incontro globale per appassionati, inventori o semplici curiosi del cosiddetto self tracking e degli strumenti che lo supportano.
"Nel 2007 io e Kevin Kelly iniziammo ad interessarci a nuove pratiche che sembravamo, alla lontana, essere collegate una con l’altra: il life logging, la genomica personalizzata, il ‘location tracking’ e la biometrica. – racconta Gary Wolf in un post del 2011 – Questi nuovi strumenti sono stati sviluppati per diverse ragioni, ma tutti quanti hanno qualcosa in comune: aggiungono una dimensione computazionale all’esistenza umana. Parte di questo processo arriva da ‘fuori’, poiché venditori e pubblicitari cercano nuovi modi di comprenderci ed influenzarci. Ma un’altra dimensione viene da ‘dentro’, con le persone che cercano di imparare nuove cose su se stesse. Vedemmo una somiglianza con il modo in cui i computer, che inizialmente servivano al mondo militare e a quello delle grandi corporazioni, divennero poi uno strumento di comunicazione. Poteva accadere qualcosa di simile anche per i dati che riguardano noi stessi?"
Nonostante il movimento si sia sviluppato in modo del tutto imprevisto, come ammetteranno anche i suoi fondatori, da subito emerge questa nuova possibilità di raccogliere bits che parlano dell’uomo.
All’inizio gli esperimenti e le pratiche di misurazione saranno molto low tech e fatte totalmente in prima persona, con il computer utile solo per l’archiviazione di informazioni inserite “a mano”. Con l’avanzare del progresso tecnologico, l’enfasi cadrà man mano sul far sì che siano gli strumenti a raccogliere dati in modo automatico.
" […] Un giorno Kevin distribuì un invito aperto per le persone che condividevano i nostri interessi perché venissero a quello che chiamammo ‘Show&Tell’ presso il suo studio. Creammo quindi un gruppo Quantified Self su MeetUp, senza fare altro tipo di pubblicità. Vennero 30 persone. Molti portarono progetti assolutamente affascinanti. Il grado di conoscenza e di curiosità era incredibilmente elevato. Ben presto capimmo quello che stavamo operando in un nuovo modo. Stavamo facendo uno ‘users group’.
[…] Gli users group, se ben assemblati, sono strumenti meravigliosi: comunità informali ma fortemente motivate nell’apprendimento, operanti al di fuori dell’autorità accademica e commerciale. Qui al Quantified Self, vogliamo ricreare un ambiente dove le nuove potenzialità del mondo tecnologico possano essere esplorate ad un livello umano" (quantifiedself.com).
Agli albori del movimento nel 2007, gli unici devices sul mercato di massa facilmente riconducibili al mondo “Quantified” erano prodotti dalla Nike, all’interno della famiglia Nike+ (figlia della mente brillante dell’italianissimo Roberto Tagliabue).
Lo sviluppo del QS nel tempo (facilmente apprezzabile su Google Trends) si è verificato proseguendo a stretto contatto con lo sviluppo di nuove tecnologie indossabili “quantificatrici”, come il famoso FitBit, la cui prima versione risale al 2008, oppure il primo Jawbone UP del 2011, a cui seguì nel 2012 il terzo activity tracker per diffusione e fama: il Nike Fuelband, oramai fuori produzione.
Per scoprirne di altri basta andare nell’apposito store di wearable technology di Amazon, dove si troveranno una miriade di questi gadgets.
I più diffusi sono sicuramente i cosiddetti activity trackers, ovvero oggetti contenenti un semplicissimo accelerometro (quel sensore che hanno tutti gli smartphones e che serve a ruotare lo schermo), in grado appunto di convertire in dati i movimenti di chi lo indossa. Nel tempo questi strumenti sono stati accompagnati da algoritmi sempre più accurati in grado di distinguere una moltitudine di attività diverse in base al tipo di movimenti: nascono così le possibilità di monitorare, oltre l’attività fisica, anche il sonno, il tempo passato in piedi, seduti o camminando.
Ma questi sono gli esempi più banali, altro ambito che ha acquistato molta importanza nel tempo dentro il movimento del QS è quello relativo al mood tracking, ovvero al rilevamento di emozioni e stati d’animo. Anche qui al principio i tipi di monitoraggio erano decisamente low tech e si rendevano possibili tramite piattaforme come Moodscope o app come Expereal, database in sui sono appunto le persone a dover immettere manualmente i dati. Anche in questo ambito però il progresso e l’automazione arrivano dirompenti ed oggi il tracking delle emozioni comincia a diventare automatico grazie alla tecnologia che ricopre la nostra pelle, dove esempio di spicco è l’eccellenza italiana Empatica di Matteo Lai, che produce uno smartband in grado di monitorare, assieme ad altri aspetti, la fisiologia emotiva dell’indossatore.
Altro grande ambito è il food tracking, ancora alla ricerca di un suo strumento che lo renda completamente automatico. I prodotti di consumo non sono ancora in grado di “scannerizzare” il cibo, ad ogni modo c’è chi già si immagina scenari prossimi dove questo sarà possibile, come nel progetto Tellspec. Tutto ormai può essere convertito in dati e nel futuro questo misurare risulterà sempre più automatico, semplice ed invisibile.
In ultima istanza non si può definire quanto il Quantified Self sia creatore di una tendenza o esso stesso fenomeno riflesso di una trasformazione culturale. Rimane comunque evento fondamentale in quanto testimone di un cambiamento di impatto globale: il singolo individuo inizia ad indagare la propria identità servendosi della tecnologia.
Chi sono? Come sono? Sono domande che iniziano a cercar risposta in bits, sottolineando come l’ibridazione fra biologico e tecnologico oltre che sul piano fisico, quindi esteriore e visibile, si vada a spingere nel profondo del dominio psicologico, invisibile ed immateriale.
La scelta di Apple di lanciarsi nel mondo wearable mette a tacere una volta per tutti gli scettici sul salto mainstream dei nuovi devices a contatto con il corpo, tuttavia il passaggio logico dal mondo della quantificazione del Sè, allo sviluppo del progetto Watch non è così diretto e semplice.
Fra i semplici bracciali misuratori e il mondo degli smartwatches ci sono un bel po’ di differenze: di uso, di specifiche e di design. Ad ogni modo è innegabile come il trend della salute digitale, messo in moto da tutto il fenomeno Quantified Self, sia stato saggiamente letto dall’azienda di Cupertino, che ha difatti deciso di sviluppare le sue tecnologie in questa direzione. Lo dimostra la creazione di tutto il sistema software Health, assieme al sensore cardiaco inglobato in Watch, e le sue chiare possibili applicazioni in ambito medico.
Nell’immediato futuro potremmo noi stessi tenerci sotto controllo, in forma di bits. Potremmo visualizzare la nostra salute, condividerla con i nostri medici e anche con i nostri amici.
L’era della personal medicine si sta inevitabilmente avvicinando, ma con sensori, processori e schermi a portata di polso tutto, e più di tutto, sarà possibile: "Possibilities are endless" dice lo stesso Tim Cook nell’evento Apple citato all’inizio.
Questo comporta trepidazione negli tech enthusiasts e sconforto nelle persone più conservatrici, tuttavia sembra che nessuno inizi ad occuparsi approfonditamente delle questioni fondamentali di questa inevitabile ibridazione fra biologico e digitale, ovvero il problema di quali siano prima il senso e poi le ripercussioni della cospicua introduzione di tecnologia nella nostra sfera biologica.
Certo la finalità della tecnica dovrebbe essere quella di aumentare le capacità umane. Allo stesso modo in cui i primi strumenti nella preistoria hanno aggiunto nuove possibilità operative al corpo, ad oggi le nuove tecnologie offrono la possibilità di aumentare le nostre capacità fisiche e mentali.
Tutto ciò sembra ovvio e, per di più, auspicabile, ma sebbene i primi utensili della preistoria aggiungessero al corpo capacità di taglio, senza apparentemente precludere altre potenzialità, l’apporto che oggi invece attua l’innovazione digitale, sembra portarsi dietro sempre delle controindicazioni; dei side effects per dirla all’inglese.
Il discorso sugli effetti negativi dell’innovazione tecnologica è ampissimo e per essere trattato servirebbe prima di tutto più spazio, oltre che ad un background anche diverso per quanto riguarda chi scrive. Rimane tuttavia doveroso porre la questione, cercando di circoscrivere alcune problematiche di fondo e sperando di invogliare i colti lettori e contributori di questo sito a continuarne la discussone.
Per fare quanto detto sopra, ci si limiterà a proporre un esempio tanto povero di natura scientifica, quanto (si spera) eloquente.
(continua nella seconda e terza parte)
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