Il resoconto dell’evento del 5 novembre 2012 in Fondazione Giannino Bassetti, tra parole e immagini della serata
La presentazione del primo volume della collana sull’Innovazione Responsabile, a cura del Centro per l’Innovazione e lo Sviluppo Economico (CISE) – Azienda Speciale della Camera di Commercio di Forlì e Cesena, presso la sede della Fondazione Giannino Bassetti a Milano è stata l’occasione per riunire in discussione attorno al tavolo diversi attori e componenti del mondo che ruota attorno al concetto di responsabilità nell’innovazione. Un momento particolarmente importante per la Fondazione, la cui mission si esplica proprio nella riflessione a più livelli su questo tema.
Il presidente Piero Bassetti ha aperto l’incontro ricordando l’interesse della Fondazione, fin dalla sua nascita e dalla stesura del suo statuto, ai concetti di innovazione e di responsabilità, termini ora ormai usati (se non abusati) in diversi campi.
Lo sforzo fatto da soggetti nazionali e internazionali nel discutere e nel mettere in pratica in maniera concreta e operativa cosa significhi comportarsi da ente, istituzione, impresa responsabile ha portato e porterà a far convergere attorno alla Fondazione Bassetti diversi attori, come il CISE, nel tentativo di creare una rete comune di riflessioni e attività. La collana edita del CISE è quindi un perfetto esempio di connubio tra la concretezza di creare uno strumento operativo come la certificazione e la necessaria robustezza teorica alla base che un passo di questo tipo, quasi un cambio di paradigma, richiede. La presentazione del libro diventa quindi spunto per il confronto sul contesto allargato dell’innovazione responsabile e di tutte le sue possibili declinazioni, entro cui la pubblicazione si colloca:
Voce del CISE per la presentazione deI volume è stato Luca Valli, che aveva già raccontato al sito della Fondazione gli obiettivi e lo scopo della collana:
Durante la presentazione, Valli ha posto l’accento sulla scelta effettuata dal CISE, di cui è Direttore, attraverso l’ideazione dello strumento della certificazione UGO. Una decisione maturata dopo l’esperienza come ente certificatore per aziende nazionali e internazionali, ma soprattutto dalla profonda consapevolezza del carattere particolare che le imprese innovative hanno: gli impatti, le implicazioni e quindi le responsabilità che può avere un’impresa a carattere innovativo non si riverberano esclusivamente sui lavoratori di quell’azienda, ma investono anche e soprattutto l’intera società, e a più livelli. Da qui l’idea di provare a scandagliare l’universo delle certificazioni o delle regolamentazioni, anche più stringenti, già esistenti per capire se vi fosse già in atto nel mondo un protocollo legale di hard o soft law per imprese capaci di farsi carico della responsabilità nell’innovazione e di inglobarla nel proprio biglietto da visita come presentazione verso l’esterno. La mancanza di un percorso già strutturato in questa direzione ha spinto allora il CISE a provare a immaginare uno strumento certificativo volontario per aziende innovative virtuose, chiamandolo UGO:
La sfida per il CISE era creare uno strumento che non sclerotizzasse il mondo dell’innovazione, imponendo schemi descrittivi precostituiti poco flessibili. Spesso gli approcci certificativi hanno infatti dimostrato, nell’applicazione e nell’esplicazione concreta, una certa semplificazione del campo che vanno a normare. Evitare il riduzionismo nella creazione della certificazione UGO, ha raccontato Luca Valli, ha quindi significato tenere conto dell’importanza dell’interazione e della relazione con gli stakeholders in tutti le fasi del momento innovativo, dalla sua ideazione fino alla gestione finale del prodotto innovativo. Inoltre, in casi di prodotti innovativi particolarmente delicati da gestire e che ricadrebbero sotto il principio di precauzione, la certificazione UGO è stata concepita come mezzo non per bloccare la messa in atto dell’innovazione, ma come strumento esplicito di presa in carico della responsabilità che quell’innovazione comporta. UGO infatti impone il finanziamento di ricerche indipendenti sugli effetti sulla collettività non ancora noti del prodotto innovativo che si vuole sviluppare:
Simone Arnaldi, sociologo e coordinatore del Centro per le decisioni giuridico-ambientali e la certificazione etica d’impresa (CIGA) e contributor al I volume della collana del CISE, ha inserito il concetto della certificazione UGO all’interno di un quadro più complesso costituito dalle dinamiche di partecipazione nelle controversie tecnico-scientifiche, entro cui l’innovazione si pone. La partecipazione, come molti studiosi dicono (tra cui Pierre-Benoit Joly, dell’INRA francese), non è risolutoria di per sé perché non riesce a orientare le controversie tecnico-scientifiche. Può però aiutare a fare ordine nella pluralità di voci dei soggetti coinvolti e a far riconoscere più chiaramente il contesto entro cui le istanze dei portatori di interesse si manifestano. L’idea di certificazione, nell’esperienza UGO, arricchisce il concetto di partecipazione, concependolo come un processo altamente dialogico in tutte le sue fasi, anche perché continuo nel tempo:
Sulla base degli spunti offerti da Luca Valli e Simone Arnaldi, Piero Bassetti ha aperto il dibattito riprendendo i punti salienti degli interventi e allargando la riflessione sulla problematicità della governance, secondo diverse prospettive (legale, amministrativa, dell’impresa, dei cittadini), dell’improbabile e dell’ignoto, caratteristiche peculiari degli esperimenti innovativi.
Daniele Balboni, di Caffè Scienza di Milano, ha chiesto ai relatori se il cambio di paradigma, così come quello offerto dal CISE con il suo strumento certificativo, non sia un processo che debba iniziare fin dalle prime fasi di formazione del cittadino, ovvero fin dall’ambito scolastico.
Simone De Battisti, advisor di Start Up Italia Camp, invece ha allargato il concetto di partecipazione alla decisione attraverso l’utilizzo delle tecnologie offerte da internet. Sulla base di esperienze già consolidate, la wikicrazia può significare il governo e la gestione di progetti da portare avanti mediante l’agorà tecnologica della rete, che diventa mezzo di sapere e conoscenza, ma allo stesso tempo strumento di potere, in quanto a disposizione e a libero accesso di tutti:
Renato Mattioni, della Camera di Commercio di Monza e Brianza, ha parlato di una vera e profonda rivoluzione imposta dall’innovazione, che è ontologica e costitutiva, e non solo basata sul semplice utilizzo di un nuovo strumento. Questo cambio così radicale richiede allora nuovi processi di governo, anche nel concreto, come bandi di sostegno adatti e flessibili e sistemi di credito ad hoc per le aziende che scommettono sull’innovazione.
Lo standard UGO può trovare collocazione in questo nuovo contesto, come mezzo di accreditamento nei confronti del consumatore e come driver economico, perché assegna uno status particolare alle imprese che si conformano ai parametri stabiliti della certificazione.
Paolo Zanenga, della TVG Consulting, ha invece contribuito alla discussione sull’etica sistemica e situata: secondo Zanenga, ormai i due livelli si sovrappongono perché è necessario che il comportamento da parte di un’impresa sia eticamente sistemico e diffuso, così come la conoscenza è ormai prodotta e costruita a livello sia situato che sistemico, e soprattutto in maniera continua nel tempo. Da questo deriva che forse, secondo il parere di Zanenga, sia più corretto certificare (avendolo prima definito) il contesto entro cui l’innovazione nasce e cresce, più che l’impresa singola:
Roberto Calugi, della Camera di Commercio di Milano, ha gettato uno sguardo trasversale sul libro, ponendo in primo piano la rilevanza della governance della tecnica, che deve servire a garantire che l’innovazione sia sempre responsabile. Andando sul concreto, si è spinto a chiedere se UGO ha una spendibilità sul mercato e quindi se le imprese sono pronte a assimilare uno strumento di questo tipo.
Daniele Colombo, di Innovhub, allo stesso modo ha ripreso i dubbi sollevati da Calugi: la certificazione UGO ha senso per tutte le imprese innovative? Se, per esempio, per l’ambito biomedico, con i rischi connessi alla salute umana e all’ambiente, è evidente che gli impatti sociali ed etici che si possono avere richiedono un comportamento da parte delle imprese all’insegna della responsabilità, forse alcuni settori non hanno necessità di passare attraverso lo standard UGO. Inoltre, secondo Colombo, il mezzo regolativo potrebbe rallentare l’esigenza delle imprese di andare in tempi congrui sul mercato, ostacolando il time to market. Infine la presenza e partecipazione in tutte le fasi dello sviluppo del prodotto di stakeholders, se non dell’intera comunità, potrebbe essere, da una parte una barriera per il mantenimento della riservatezza aziendale, e dall’altra un’inutile esercizio di discussione, laddove l’allargamento dell’arena dialogica viene concretizzato nell’inclusione di attori non competenti:
Piero Bassetti ha invitato allora a guardare all’importanza della responsabilità dell’innovazione dal punto di vista del consumatore e del cittadino. E, a partire da questo sguardo, cercare di trovare un punto di incontro con le esigenze delle imprese.
Francesco Samorè, direttore scientifico della Fondazione Giannino Bassetti, ha ricordato il cammino intrapreso dalla Fondazione nel dialogo e nell’attività con le altre realtà coinvolte nel riflettere sull’innovazione responsabile. Lo sforzo operato dalla Fondazione non è altro che il tentativo di definire il perimetro dell’innovazione responsabile, sia in termini di contesto, sia in termini di attori e soggetti coinvolti.
Gianandrea Giacoma, interaction designer, a partire dalla sua esperienza professionale e accademica, ha portato all’attenzione la questione del limite e del senso di frustrazione rispetto al limite che il rapido evolversi della conoscenza e dell’innovazione stanno creando: in un mondo in cui è richiesto di essere più efficaci nel minor tempo possibile, una corretta gestione di questa spinta, che procede in modo non graduale ma esponenziale, deve prevedere un profondo cambiamento che coinvolge tutti come singoli,. E deve poggiarsi sulla capacità di ognuno di rifondare il proprio contributo nel mondo in cui si vive e si interagisce con gli altri
Paolo Zanenga ha poi ripreso il discorso dell’importanza di considerare la necessità dell’innovazione per tutte le imprese, anche per le piccole e le medie.
Angela Simone, come studiosa di scienza e diritto, ha invece posto l’accento sull’importanza che uno strumento di questo tipo potrebbe avere in campo più strettamente legale ad ampio raggio. La certificazione, così com’è concepita nello standard UGO, di fatto impone dei vincoli comportamentali che rendono UGO una sorta di codice deontologico per le imprese. L’assimilazione potrebbe essere colta, in una chiave interpretativa delle fonti del diritto ampia, come uno strumento che potrebbe essere impugnato dai cittadini nei luoghi in cui le controversie tecno-scientifiche sempre più spesso vengono risolte quando la governance fallisce, ovvero in sede giudiziale. Inoltre, Simone ha chiesto a Valli come e se sia inserito il concetto di brevetto, indicatore di innovazione secondo alcuni modelli economici ormai contestati dall’avanzamento della cultura open (ampiamente discussi nel sito della Fondazione Bassetti), nella certificazione UGO, secondo una prospettiva di responsabilità.
Virginia Sanchini, studiosa di bioetica ed etica teorica, ha sollevato la questione, da un punto di vista filosofico, dell’apparente paradosso generato dalla certificazione UGO che da una parte invoca un coinvolgimento alla partecipazione e alla discussione dal basso, dall’altra sembra nel concreto incarnare una sorta di imposizione di set valoriali pregressi e pre-scelti che rischiano di creare comunque uno strumento non neutrale e incapace di
cogliere il pluralismo cercato:
Luca Valli, rispondendo alle numerose sollecitazioni sollevate dal dibattito ha chiarito alcuni punti fondamentali su cui continuare a riflettere e discutere, sia nei volumi che completeranno la collana, sia in ulteriori eventi sedi di confronto. Secondo Valli, l’innovazione non è mai un fatto neutro, perché la modalità con cui si immette l’innovazione non puà non essere neutra. Nello sforzo esplicato dallo standard UGO, la governance dell’innovazione passa nell’assunzione di alcuni fini ritenuti dalla comunità più accettabili di altri. Quindi viene operata una scelta, necessaria, ma in un’ottica di scelta partecipata e condivisa. D’altra parte, UGO è un tentativo nelle sue fasi iniziali e alla prova della tenuta nella concretezza, che a sua volta si pone in un contesto in divenire. Per questo è stato concepito come altamente flessibile e modulabile alle esigenze concrete e sollevate dalla collettività.
Anche Simone Arnaldi ha provato ad aggregare le risposte ai vari quesiti sollevati, sottolineando come la trasformazione imposta dall’innovazione è un processo sistemico che coinvolge diverse parti, per cui la responsabilità ha una dimensione collettiva, non solo nell’accezione interpretativa di Hans Jonas (Di chi è la colpa?). Allora in questo contesto anche l’educazione dev’essere portata avanti da una rete di soggetti, in cui ciascuno ha il proprio ruolo, e in cui anche i cittadini non esperti e non formati hanno voce in capitolo, con il loro portato di sapere personale ed esperienziale. Attraverso modalità di espressione che la partecipazione deve ancora creare e consolidare:
Piero Bassetti ha infine concluso la discussione tirando le fila di quanto emerso durante la serata. Innanzitutto, i vari contributi hanno evidenziato la sensatezza di un mezzo come lo standard certificativo. Da una parte perché in un contesto variegato come quello delineato dall’innovazione responsabile non esiste una sola e definitiva soluzione. Dall’altra perché, se lo standard è concepito come declinabile per il caso singolo dell’impresa e flessibile all’evoluzione della stessa, può davvero essere uno strumento fondamentale per la governance responsabile dell’innovazione.