La sentenza che ha condannato a sei anni di reclusione i componenti della Commissione Grandi rischi per omicidio colposo, disastro colposo e lesioni personali ha fatto scalpore in Italia e all’estero, suscitando sentimenti contrapposti. Una panoramica delle posizioni apparse sui giornali.
Per capire quanto l’opinione pubblica e il Paese si siano divisi, basti leggere l’intervento del matematico Piergiorgio Odifreddi (che peraltro attribuisce la condanna alla mancata previsione del sisma, mentre è chiaro che sotto accusa era la cattiva comunicazione nei giorni precedenti al terremoto) e l’articolo scritto dal giornalista Giustino Parisse, che nel terremoto ha perso due figli.
Si tratta certamente di due estremi, fra i quali si sono tuttavia collocate molte posizioni intermedie. In generale, i media esteri, che hanno seguito le diverse fasi del processo più di quelli italiani, hanno riassunto i fatti esprimendo sorpresa per la sentenza, e sottolineando che mai un organismo consultivo incaricato di dare un parere tecnico ha subito un verdetto così pesante. Lo ha fatto il Guardian, che parla di «una incredibile condanna a sei anni», precisando però poi che il pasticcio italiano «è frutto di una storia nota – politici, esperti e media si uniscono in un maledetto mix che determina disinformazione e cattiva comunicazione» (a questo proposito, ricordiamo l’intervento tenuto a Firenze da Franca Davenport, al seminario della Fondazione, nell’ambito del PCST 2012). E lo ha fatto il New Scientist, che in un editoriale sottolinea che non si è trattato di una verdetto antiscientifico, ma di una condanna a una certa modalità di comunicare, che in passato ha determinato, o fortemente condizionato, questioni quali la BSE, le controversie su vaccini e OMG e così via. (Per chi avesse poi la curiosità di conoscere lo stato dell’arte sulla previsione dei terremoti, la stessa rivista ne parla in un articolo).
Di una condanna alla comunicazione inefficace hanno parlato anche Pietro Greco su L’Unità («La tesi ripresa dalla Procura, che accusa la Commissione di cattiva comunicazione del rischio sismico, è di non aver detto compiutamente tutto quello che gli esperti, in scienza e coscienza, sapevano») e Stefano Rodotà su La Repubblica («Il punto chiave diventa quello delle modalità delle informazioni fornite e del modo in cui queste erano state elaborate»).
Ma l’analisi più completa e accurata dell’intera vicenda è senz’altro quella di Nicola Nosengo, che ha seguito l’intero processo per Nature, e ha fatto una valutazione della sentenza per il sito Scienzainrete. «Un processo penale va commentato con gli argomenti del diritto ben prima che con quelli della scienza. Questa condanna mi pare sbagliata non perché “antiscientifica”, ma perché giuridicamente poco fondata. Manda (manderebbe, se confermata) in galera sette persone per una accusa pesantissima senza prove abbastanza solide per farlo», scrive Nosengo, che più oltre spiega: «il processo ha provato oltre ogni ragionevole dubbio che quei 29 cittadini de L’Aquila oggi sarebbero sicuramente vivi se quei 7 imputati avessero fatto qualcosa di diverso? Mi pare che la risposta sia no. Gran parte dell’accusa si basa su ciò che altri ricordano sui motivi delle decisioni prese dalle vittime ormai anni fa. […] La condanna si basa su una idea di “responsabilità collettiva” che, sospettiamo, non reggerebbe un giorno in tribunali di altri paesi […].Condannare qualcuno e assolvere qualcun altro sarebbe stato forse altrettanto ingiusto, ma avrebbe almeno dato il senso che 13 mesi di processo siano serviti ad analizzare, distinguere responsabilità, dare indicazioni per un futuro ripensamento della prevenzione dei rischi, che deve per forza partire da maggiore chiarezza di ruoli: dove si fermano le responsabilità dei consulenti scientifici, dove iniziano quelle della politica, a chi spetta il compito di tradurre l’incertezza della scienza in una comunicazione efficace ai cittadini?».
Un altro polo del dibattito ha riguardato le conseguenze della sentenza. Ne hanno discusso, fra gli altri, il New York Times e il Wall Street Journal, sottolineando entrambi che un verdetto del genere potrebbe spingere gli scienziati a non assumersi più la responsabilità di far parte di commissioni per la valutazione dei rischi, per paura di essere poi sottoposti a processi analoghi. A questo proposito, Nature ha ricordato che al momento della sua nomina a presidente della Commissione Grandi Rischi, Luciano Maiani (che dopo la sentenza ha dato le dimissioni, in seguito rientrate) aveva chiesto che ai membri dell’organismo fosse offerta una tutela assicurativa e un’assistenza legale, simili a quelle presenti in altri Paesi, e che tuttavia da noi non sono state concesse.
Preoccupazioni simili sono state espresse anche in Italia, forse ispirate da un comunicato che l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha diramato immediatamente dopo il verdetto, nel quale si legge: «La sentenza dell’Aquila rischia di compromettere il diritto/dovere degli scienziati di partecipare al dialogo pubblico tramite la comunicazione dei risultati delle proprie ricerche al di fuori delle sedi scientifiche, nel timore di subire una condanna penale. Quale scienziato vorrà esprimere la propria opinione sapendo di poter finire in carcere?». Si esprime in modo molto simile Stefano Rodotà su Repubblica quando scrive: «Quali studiosi accetteranno domani di far parte della Commissione Grandi Rischi?». Rodotà vede il rischio di una “geologia difensiva” non dissimile dalla medicina difensiva, nella quale i medici, per evitare guai legali, prescrivono esami inutili e somministrano terapie inefficaci. Nella gestione del rischio sismico, questo si tradurrebbe in «un regime di allarme permanente e generalizzato, non filtrato da alcuna valutazione scientifica [che] può alterare le dinamiche sociali, produrre costi ingiustificati».
Il timore di una commissione di cui nessuno vorrà far parte è stato espresso anche da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, in un editoriale che ha anche introdotto il tema delle mancate sanzioni date ai costruttori e agli amministratori che hanno permesso che all’Aquila si costruissero case poco sicure. Citiamo questo argomento solo per la grande rilevanza che ha avuto su alcuni media, ma è chiaramente fuorviante, come rileva Nosengo: «Non basta dire che “i veri responsabili sono quelli che hanno costruito le case”. É vero, ma non è tutta la verità. Come può confermare il primo giapponese fermato per strada, la preparazione al rischio sismico ha due gambe, ugualmente importanti: l’edilizia antisismica e l’educazione al rischio dei cittadini. In Italia mancano entrambe, e se manca la seconda è in buona parte perché in passato le autorità (non senza qualche aiuto da scienziati di vaglia) hanno quasi sempre scelto lo stile di “comunicazione” visto a L’Aquila».
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(foto: L’Aquila di Michal Chromy da Flickr)