Con questo Diario abbiamo scelto di soffermarci su due Call for Comments che, nell’ultimo periodo, sono stati assi portanti di quanto pubblicato nel sito della Fondazione Bassetti.
Ne approfittiamo per ricordare che tutti i Call for Comments sono sempre raggiungibili dall’interno della sezione Argomenti (che è il nucleo del sito): sono elencati nel box intitolato “I Blog e i Call For Comments che orbitano attorno a questa sezione“.
Il primo CfC, svoltosi tra Settembre e Ottobre 2003 e condotto dal sociologo Giuseppe Pellegrini, è stato sviluppato nell’ambito del progetto “Partecipazione pubblica e governance dell’innovazione. Una proposta di sperimentazione istituzionale sul tema delle biotecnologie“. Come già accennato nel precedente Diario, il proponimento era di raccogliere commenti rispetto ad una innovativa esperienza di policy.
La Regione Lombardia ha infatti chiesto alla Fondazione Bassetti di verificare se un’istituzione democratica, di fronte all’esigenza di prendere decisioni dalle complesse implicazioni politiche e di consenso, possa migliorare i propri metodi decisionali. Questo coinvolgendo concretamente, sul tema dell’innovazione in campo biotecnologico, varie categorie di soggetti (imprenditori, scienziati, policy maker, associazioni di consumatori, associazioni ambientaliste).
Pellegrini ha avviato il CfC con un intervento che poneva tre domande: sulle garanzie che la Regione Lombardia potrebbe dare circa le scelte sugli OGM, sulle modalità e le procedure di coinvolgimento e su come articolare l’interazione dei soggetti interessati.
Gli intervenuti al dialogo on line che ne è derivato hanno tentato di rispondere alle tre domande senza nascondere le difficoltà ad affrontare una tematica tanto complessa, tematica complicata anche dai pregiudizi e dai preconcetti che avvolgono l’argomento delle biotecnologie, già molto acceso e spesso strumentalizzato dalle parti sociali che si confrontano. Sgombrato il campo dalla diatriba fuorviante del “pro o contro OGM”, nel corso del dibattito sono stati fatti (non solo da parte di Pellegrini, ma anche da parte degli stessi intervenuti) altri chiarimenti e precisazioni per evitare che il tema degli OGM fosse inconsapevolmente sovrapposto a quello delle biotecnologie, più ampio e complesso, e per chiarire quale sia la distinzione (e se davvero esiste) tra “attori interessati”, “stakeholders“, e “grande pubblico”.
Infatti, uno dei punti cruciali si è rivelata la necessità di precisare i ruoli dei possibili attori nel contesto democratico: “sarebbe opportuno che preliminarmente venissero chiariti gli interessi di riferimento dei partecipanti al dibattito (…) un rappresentante di Assobiotech è chiaro che si rifa agli interessi delle aziende biotecnologiche, ma vi sono altri interessi non sempre altrettanto trasparenti” (Marlene Di Costanzo).
D’altra parte, c’è stata concordanza nel ritenere che esistono forti pressioni economiche, politiche ma anche culturali: nei tentativi di divulgazione e coinvolgimento per realizzare una democrazia deliberativa, spesso c’è l’ombra della manipolazione nella conduzione o della faziosità nelle interpretazioni. Da ciò potrebbe derivare un calo di fiducia nelle possibilità non solo di coinvolgere il grande pubblico ma anche di informarlo correttamente. In ogni caso, la necessità di informare prima ancora che coinvolgere è stato uno dei temi più ricorrenti nel CfC. L’informazione corretta e diffusa è stata in più interventi giudicata come preferibile rispetto agli sforzi di coinvolgimento, anche se ai più scettici non è certo sfuggito che possibilità di manipolazione sono annidate proprio nei più comuni canali di comunicazione: “La gente comune non sarà mai sufficientemente informata, anche perché pare non lo siano gli stessi esperti dei vari settori. Inoltre come trascurare l’aspetto manipolatorio dell’informazione? E le reazioni impulsive, non dettate da un ragionamento razionale?” (Ricky Spelta).
Margherita Fronte ha fatto notare che: “Gli studi sull’accettabilità sociale degli ogm tuttavia ci dicono che la popolazione non chiede il rischio zero (si veda in particolare lo studio PABE, di cui si è già parlato in questo sito). Chiede però che la gestione della questione sia trasparente. In altre parole, non chiede garanzie sulla sicurezza degli ogm, ma chiede garanzie che i processi della democrazia siano rispettati”.
Infatti, molte delle esperienze fatte in campo di democrazia deliberativa, nel senso di utilizzo di modalità di discussione, dialogo e confronto fra parti unite in un unico consesso, non necessariamente hanno avuto un esito determinante sui decisori, ma hanno costituito un superamento della rigidità del principio di rappresentanza democratica.
Pellegrini in prossimità della conclusione del CfC si è fatto portatore di una visione in positivo: “Ritengo che, al di là dei rischi menzionati, connessi a queste campagne d’informazione, si possa mettere in luce lo sforzo di creare luoghi di dibattito e conoscenza del territorio, che permettono partecipazione e possono sviluppare maggiore consapevolezza nei cittadini”.
Va infine messa in rilievo la considerazione (più dichiarata che dibattuta) di Carlo Crocella che pone l’accento sulla necessità di elaborare un metodo per “regolare e garantire la possibilità simultanea di stili etici divergenti. Non si pensa più ad un insieme di regole e principi in grado di generare sempre la scelta corretta. L’idea è piuttosto quella di uno spazio pubblico delle etiche, di natura variabile a seconda delle circostanze, nel quale confrontare ragioni e tecniche morali differenti”.
Oltre alle persone citate, al CfC hanno partecipato: Mauro Belcastro, Vittorio Bertolini, Carla Corazza, Saro Cola, Enrico (senza cognome), Vincenzo Lungagnani, Leone Montagnini, Daniele Navarra, Fabio Niespolo, Paola Parmendola, Eleonora Sirsi, Alphonse Vajo, Elisabetta Volli.
Il secondo Call for Comments, sviluppatosi fra Ottobre e Dicembre e condotto dal sociologo Massimiano Bucchi, è stato dedicato alle tematiche mosse dal sociologo Bruno Latour. Come si diceva anche nel precedente Diario, questo CfC, intitolato “No Innovation without Representation (A Parliament of things for the new Technical Democracies)“, ha svolto la funzione di introdurre, affiancare e sviluppare gli argomenti che Latour ha trattato nel suo saggio “What rules of method for the new socio-scientific experiments?” e che ha discusso a Milano, su invito della Fondazione Bassetti e della Scuola di Dottorato di ricerca del Politecnico, il 17 novembre. Dalla sezione Argomenti del sito è raggiungibile, oltre che il CfC, la documentazione di questo evento.
Al CfC hanno partecipato, con interventi sia in italiano che in inglese, Vittorio Bertolini, Marcello Cini, Nicola Colotti, Barbara Conrad, Bruna De Marchi, Marlene Di Costanzo, Paolo Landoni, Fabian Muniesa, Andrea Pozzali, Sergio Roic, Alberto Schena.
Il punto che si è rivelato centrale nella discussione riguarda l’ipotesi di Latour sulla necessità di formare delle Tribune Ibride o Parlamenti delle cose in cui le decisioni che coinvolgono scienza e politica, vengano prese secondo nuove disposizioni politiche, da nuove forme di rappresentazione e rappresentanza.
D’altra parte, segnala Pozzali, “there is no doubt that nowadays science and technology ‘interest everyone and concern everyone’ and that decisions concerning science and technology are increasingly entering into the political agendas”.
Latour infatti parla di esperimenti collettivi che ormai vengono svolti fuori dai laboratori, a scala “uno a uno” e in tempo reale. Esperimenti che riguardano la società umana e la natura, alle quali però non è consentito partecipare alle decisioni in modo adeguato.
Muniesa, per anni coinvolto nel CSI, “Center for the Sociology of Innovation” di Parigi, chiarisce subito questo punto: “Many empirical investigations that have been recently conducted at the CSI are indeed inquiries into real scale collective experiments. I am thinking, among others, of Jim Dratwa’s thesis on the “precautionary principle”: he traced the elaboration of EU official statements on the precautionary principle as a collective experiment on the construction of Europe. But there are many others: Emmanuel Didier’s history of statistical sampling (the extension of the statistical laboratory to all “society”), Emilie Gomart’s study on experiments with methadone, Vincent Lépinay’s thesis on the circulation of financial formulas in markets, Dominique Linhardt’s work on 1970’s leftwing terrorism as a collective experiment on the strength of the State, Yannick Barthe’s thesis on the politics of nuclear waste, or my own work on electronic trading in financial markets, etc”.
Roic vede nei dettami del glocal (decentramento, reti, pari opportunità…) la possibilità di affrontare queste questioni. Egli appoggia l’idea che un pensiero glocal possa rispondere al superamento della modernità e del “centralismo” senza volto e senza responsabilità, ma alla fine del ragionamento, lui stesso si pone la seguente domanda: concretamente, come fare?
Il dibattito on line, si è in effetti sviluppato proprio attorno a tale questione, con proposte e osservazioni parallele. Di Costanzo, segnalando la irreversibilità degli esperimenti socio-scientifici di cui parla Latour suggerisce che dovrebbe prevalere un atteggiamento più prudente, mettendo in atto soluzioni (o presunte tali) su scala minore. Bertolini ravvisa un dubbio di fondo per il glocal, chiedendosi fino a che punto il “locale” è in grado di pensare globalmente e poi aggiunge: “il motto del glocal è agire localmente ma pensare globalmente, ma molte volte ho l’impressione che si voglia agire globalmente pensando localmente. Come nel caso di quando vogliamo esportare verso i paesi subsahariani le nostre diffidenze verso il transgenico”.
Pozzali, facendo notare che le scelte in questi campi hanno la possibilità di portare a mondi differenti a seconda della strada intrapresa, propone un processo lento: serve una riflessione allargata e un dibattito, per realizzare nuovi sistemi di norme e procedure e corpi di controllo; senza però portare alla paralisi l’attività scientifica e tecnologica.
Resta evidente come tra i partecipanti al CfC ci sia stato accordo sull’osservazione del fenomeno ma permangano grosse difficoltà a identificare quale possa essere la modalità di approccio alla problematica.
Per Schena la questione è da osservarsi come un fenomeno che soggiace a princìpi darwinistici: “of course ‘natural’ evolution takes a very long time, and we all are fascinated by the illusion to be able to direct or to accelerate the ‘natural’ process”.
Landoni, secondo cui natura e scienza esistono indipendentemente dall’uso che ne facciamo (impostazione contestata da Pozzali), ritiene che “the objective should be to guide science and technology development in the more interesting directions not in denying its objectivity and value or, even worst, in trying to convince that science and nature could be shaped on our will: what can be shaped is our world accordingly to the use we make of our knowledge and means”.
Colotti sottolinea che gli interessi politici ed economici e le pretese “difensive” degli ecologisti sono posizioni che si evolvono sempre verso una forma ideologica: “serve dunque una nuova vigilanza umanistica sulle tecno-scienze e sulla politica degli affari di matrice neo-liberista. Le scienze umane possono e devono tornare ad essere il luogo di elaborazione delle nuove proposte ideali e dell’affermazione della nuova cultura ecologica”.
Ma, di nuovo, torna la domanda “come fare?”.
In linea con la visone di un pensiero glocal, Latour propone dei cosmogran, una certa distribuzione dei ruoli, di funzioni, di “agencies to humans and non-humans”; ma poi fa notare una certa impossibilità di conciliazione tra gli uomini: “Nature unifies in advance and without any discussion nor negotiations; cultures divides. ‘If only, if only, so the modernist dreams, we could all be children of nature, forget about our cultural, subjective, ideological, religion divisions, we will all be unified again, we would all zoom on the one same solution.’ More nature, hence more unity. More cultures, hence more divisions”.
Così, Conrad si pone la domanda “why is there a trickling down of science but not, or way not enough, of conscience?” ed osserva che “The more we look at the differences, the more we climb up the “peculiarities’ ladder” of each group, the more divergence and hostility we find. Can we stand this hostility in our global village? I don’t think so”. E poi, in conclusione d’intervento, lancia un’esortazione: “As Mr Latour writes at the end of the complete version of this text, Europe, as a huge multicultural experimental field, now growingly united – not forgetting about its obvious growing pains – could be, if it wanted, the start of a new vision for global responsibility”. De Marchi, col suo contributo, subito precedente a quello della Conrad, indica appunto che “The risk governance debate needs to be open to multiple perspectives and acknowledge the presence of conflicting interests”.
Infine Cini interviene contrapponendo al titolo “No Innovation without Representation” la sua visione della realtà: “non si può capire il mondo senza andare al supermercato“. Cini intende mettere in luce un aspetto della realtà che ritiene essenziale: l’essere costituita sul capitale globale. Dice Cini: “La contraddizione fondamentale della società del capitale globale sta dunque nella spinta a ridurre tutto all’omogeneità indifferenziata della forma di merce, da un lato, e nella necessità di soddisfare attraverso il mercato bisogni individuali e collettivi che investono tutto l’arco infinito delle esperienze umane, dall’altro. (…) Soltanto smascherando questa patacca si potrà realizzare lo slogan, peraltro efficace, ‘No innovation without representation'”.
I due Call for Comments sono composti da numerosi interventi che spesso hanno toccato più di un argomento e attraverso cui gli autori hanno esposto una personale posizione.
Questo Diario ha dovuto necessariamente semplificare i discorsi e omettere alcuni aspetti che, anche se importanti per la ricchezza del dialogo, sono stati per loro natura collaterali rispetto alla discussione. Pertanto, invitiamo gli intervenuti che trovassero qualche loro argomentazione non sufficientemente rappresentata a scriverci.