Lunedì 18 giugno 2007, tra le ore 15 e le ore 17.30, nell’Aula Seminari del Dipartimento Studi Sociali e Politici dell’Università degli Studi di Milano, si è svolta la conversazione con il senatore Lucio Stanca. E’ stata la prima conversazione del LabInRes, il Laboratorio sull’Innovazione Responsabile nella Pubblica Amministrazione, organizzato dalla Fondazione Giannino Bassetti, dal Corso di Laurea Magistrale in Amministrazioni e Politiche Pubbliche dell’Università degli Studi di Milano e dal Centro Interdipartimentale Icona.
Indice degli interventi (clicca per raggiungerli velocemente):
Gloria Regonini
Piero Bassetti
Lucio Stanca
Piero Bassetti
Maria Luisa Villa
Lucio Stanca
Giovanni Giavazzi
Alessandro Aleotti
Lucio Stanca
Paolo Zanenga
Daniele Balboni
Marco Zamboni
Lucio Stanca
Attilio Martinetti
Lucio Stanca
Piero Bassetti
Maddalena Sorrentino
Gloria Regonini
Lucio Stanca
GLORIA REGONINI
Presidente Corso di Laurea Magistrale APP (Università Statale di Milano)
Voglio ringraziare coloro che hanno reso possibile questa iniziativa. In primo luogo il senatore Stanca e il presidente Bassetti che ha attivamente partecipato e contribuito a questa serie di seminari. Non c’è bisogno che spenda parole per presentarli. Conoscete tutti il senatore, l’avete visto da ministro nella passata legislatura. Credo di poter dire che abbiamo tifato tutti per lui in questa sua immane lotta. Il presidente Bassetti riesce a sintetizzare in sé un’esperienza imprenditoriale a tutti nota, un’esperienza di presidente nella prima giunta regionale della Lombardia, un’esperienza politica di prim’ordine, è il presidente della Fondazione con cui collabora il nostro corso di laurea magistrale ed è anche uno scienziato sociale – me lo lasci dire se la cosa non le dispiace! Questa iniziativa congiunge le energie di tre istituzioni: il Centro interdipartmentale ICONA che si occupa di innovazione nelle amministrazioni pubbliche, la Laurea Specialistica o Magistrale in Amministrazione e Politiche Pubbliche e la Fondazione Giannino Bassetti.
PIERO BASSETTI
Presidente Fondazione G. Bassetti
Noi partiamo da una convinzione: l’innovazione della e nella pubblica amministrazione, intesa come cambiamento delle strutture, dei processi, delle relazioni e nell’allocazione di vecchie e nuove risorse costituisce un elemento imprescindibile per avere politiche pubbliche più efficaci e mercati più efficienti. Allo stesso tempo, a questa convinzione si accompagna la consapevolezza che i percorsi verso l’innovazione possono generare risultati anche molto distanti dalle intenzioni iniziali con l’effetto di richiedere ulteriori cambiamenti, revisioni e interventi. Ed è qui che si inserisce la dimensione della responsabilità: un’innovazione tangibile è anche responsabile se si dota di meccanismi di consultazione, feedback e correzione che prevedono il suo monitoraggio e il suo aggiustamento, cioè se l’innovazione è realizzazione dell’improbabile. Questa è la definizione che la Fondazione Bassetti, ancora prima di nascere, aveva assunto e che quindici anni fa ha creato problemi al Consiglio di Stato. Secondo noi la “realizzazione dell’improbabile” è l’elemento caratterizzante dell’innovazione, che non è la scoperta, non è l’invenzione. L’innovazione è l’incontro tra un “plus di sapere” e un “plus di potere” che generano un fatto innovativo. Come fatto, l’innovazione condizione altri fatti e il modo in cui li condiziona non sempre è gestito con la dovuta preoccupazione e consapevolezza. Se vogliamo occuparci di questo tema, è necessario riflettere insieme a chi pensa all’innovazione, a chi la finanzia, a chi la rende possibile, la alimenta, la favorisce, la indirizza: che è la politica, intesa latu senso.
Per questo motivo, il Laboratorio sull’Innovazione Responsabile nella Pubblica Amministrazione si propone di offrire ad un gruppo selezionato di studenti della Laurea magistrale la possibilità di incontrare i protagonisti dell’innovazione pubblica in Italia, fuori però dalla classica relazione discente-docente, per confrontarsi con la diretta testimonianza delle strategie e delle difficoltà implicite in questi processi di cambiamento.
Una parte importante del confronto con gli ospiti del Laboratorio è costituita dalla riflessione follow-up, condotta dagli studenti in varie forme. La Fondazione Bassetti ha avviato un Call for Comments sul proprio sito che ci auguriamo raccolga l’interesse non solo delle persone che partecipano all’incontro di oggi, ma di tutti coloro che intendono riflettere su questi temi.
Abbiamo pensato che la persona che in assoluto potesse meglio rappresentare un testimonial per questo tema fosse Lucio Stanca, che è stato Ministro per l’Innovazione e la Tecnologia, ma anche ex Presidente dell’IBM Italia, ex Presidente dell’IBM Europa, Senatore della Repubblica e, lasciatemelo dire, anche un caro amico. Ci siamo conosciuti a New York. Abbiamo simpatizzato subito e anche per questo mi fa molto piacere averlo qui come testimonial.
Nel testo che lui ci ha anticipato “La riforma digitale per rinnovare l’Italia” si legge, tra l’altro: “Le tecnologie digitali hanno un forte impatto sulla nostra vita, promuovono nuovi paradigmi economici e organizzativi, cambiano i nostri stili di vita”. Io ho letto con piacere queste dichiarazioni, perché collimano in pieno con il pensiero della nostra Fondazione per cui se le tecnologie cambiano i nostri stili di vita hanno conseguenze, quindi comportano responsabilità. E noi vorremmo aggiungere che quelle della pubblica amministrazione la comportano in un modo specifico, perché quando la tecnologia digitale è introdotta dall’impresa è proposta al mercato che in qualche modo la presceglie e la convalida; quando l’innovazione è proposta dalla pubblica amministrazione non è sottoposta ad un “giudizio politico”, è sottoposta a giudizi di tipo tecnico, ma è in certo senso imposta, perché solo se è imposta può funzionare. Io penso, ad esempio, al caso della firma elettronica o a quello dell’autocertificazione: è chiaro che con il criterio della pubblica amministrazione, l’innovazione deve essere imposta perché sia generale. Ci sembra quindi che il tema della responsabilità, quando gestita dalla pubblica amministrazione sia ancora più interessante di quando la gestisce l’azienda o altri operatori che se ne facciano carico. Io spero che anche di questo oggi si possa parlare. Naturalmente io ho sottolineato i temi che sono di interesse della Fondazione, però so benissimo che il tema che affrontiamo oggi ha anche molti altri risvolti.
LUCIO STANCA
Ringrazio per l’invito in un sede così qualificata, ad un incontro che io considero una chiacchierata, un dialogo. Oltre alla professoressa Regonini, ringrazio Piero Bassetti che ho conosciuto nei primi anni Settanta e che ho sempre considerato, fin da quando frequentavo la Bocconi, un innovatore. Credo che la simpatia nata tra noi non sia solo umana, ma è anche dettata da un impegno comune. Per caso, come avviene spesso nella vita, mi sono occupato delle moderne tecnologie, motore dell’innovazione e di cambiamento. Mi sono quindi trovato a riflettere su tutte le implicazioni del “cambiare”, dei cambiamenti piccoli e grandi nei quali sono coinvolti imprese e società o, come nel caso di cui discutiamo oggi, la pubblica amministrazione. Mi fa sinceramente piacere parlare di un tema che ritengo tra i più importanti per il nostro Paese. Ahimé, di innovazione si parla poco e male: la questione della funzionalità, intesa nel più ampio senso possibile, dello Stato italiano e del suo braccio operativo che è la pubblica amministrazione rimane ancora aperta.
Considero la questione dell’innovazione tra i primissimi problemi da affrontare e che il nostro Paese ha cercato di risolvere, ma con scarsissimo successo. E’ chiaro che parlare di pubblica amministrazione richiederebbe – ma non è questa la sede – di parlare anche degli assetti istituzionali. Se si vuole davvero fare un esame approfondito della pubblica amministrazione bisogna analizzare tali assetti istituzionali e com’è organizzato lo Stato, partendo dalla Carta costituzionale, dai rapporti tra i livelli gerarchici (che non sono nemmeno più gerarchici con la nuova costituzione, ma istituzionali). Rapporti che pongono una serie di problemi, anche nel campo della gestione dell’innovazione. Questo è un punto estremamente importante: la governance dell’innovazione è un assetto istituzionale diverso, che prevede vari attori (ritengo addirittura che vi sia un’eccessiva pluralità di attori), con una serie di complessità che a volte rasentano la paralisi.
Rivolgo la mia attenzione all’innovazione dell’apparato organizzativo della più grande azienda – consentitemi il termine in senso lato – che abbiamo in Italia: la pubblica amministrazione, con quasi quattro milioni di collaboratori a tutti i livelli, con più di diecimila realtà di pubbliche amministrazioni, articolate nei vari assetti istituzionali, più tutti gli enti. La pubblica amministrazione è un caso unico rispetto alle altre aziende, perché è importante di per sé, avendo un peso specifico notevole nel panorama economico del Paese e, contemporaneamente, condiziona gran parte del Paese e le altre imprese sia sul piano economico, sia sul piano dell’efficienza o inefficienza (anche l’inefficienza viene imposta). C’è quindi una doppia valenza che va considerata ogni qual volta si parla di pubblica amministrazione. Non è un’impresa che va considerata di per sé, ma attraverso gli impatti sui cittadini, sulle famiglie e sulle imprese che sono la constituency a cui si rivolge la pubblica amministrazione.
Dobbiamo prima di tutto chiarire cos’è l’innovazione. Nei talk-show italiani si parla di innovazione con grande superficialità, senza mai affrontare il tema in profondità, anche in termini di politiche. Ci si limita a dire che in Italia occorre innovazione. Tutti, per creare consenso, si limitano a dire che serve l’innovazione. L’innovazione non è invenzione. E allora cos’è? Abbiamo innovazione solo quando abbiamo valore economico e/o valore sociale: quando cioè interessa la pluralità dei soggetti. L’invenzione può essere un fatto isolato, chiuso in un laboratorio, che non ha fino a quel momento prodotto valore economico e sociale. Quando, per esempio, si inventa un nuovo farmaco e questa invenzione viene – con i meccanismi che in Italia, purtroppo, sono deboli e inefficaci – trasferita al mercato (il cosiddetto trasferimento tecnologico), allora diventa valore economico: perché viene consegnata al mondo delle imprese per la sua commercializzazione, ma nello stesso tempo assume anche valore sociale perché ha un impatto sulla salute dei cittadini. Quando questo farmaco diventa – consentitemi l’espressione – un prodotto, una merce con valore economico e quando viene usata dai cittadini per il proprio benessere ha anche un valore sociale. Si può quindi parlare di innovazione quando ci si trova di fronte a questa trasformazione.
Promuovere una bellissima norma che stravolge la pubblica amministrazione e farla nel gabinetto scientifico che si chiama Parlamento, ma poi non trasferirla al mercato e alla comunità non è fare innovazione. Un esempio è il codice dell’amministrazione digitale, che esiste, ma non viene trasferito e non viene sentito come un impegno da parte dei dirigenti pubblici e dunque non diventa un’opportunità per i cittadini, che non devono solo subire l’innovazione, ma esserne attori e sostenerla con la propria domanda di nuovi servizi alle pubbliche amministrazioni. E questo è un altro grande tema: i diritti del cittadino nei confronti dell’innovazione della pubblica amministrazione. Se per esempio, nel caso della firma digitale, si può forzare l’innovazione imponendone l’uso agli imprenditori, perché sono interlocutori che devono essere preparati all’innovazione tecnologica. Se si forzano i cittadini si rischia di creare un divario digitale, per cui è necessario attuare politiche di accompagnamento e sostegno perché si compia l’alfabetizzazione informatica. Lo Stato che intenda correre avanti con l’innovazione deve comunque pensare a tutta la società in modo responsabile, con la dovuta gradualità, anche all’anziano e a coloro che per vari motivi possono avere un approccio più complesso con tecnologie innovative. Bisogna pensare a quella parte di società che non può partecipare al valore dell’innovazione: per questo bisogna avere un equilibrio nell’imporre e forzare il cambiamento. Il cambiamento va introdotto, ma con l’attenzione e la responsabilità di non creare eccessivi divari (per esempio tra un anziano e un giovane che esce dall’università e che ha facilità ad interloquire con uno Stato digitale). Ho voluto sollevare un po’ di temi perché possano essere poi ripresi durante il nostro dibattito.
Definita l’innovazione, vediamo di applicare la definizione all’interno della macchina burocratica e dell’organizzazione della pubblica amministrazione. Non parliamo di innovazione dal punto di vista istituzionale, perché non è il tema che vogliamo affrontare oggi, anche se è estremamente importante e condizionante, non parliamo di innovazione come produzione di norme, altrettanto importanti di per sé, nella macchina amministrativa e nella vita di tutti noi. Da un anno opero nel Parlamento e sono “scioccato” dalla produzione “tradizionale” di leggi, senza nessuna innovazione e senza alcuna preoccupazione per l’impatto che ciò comporta. Venendo dal mondo delle imprese, due aspetti mi hanno davvero sorpreso: come lo Stato gestisce e produce le leggi – e questo l’ho scoperto soprattutto in Parlamento – e l’allocazione delle risorse finanziarie. In Italia abbiamo un momento istituzionale, quello della realizzazione della Legge Finanziaria, che è davvero la corsa all’accaparrarsi quanto più possibile le risorse disponibili, una competizione ad acquisire risorse. Una volta approvata la finanziaria, il come e il dove sono state spese le risorse, i tempi con cui sono state spese e i risultati non interessano più a nessuno. Ma come fa un’impresa – perché lo Stato è comunque un’impresa seppure non abbia una motivazione di profitto, ma una motivazione legata al benessere, all’efficienza, alla capacità di svilupparsi – a non avere la minima capacità di valutazione su dove e come sono state allocate le risorse comuni?
Il Ministro Padoa-Schioppa, mio amico e compagno di studi alla Bocconi, sta facendo una spending review, una periodica e sistematica valutazione delle spese, perché noi attribuiamo il denaro solo in base ai capitoli, mentre altri Paesi hanno cercato di realizzare – e basta un personal computer – una banalissima matrice a doppia entrata in cui da una parte sono indicati i capitoli (non ottomila o novemila come abbiamo noi), dall’altra i programmi o i progetti. Portare avanti questa verifica sistematica è importante per valutare i risultati. Questa, per esempio, è una grossa innovazione che deve essere fatta. Qui non c’è l’innovazione tecnologica al centro, ma quella metodologica su come gestire l’allocazione delle risorse finanziarie.
Ci sono quindi vari spazi di innovazione. Mi sono personalmente dedicato più all’innovazione tecnologica perché ritengo, anche per una sorta di deformazione professionale, che abbiamo oggi a disposizione una potente leva di progresso che è la tecnologia, indispensabile per scatenare il cambiamento, per crearne le condizioni; ovviamente però l’innovazione non si esaurisce nell’ambito tecnologico, che resta pura strumentazione. Per mettere mano ad un grande processo di innovazione della pubblica amministrazione bisogna lavorare su vari capitali, come li ho sempre definiti. Il primo, ovviamente, è il capitale umano. In una “azienda”, consentitemi di nuovo il termine, di servizi come la pubblica amministrazione il capitale umano ha prioritaria importanza, più che in altre aziende, anche perché la maggior parte della spesa della pubblica amministrazione è relativa al capitale umano. L’innovazione nel gestire la risorsa umana è determinante. Possiamo fare tutte le innovazioni che vogliamo sul fronte tecnologico, ma se queste non sono accompagnate da una grande innovazione della gestione delle risorse umane non andiamo da nessuna parte. Anzi, sprechiamo tempo e risorse. Vi faccio un solo esempio: nei Ministeri ci sono ancora i “camminatori”, anche se oggi vengono chiamati “personale di anticamera”. Il loro compito è di prendere un fascicolo da un ufficio, percorrere gli infiniti corridoi dei Ministeri e portarlo in un altro ufficio. E questo nell’era della comunicazione elettronica! Noi abbiamo ancora migliaia di persone che come mansione fanno i “camminatori”, cioè spostano le pratiche da un ufficio all’altro. Ma se mai noi introducessimo la comunicazione elettronica, si porrebbe il problema di riqualificare queste persone, quindi dovremmo affrontare un problema di mobilità funzionale, di riqualificazione, di riassegnazione di compiti. Questo richiede flessibilità e voi sapete benissimo che invece ci troviamo di fronte ad una rigidità assoluta della pubblica amministrazione.
Potrei farvi anche un altro esempio. Appena arrivato per svolgere l’attività di Ministro, uno dei miei primissimi compiti fu quello di firmare una montagna di pratiche che mi erano state portate. Quando chiesi che cosa erano queste pratiche che stavo per firmare, mi risposero che si trattava dei risultati conseguiti dai dirigenti generali, di primo grado, a fronte degli obiettivi. La mia prima reazione fu positiva: c’erano degli obiettivi! Allora chiesi cosa fosse legato a questi obiettivi. Mi risposero: un 10% della retribuzione. Chiesi ancora quale fosse la percentuale di dirigenti che non avevano raggiunto la soglia: nessuno! Tutti avevano cioè raggiunto gli obiettivi. Perché avrei dovuto firmare? E’ la legge, mi fu risposto. Se non si riesce a introdurre davvero l’innovazione nella responsabilizzazione dei dirigenti, se il merito non viene riconosciuto economicamente e a livello personale (non di gruppo), stiamo facendo della filosofia.
Provengo da un’azienda in cui eravamo quindicimila persone, trecentomila a livello mondiale: vi assicuro che erano trecentomila salari diversi. Questo succede quando si applica la politica del merito per cinquant’anni e si dà ad ognuno, al di là di ciò che necessariamente è uguale a livello collettivo, una parte della retribuzione funzionale agli obiettivi dati, sulla base di una valutazione. Il merito non esiste nella pubblica amministrazione. Non c’è una valutazione. Nell’ultima tornata del contratto pubblico hanno introdotto un’idea che io non riesco a concepire, pur nel rispetto di chi l’ha formulata, il professor Ichino: esautorare il dirigente, che è responsabile dell’attività, e affidare la valutazione a un’autorità terza, a un altro livello di management. Chi valuta i dipendenti, i lavoratori, i collaboratori? E’ il management. Se ho una responsabilità di missione, per esempio su un reparto, affido delle responsabilità e ho il compito di valutare l’operato in funzione delle performance. Se introduco un meccanismo terzo, se non sono più io a valutare, la valutazione del merito diventa ingestibile. Anche questa idea del “terzo” è stata bocciata. Nicolais, Ministro della Funzione Pubblica, ha dovuto ritirarla perché non accettata dalle parti sociali.
Siamo persino lontani dai primi passi per quanto riguarda il riconoscimento del merito. E ciò riguarda anche le promozioni. Il merito non deve essere riconosciuto soltanto a livello retributivo, ma anche attraverso le progressioni di carriera. Lo stesso riguarda la flessibilità, il training, la formazione. Quei “camminatori” che perdono la loro funzione quando subentra la comunicazione elettronica vanno riqualificati. Va loro data una professionalità diversa, auspicabilmente migliore, affinché possano continuare a dare il loro contributo nell’ambito della pubblica amministrazione. L’innovazione richiede, dunque, una serie di interventi, ai quali sto accennando, per quanto riguarda la gestione delle risorse umane. Se non si fa questo, si rischia di vanificare un impegno, non solo finanziario, e non si ha una compiuta innovazione.
Non dobbiamo perseguire un’innovazione tecnologica fine a se stessa, ma “levereggiando” il capitale umano, il capitale tecnologico, il capitale organizzativo. Mi sembra giusto parlare di servizi pubblici, a livello della proposta di legge che è all’attenzione del Parlamento; ma questi sono i casi più eclatanti, come le oltre ottocento società d’informatica che le pubbliche amministrazioni italiane, perlopiù a livello regionale e locale, hanno creato, con affidamenti che quindi non hanno la trasparenza delle gare pubbliche. A questo proposito mi permetto di aprire una parentesi. L’industria italiana dell’Information and Communication Technology, soprattutto nel campo del software di servizi, è debolissima perché la domanda pubblica, che sempre in queste ondate innovative di stampo schumpeteriano gioca un ruolo importante, è stata incestuosa. In questo rapporto morganatico fra società d’informatica controllate dalle pubbliche amministrazioni locali e la domanda di ICT di queste ultime, non si creava mercato. Queste società beneficiavano dunque di una domanda pubblica in funzione di proprie logiche, non meritorie, non di competizione.
Non dobbiamo limitarci a considerare solo i “grandi” servizi pubblici. Perché, ad esempio, l’autorimessa delle centocinquanta macchine di Palazzo Chigi deve essere gestita in economia, all’interno dello Stato? Perché lo Stato deve essere meccanico o garagista, quando sicuramente queste attività possono essere, in trasparenza, chieste ed affidate all’efficienza di un mercato che è specialista nell’essere garagista o meccanico. Lo Stato non ha la capacità e le competenze necessarie per fare tutti i mestieri. Si apre dunque un discorso anche di perimetro pubblico. Molte attività potrebbero essere svolte meglio fuori e lo Stato dovrebbe, invece, dedicare più attenzione e più risorse al suo ruolo fondamentale, che è quello di regolatore, di amministratore, di controllore, di fornitore dei servizi fondamentali pubblici, anziché fare il meccanico, l’elettricista, l’idraulico, l’informatico.
E poi desidero sottolineare l’aspetto della complessità istituzionale. Quando si usano queste tecnologie bisogna lavorare sugli standard, bisogna cioè standardizzare le procedure innovative, perché così si ha maggior ritorno in termini di efficienza e di qualità. Ma se ognuna delle diecimila pubbliche amministrazioni italiane rivendica una malintesa autonomia organizzativa non è possibile lavorare. Con l’imposizione di procedure innovative non si toccano le autonomie, perché lo Stato non definisce le priorità o se si deve dare maggiore attenzione all’autocertificazione piuttosto che ai certificati: quelle sono responsabilità politiche delle singole amministrazioni. Lo Stato dice semmai che se si vuole emettere un certificato anagrafico, lo si fa in un certo modo in tutta l’Italia, in modo da consentire la circolazione delle informazioni, la trasparenza, la semplificazione e un impiego ottimale di queste risorse. Ma se ogni singola amministrazione si crea delle barriere organizzative, tecnologiche e procedurali non si va da nessuna parte.
Scusate, ma la mia esperienza mi porta ad essere molto critico, anche se ci sono degli esempi anche molto positivi. L’attenzione è rivolta però più a quelli che posso definire “i miei fallimenti”. Anni fa, come Ministro dell’Innovazione, ho scoperto quasi per caso, perché non è mio compito, che nel turismo stava avvenendo una rivoluzione grazie alle tecnologie che dirottano i flussi turistici grazie al low-cost package “fai da te” (con la visita virtuale su Internet per scegliere dove andare; oggi ti fanno visitare e quindi scegliere dal perfino la stanza d’albergo!). Queste nuove tecnologie digitali sono strumenti da cui non si può prescindere per attrarre in Italia i turisti. La Francia e la Spagna, nostri grandi concorrenti, hanno fatto dei formidabili portali di informazione e di servizio dove si possono prenotare treni, alberghi, teatro e fare il proprio package. Oggi si fa così, le agenzie di viaggio hanno una missione diversa, è molto più comodo prenotare da casa, scegliersi da casa l’aereo, il treno. Mi sono quindi chiesto se l’Italia avesse qualcosa di simile: ovviamente non aveva un portale del genere. Ecco il collegamento con l’aspetto istituzionale, perché il turismo è stato considerato una materia di interesse esclusivamente regionale: abbiamo preso il turismo e l’abbiamo spezzato in venti pezzi e lo abbiamo affidato alle Regioni. Per questo motivo diventava impossibile di fatto fare quello che avevano fatto gli altri Paesi. O meglio abbiamo avuto una proliferazione di portali turistici regionali, poco riconoscibili dall’estero. Il cinese, attratto da quello che può conoscere dell’Italia, probabilmente da Firenze, da Roma, non può essere attratto dalla Lucania perché non sa nemmeno che esiste: l’unico modo perché la conosca è attrarlo facendolo entrare nel sito “Italia” e lì fargli capire che non ci sono solo Venezia e Firenze, ma anche la Lucania, la Calabria. Io ho deciso di farlo procurando le risorse perché le Regioni arricchissero i loro siti, in modo da fare un sistema del turismo italiano in rete, usando il logo, il brand più importante che è “Italia”, ma dando inoltre la possibilità di interconnettersi nella logica di internet. Ho avuto resistenze enormi, perché c’è questa malintesa autonomia, perché il turismo è una materia regionale: “come si permette un Ministro della Repubblica di occuparsi di queste cose?”. Chi è qui il responsabile? Ho voluto essere io il responsabile che decide di potenziare il brand “Italia” sul turismo, utilizzando il capitale tecnologico per favorire il turismo regionale, perché questo portale porta a Firenze, porta alla Lombardia, non mette in concorrenza le regioni. Altri invece hanno chiesto che la responsabilità rimanesse a chi gestisce il turismo a livello regionale e che dice: “No, questo Ministro al massimo ci dà le risorse, poi ci pensiamo noi”. Il risultato è che oggi il nostro Paese ancora non ha ancora questa piattaforma virtuale per promuovere il brand “Italia” e il sistema turistico italiano.
Dobbiamo rispettare l’autonomia regionale, non voglio entrare nel merito di come una Regione (o Provincia Autonoma) voglia proporsi, quali eventi voglia organizzare per attrarre il flusso turistico che arriva in Italia, ma le regioni devono consentire che si faccia un “sistema-Italia” per aggregare tutta la nostra potenzialità e proporle al potenziale turista. Ogni pubblica amministrazione è gelosissima della propria autonomia, e io lo capisco anche, ma noi non possiamo non avere un fattore comune che crea una sinergia, mettendo tutto insieme come sistema e funzionalità, lasciando alle scelte politiche le priorità e i tempi.
Quando ho promosso l’innovazione digitale conferendole un ruolo strategico, visibilità, sistematicità e codificandola a livello normativo attraverso uno specifico codice, ero sensibile e consapevole e mi sono posto anche il problema delle responsabilità, dei doveri e dei diritti: perché la responsabilità si traduce anche in doveri e diritti. Ho dovuto subito indicare che la dirigenza ha una responsabilità: il codice dell’ammnistrazione digitale, legge dello Stato, al di là dell’attenzione che dovrebbe avere a livello politico, è stato consegnato soprattutto alla dirigenza. Oggi, di fatto, la grande maggioranza delle pubbliche amministrazioni, è interconnessa, stiamo creando una grande autostrada digitale che collega tutte le reti già esistenti (per esempio Milano aveva la sua rete, così come la Regione Lombardia) facendone un sistema: tant’è che non l’ho chiamata “rete pubblica”, ma “sistema di pubblica utilità”. E’ necessario valorizzare tutti questi asset per fare un grande sistema autostradale, usando gli stessi standard, gli stessi processi, fornendo anche gli stessi servizi in modo da avere una pubblica amministrazione davvero digitale. Tutto questo si sta realizzando ed è molto più avanti di quello che appare al cittadino.
Ancora oggi, purtroppo, la pubblica amministrazione mi chiede continuamente “come di chiamo, dove sono nato, dove risiedo, quanti figli ho, come si chiama mia moglie”, mi martella di domande quando queste informazioni già le possiede e sono disponibili in rete. Altro che autocertificazione, non occorre più niente grazie alla rete informatica: io devo al massimo dire dove risiedo e l’amministrazione che ha bisogno di questa informazione sulla mia “esistenza in vita” si connette. Ma ancora oggi non basta che io mi presenti con la mia carta di identità, esiste ancora il certificato di “esistenza in vita”, quando invece l’amministrazione si potrebbe connettere in rete e in pochi secondi trovare le informazioni che mi riguardano grazie ai dati messi a disposizione dalla rete dell’amministrazione del mio comune di residenza. Il cittadino viene invece continuamente disturbato, deve essere sempre a disposizione, deve essere l’integratore tra il comune di residenza e quella pubblica amministrazione che chiede il pezzo di carta.
Bisogna ora prendersi la responsabilità di realizzare questa rete e soprattutto bisogna dare al cittadino la consapevolezza dei suoi diritti. Nessuno sa, per esempio, che un cittadino italiano ha il diritto di pretendere di comunicare con la pubblica amministrazione non solo con la raccomandata, ma anche con la raccomandata elettronica. Noi abbiamo fatto la posta elettronica certificata che ha la stessa valenza giuridica della raccomandata tradizionale e costa infinitamente di meno sia al cittadino sia alla pubblica amministrazione, così come i tempi sono infinitamente minori. Il cittadino ha il diritto di usarla perché è legge dello Stato. Solo che il cittadino non lo sa e molte amministrazioni non sono attrezzate a ricevere. Se ci sono le tecnologie, ma manca questa consapevolezza, questa conoscenza dei diritti e dei doveri non si può avere innovazione.
Non si può emettere per decreto l’innovazione. L’innovazione va sostenuta, accompagnata, promossa, incentivata, comunicata. Allora sì che si ha una crescita sociale, una crescita in senso complessivo. Abbiamo dei casi positivi, ma sono isolati e quindi non si ha una vera innovazione, che va a beneficio dei più a livello sociale e economico.
E allora come fare? Io sono convinto che, nonostante le tinte scure con cui ho dipinto la situazione, dobbiamo essere capaci di rompere la tenaglia – lo dico con estrema franchezza – che soffoca la pubblica amministrazione: dalla parte “alta” c’è la politica e dalla parte “bassa” la posizione delle rendite che i sindacati interpretano. Dalla parte alta c’è la politica che non percepisce discorsi a “lunga scadenza”: io ho predicato nel deserto nella mia coalizione, ma questi sono discorsi che richiedono qualche legislatura. La miopia della politica italiana impedisce di comprendere discorsi che hanno necessità di svilupparsi in quattro-cinque anni: questi sono processi molto lunghi che si sviluppano a prescindere da chi governa. Inoltre la politica pensa a come utilizzare la pubblica amministrazione, a come asservirla ai propri scopi. Dall’altra parte il sindacato determina una protezione all’infinito e una resistenza al cambiamento fondamentalmente legata al piano delle risorse umane. Purtroppo anche il sindacato ha una visione miope e quindi ogni qual volta si parli di introdurre nella pubblica amministrazione strumenti che ormai sono ovvii al di fuori del suo perimetro, come il merito, la flessibilità, la misurazione, gli obiettivi, scrive fior di documenti, poi avuto l’aumento salariale tutto il resto non conta più. Finché questa tenaglia terrà sotto scacco la pubblica amministrazione, non si potrà parlare di innovazione.
Ho più speranza a livello locale, dove abbiamo esempi davvero efficaci di innovazione della pubblica amministrazione, perché evidentemente questa tenaglia si avverte di meno, c’è un maggiore controllo sociale sull’operato delle amministrazioni, e in questo caso il decentramento può aiutare, fatta salva però la consapevolezza di appartenere ad un unico sistema le cui parti devono interagire. Se si fa salva questa appartenenza, le autonomie possono indebolire questa tenaglia. Io sono convinto che più esempi a livello locale emergono, più aumenta la maturazione nell’opinione pubblica, nei cittadini che iniziano ad acquisire maggiore consapevolezza dei propri diritti, più quindi si può progredire. L’innovazione va imposta, forzata, ma poi si deve lasciare il tempo perché venga accettata. Per esempio, per il Pubblico Registro delle Camere di Commercio qualche anno fa abbiamo imposto che tutte le comunicazioni societarie dovessero essere comunicate con la firma digitale (per questo non ci sono più quelle code che si facevano quando si approvavano i bilanci, non ci sono più le fotografie di quelle file immense!). Oggi si fa tutto elettronicamente: attraverso questo “editto” noi abbiamo imposto qualcosa che è valso la pena. Quando ci si rivolge ai cittadini bisogna avere la capacità di informare che ci sono degli strumenti che possono rendere la vita più semplice e il rapporto con la pubblica amministrazione meno fastidioso.
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PIERO BASSETTI
Noi volevamo una testimonianza e l’abbiamo avuta. Anche perché non basta testimoniare dei concetti, la testimonianza acquista capacità di convinzione quando il testimone ha sperimentato queste cose al calore della prassi. Lo scopo del Laboratorio è quello di confrontare il testimone con il pensiero dei presenti, quindi apro l’incontro alla discussione.
MARIA LUISA VILLA
Direttrice della Scuola di Dottorato in Medicina Molecolare – Dipartimento di Scienze e tecnologie biomediche (LITA di Segrate)
Lei ha indicato all’inizio l’innovazione del capitale umano, pur avendo come Ministro iniziato dalla parte tecnica. Impostare un’innovazione tecnologica è la parte più semplice, ma se poi il capitale umano non segue… E’ possibile che anche in Italia sorga una ENA (Ecole Nationale d’Administration) come in Francia in un tempo relativamente breve o dobbiamo continuare ad avere una preparazione non specifica per gli amministratori, per le grandi posizioni burocratiche? Indubbiamente la facilità a schiacciare un amministrativo, come lei ha detto prima, dipende anche dal fatto che non esiste una selezione così alta in partenza e dunque un concetto così alto della propria posizione da parte dei burocrati. Una Ena risolverebbe anche questo.
LUCIO STANCA
Mia figlia sta per partire per un’application del master negli Stati Uniti e non è ancora stata fisicamente negli Stati Uniti. Ha fatto tutto per via elettronica, tutto. In Italia per iscriversi all’università, per iscriversi ad un esame in molte università questa possibilità non c’è ancora.
Forse ho dato più enfasi ai fallimenti, ma ci sono università in cui questi processi sono in corso, come all’Università di Bologna in cui si ha tutta una serie di strumenti elettronici per rendere più semplice e più veloce la parte amministrativa nei confronti degli studenti. Non prendo l’università come esempio a caso, l’università dovrebbe essere la punta avanzata del cambiamento: come si fa a formare la classe dirigente del futuro che passa attraverso l’università, se l’università stessa non si propone con credibilità, con i fatti, sulla frontiera dell’innovazione? E qui non è neanche un problema di tecnologia, è un fatto di responsabilità di chi gestisce le università. Bisogna porsi il problema di che esempio diamo noi. Senza parlare dello spreco di risorse finanziarie: quanto denaro si risparmierebbe con una gestione elettronica efficiente rispetto ad un sistema tradizionale? In questo caso non occorre una legge. Sull’ENA: noi abbiamo una Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione che in termini dimensionali è anche più grande dell’ENA; quello che le manca è il prestigio, l’autonomia dalla politica, la capacità di formare anche su frontiere nuove.
Io ho creato in alcune università il Master per Dirigenti pubblici e gestione dell’innovazione che non riguarda la tecnologia – che è solo uno strumento – ma le implicazioni organizzative, le ricadute sulle persone, sui processi. Un dirigente di un’azienda o di una pubblica amministrazione deve avere nel suo bagaglio queste informazioni se vuole essere un dirigente moderno. Prima, però, bisogna risolvere il problema di dare maggiore forza e dignità al dirigente pubblico, perché una scuola come ENA è solo una conseguenza. Io ricordo, quando sono andato al Ministero delle Finanze in Francia, la dignità con cui un alto dirigente ci ha accolti: aveva l’orgoglio di rappresentare lo Stato francese. Penso a certi dirigenti italiani…
Io credo che possiamo sostenere e migliore la scuola, ma contemporaneamente è necessario sostenere e rendere indipendenti i dirigenti. E’ chiaro che la politica ha bisogno di avere un rapporto fiduciario con il personale, ma basta averlo con il numero uno: invece la politica vuole avere questo rapporto fiduciario anche con il secondo e terzo livello. Questo distrugge la leadership della pubblica amministrazione.
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GIOVANNI GIAVAZZI
Presidente della Fondazione Italcementi
Se dovessi trarre una conclusione dal suo discorso, verrebbe fuori un “suicidio” metaforico. Io vorrei spendere una piccola parola di consolazione. Quando sono andato in Parlamento europeo, nel 1979, la cassa del Parlamento europeo era gestita manualmente, non informaticamente. Ho chiesto il perché e mi è stato risposto che prima dovevano “digerire” tutte le persone, nel giro di tre anni le persone sono state “digerite” e tutto è andato a posto. Comunque anche oggi per prendere la pensione dal Parlamento europeo mi si chiede, tutti gli anni, il certificato di esistenza in vita. Quindi consoliamoci un pochino!
Probabilmente, e mi sembra sia anche il suo concetto, quando lo Stato non potrà più interloquire con nessuno, per suo interesse e non certo per senso di solidarietà o di coscienza amministrativa, dovrà trovare una soluzione. Il caso delle Poste è esemplare: il sistema delle Poste era arrivato alla fine. I fax prima, le e-mail poi hanno messo in luce il problema del non funzionamento delle Poste italiane che non era più percepito come uno dei problemi più importanti. Se a livello di amministrazioni locali, soprattutto di piccole amministrazioni locali, lo Stato incentivasse il nuovo senza toccare il vecchio? Questo è compatibile dal lato finanziario o no? Certo, per un certo periodo ci sarebbe un aggravio di costi. E, ancor peggio, è compatibile dal lato dei tempi? Perché se intanto che noi prendiamo questa strada il sistema cambia, dato che cambia in fretta, noi siamo rimasti comunque indietro. Potrebbe essere una via per superare quelle due morse a cui lei ha accennato?
ALESSANDRO ALEOTTI
Direttore di Milania
Io volevo proporle una tesi più radicale. La sua testimonianza è quella di un “serio riformismo fallito” con l’elencazione di esempi in cui il paradosso supera sempre la situazione fisiologica normale. Ed è interessante vedere come, dalle cose che lei ci ha detto, innovare la pubblica amministrazione sia un compito a cui, per una serie di fattori, mancano sempre le gambe. Lei ha fatto l’esempio del Parlamento che può produrre ottime norme, ma non avendo più una “cinghia di trasmissione” nel sistema politico-partitico che riesce a diffonderla ai cittadini queste norme rimangono un vuoto illuminismo fine a se stesso. Il paradosso poi si compie quando andiamo a verificare come la trasmissione in sé è contraria alla trasformazione, quindi si può innovare, ma quando il feedback del cittadino è una risposta chiusa, ottusa della burocrazia affidata ad un impiegato dei quattro milioni di impiegati pubblici che dà al cittadino un input di non-metabolizzazione di questa innovazione, ecco che tutto questo sistema è impossibilitato a camminare. Posto che lei è – non per usare un termine di Berlusconi, ma lo ha detto anche Bassetti – un “campione del mondo dell’innovazione”, se ha fallito lei e obiettivamente si sono sperimentate molte intelligenze nella riforma dell’amministrazione – penso a Cassese e molti altri – non vale la pena fare un ragionamento più profondo e radicale non tanto sugli strumenti, quanto sull’essenza stessa del controllo? Lei ha fatto degli esempi, dicendo che oggi l’amministrazione chiede ancora il certificato di esistenza in vita: ma non è già questo un assurdo in sé, in una società così complessa come la nostra? Non è il concetto stesso del controllo un ostacolo per riformare la pubblica amministrazione? La complessità è tale da non essere controllabile (se è controllabile disegniamo orizzonti spaventosi di tipo orwelliano). Molti paesi anche vicini a noi, funzionanti, come la Svizzera, funzionano con una percentuale di controllo molto inferiore alla nostra. Non è quindi il tema del controllo che va aggredito, invece che lo strumento che lo rende perfettibile, ma pur sempre insensato in sé?
LUCIO STANCA
Io vorrei equilibrare: non so se è stato un fallimento o meno. Però il meccanismo si è messo in moto. Continuo a dire che non può essere l’unico, se non è accompagnato da quello legato alle risorse umane e ad una revisione del perimetro, perché lo Stato deve fare tante cose di cui non c’è più bisogno, anche in termini di controllo. E’ un fronte che deve avanzare, una marea che deve montare: questa è l’innovazione. Poi è chiaro: qualcuno va più avanti e trascina gli altri, non si può aspettare il vagone più lento. La mia frustrazione è che la velocità non è adeguata alle esigenze del Paese. Dov’è, però, che possiamo vincere? Io ho avuto molto più audience, molta più attenzione, molta più intensità di lavoro con le autonomie locali, con i Comuni, seppure le Regioni sono importanti perché hanno le reti a cui i Comuni devono aggrapparsi (sul piano delle infrastrutture lavorano meglio le Regioni, sul piano dei servizi ai cittadini e alle imprese i Comuni).
Ci sono esempi lungimiranti in Italia di quello che si potrebbe fare: sono poco conosciuti, poco reclamizzati e questo è un gravissimo errore, perché l’innovazione va reclamizzata, va dimostrato che si può fare. Gli sfondamenti ci sono già. Alla Moratti ho detto solo una cosa per quanto riguarda l’innovazione della macchina burocratica di Milano: “Togli quella salumeria che hai in via Larga”. Nel XXI secolo il Comune di Milano chiede ancora ai suoi cittadini di andare in via Larga, prendere il numero come dal salumiere, sedersi e restare in attesa di essere chiamati, quando il 90% di queste attività si può fare via telefono o via internet. Bisogna togliere dei controlli, togliere i timbri, cercare di semplificare: ci sono le leggi che consentono di farlo. E alcuni lo hanno fatto: Parma, Gorizia, Udine, per fare alcuni nomi. Certo, non si risolvono tutti i problemi, anche perché ci vuole una semplificazione alla normativa, ma la burocrazia, piccola o grande che sarà, potremo gestirla in termini telematici con molta più snellezza e tempi più veloci per entrambe le parti. Poi ci vuole anche l’innovazione normativa per semplificare, ma non possiamo aspettare che tutto si muova alla stessa velocità, altrimenti restiamo immobili.
Gli esempi positivi ci sono. E a cosa servono? Servono a educare la pubblica amministrazione, ma anche i cittadini, perché se il cittadino di una certa città innovativa si è abituato a interloquire con la pubblica amministrazione in termini telematici, è lui stesso che prima o poi chiederà al Ministero o alla Regione di adeguarsi a quegli standard. Bisogna che si crei una pressione anche dal di fuori, dal basso.
Io sono insoddisfatto sulla velocità. Ma queste cose avverranno: l’Italia non può rimanere isolata dal mondo.
Per esempio. Siamo nel periodo della dichiarazione dei redditi: io ho lavorato per anni in Francia e la dichiarazione mi arrivava a casa già compilata in tutte le sue parti, perché il computer queste cose ce l’ha. Io dovevo solo compilare le parti variabili dei compensi. Oggi finalmente anche in Italia incominciamo ad avere le comunicazioni che riguardano la scadenza della patente. Queste informazioni lo Stato ce l’ha, automaticamente e a costo zero può inviartele. Ora inizia, ma quanti documenti potrebbero essere così, per migliorare il servizio? La stessa anagrafe tributaria potrebbe essere sfruttata enormemente di più: basta incrociare dati che la pubblica amministrazione ha già. Per scoprire un cantiere che lavora in nero basterebbe incrociare alcuni con quelli dell’Enel, dato che il cantiere consuma elettricità, ma non si trova nei registri dell’Inps. Qui allora c’è la responsabilità della politica: nello sfruttare appieno queste potenzialità. Però bisogna anche conoscerle, le potenzialità. C’è spesso un problema di ignoranza.
Per quanto riguarda i soldi: è vero, io non ho beneficiato di molti soldi, ma è anche vero che se si rompe l’inerzia che si trova all’inizio, questi investimenti producono efficienza. La maggiore inefficienza si produce al centro, nelle amministrazioni centrali, che per pagare se stesse e la propria autogestione spendono il 40% del loro budget. Se un’azienda spendesse per costi indiretti il 40% fallirebbe in pochi giorni, perché nel privato di solito questi costi sono del 10-15%. Lo Stato ne spende 40, il che vuol dire che buona parte dei soldi che noi diamo serve per servire se stesso e non i cittadini. Lì c’è la maggiore inefficienza. E’ lì che bisognerebbe investire, ma lo Stato il concetto di investimento non ce l’ha. Qui si apre un altro problema drammatico, perché nella contabilità dello Stato non sono previsti i risparmi, perché si ragiona per impegni finanziari: se impegni dei soldi devi spenderli. Per questo è importante la revisione della spesa, per verificare se i soldi sono stati spesi per ciò per cui sono stati richiesti. Oggi non si misura il ritorno degli investimenti dello Stato. Il controllo è a livello della normativa: ci vuole il capitale normativo con la sua innovazione.
Io ho parlato di vari “capitali”: quello delle risorse umane – fondamentale – poi quello normativo, quello tecnologico, quello organizzativo e ognuno ha bisogno della sua innovazione. Tutte queste innovazioni insieme fanno la riforma dello Stato e della pubblica amministrazione italiana. La carenza è che questo disegno non è stato ancora compiuto. Il progetto innovativo completo è ancora opaco, non è ancora stato tracciato con precisione. A livello centrale la situazione è questa; a livello periferico, a livello dei Comuni, la situazione sta migliorando, pur con il divario non solo Nord-Sud, ma anche grandi città-piccole città che non hanno la stessa velocità e la stessa capacità innovativa. Ma sono convinto che sia lì il punto di rottura.
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PAOLO ZANENGA
Presidente PDMA South Europe
Quando si diceva che le tecnologie digitali cambiano i paradigmi organizzativi, per me questo vuol dire che le tecnologie digitali creano non solo un’organizzazione dentro l’impresa, ma anche fuori dall’impresa, che sono le reti. In qualche modo oggi per un’azienda organizzarsi, più che creare delle strutture interne, significa creare delle capacità d’accesso alle reti, saperle sfruttare, sapersi integrare con quello che c’è. In questo senso, la pubblica amministrazione potrebbe trovare un nuovo ruolo, anche perché ci sono dei momenti in cui è necessario un catalizzatore, certe cose possono non scattare automaticamente, però qualcuno può vederle e in qualche modo governarle – proprio nel senso del timonare -, dando una direzione alle cose, anche per fa scattare certi cortocircuiti virtuosi, per semplificare procedure e così via. Come possibile soluzione ci potrebbe essere quella di iniziative che potrebbero intermediare tutta una serie di servizi e di informazioni. Forse si apre, con si diceva anche alla Fondazione Edison in un recente convegno, tutto un mondo per il settore delle associazioni, delle fondazioni, di tutte quelle organizzazioni che possono avere finalità sociali e civili e che non sono completamente pubbliche o completamente private.
DANIELE BALBONI
Consulente per la Pubblica Amministrazione
Io vorrei richiamare due punti che mi hanno particolarmente colpito, per poi formulare due quesiti. Vorrei riprendere le parole del presidente Bassetti, quando parla di innovazione come di “realizzazione dell’improbabile”. Partendo da questa considerazione, quello che in parte mi stupisce è una visione pessimistica, anche se non rinunciataria, dell’innovazione legata all’improbabile e all’incerto. Ciò che mi ha colpito delle parole del Ministro Stanca sono, da una parte, la prospettiva temporale molto ampia, che va ben al di là di una singola legislatura e necessita di essere percorsa in un arco di tempo molto ampio; dall’altra, gli impatti più genericamente politici, non soltanto tecnico-burocratici del funzionamento e della riorganizzazione della pubblica amministrazione, ma ciò che l’innovazione ha nei risvolti sociali. Le domande che mi pongo in un quadro di tale complessità e che coinvolge scale di tempi così differenti sono: si riesce a elaborare una politica di così ampio spettro e ampia valenza che possa superare gli schieramenti politici, trovando una convergenza di massima? E agli studiosi presenti domando ancora: dal punto di vista storico ci sono stati in passato altri tipi di innovazione e come si sono superati i conflitti di interesse tra schieramenti contrapposti?
MARCO ZAMBONI
Studente
Mi ha molto interessato il tema delle risorse umane all’interno dei processi di cambiamento. Riflettevo sul fatto che una delle possibili resistenze che nascono di fronte ai fenomeni innovativi è la paura del nuovo, spesso associata all’età, alle abitudini consolidate, a processi di lavoro instaurati nel tempo, a dinamiche a livello identitario che possono frenare i cambiamenti. Da questo punto di vista sappiamo che l’Italia deve affrontare un problema legato all’avanzare dell’età e un altro legato al blocco delle assunzioni nel settore pubblico che ostacola l’ingresso di nuove risorse. Circa un anno fa c’era stata la proposta di prepensionare la parte di personale pubblico più in là con l’età al fine di far entrare i nuovi laureati e risorse più fresche, così da aumentare l’efficienza. Poi di questo non si è più sentito parlare. Qual è il suo parare in merito?
LUCIO STANCA
Ho accennato brevemente che una delle innovazioni è la revisione dei confini pubblici, cioè cosa deve rimanere nel cosiddetto pubblico e quanto può essere portato fuori. Quando dicevo “portare fuori” non mi riferivo solo al mercato, ma anche al mondo delle associazioni o di chi può avere un ruolo che è dello Stato, ma che può essere affidato, in termini di qualità e di efficienza anche dei livelli di controllo, a operatori che non siano esclusivamente l’ente pubblico. Maison de la France è un business model perché si autofinanzia attraverso gli introiti che vengono generati dai servizi che vengono offerti, quindi può fare davvero da catalizzatore con una partecipazione anche del pubblico. Fa business. Qui in Italia c’è stato uno scontro fortissimo con le Regioni per quanto riguarda il portale sul turismo: fin quando si parlava di informazioni, si era ancora tutti rilassati, ma quando si è iniziato a parlare di vendere servizi, ognuno era geloso del proprio business e non voleva “ammucchiarlo con il resto”, tant’è che questo problema non è ancora stato risolto.
Ci sono tante attività che non attengono allo Stato: lo Stato ha una dignità e ha compiti altissimi di indirizzo, di orientamento, di controllo, di trasparenza, di equità, di equidistanza. Ma ci sono tante attività che fatte da un privato, anziché nell’ambito del pubblico, possono avere una maggiore qualità, una maggiore efficienza e ritornare di giovamento allo Stato. Gli esempi sono infiniti. E’ un problema che a mio parere è anche culturale: parlare di outsourcing nella pubblica amministrazione rende tutti nervosi, innanzitutto i politici che temono di perdere il controllo di quella “tenaglia”, ma anche chi ha il controllo sulle risorse umane, e tutti gli altri sono contrari. Invece bisogna lavorare in questa direzione.
Io sono un po’ critico quando affronto questi temi perché credo che queste sia “la questione” dell’Italia: la funzionalità dello Stato e del suo braccio operativo che è la pubblica amministrazione, non solo in termini di efficienza, ma di efficacia, di qualità, di partecipazione democratica, di trasparenza, di democrazia. Oggi noi abbiamo un’architettura istituzionale che non regge più i tempi e le esigenze di una società moderna. I padri fondatori hanno un enorme merito, però modificare non vuol dire disconoscere questi meriti, ma aggiornare, rinvigorire lo Stato per renderlo davvero più forte e quindi più vicino alla comunità nazionale, alle imprese, ai cittadini. Noi vediamo che ormai lo Stato fa fatica nella sua architettura e conseguentemente, non a caso, anche la pubblica amministrazione. Questo è un grande progetto di riforma che non può né esaurirsi in pochi anni né può essere avviato da una colorazione e poi bloccato da un’altra, perché così non si va da nessuna parte. Con tutti gli errori che conteneva, a mio modesto parere la riforma costituzionale del Centro-Destra, bocciata dal nuovo Governo, poteva essere tenuta salda, usando i cinque anni di governo per modificare ciò che non piaceva. Anche perché non entrava in esercizio in questa legislazione, ma nella prossima; invece per motivi politici è stata bocciata, rigettata, e ora siamo punto e a capo. E così per quanto riguarda la riforma della pubblica amministrazione: da Cassese a Bassanini c’è stata una certa continuità, poi, ci sono stati alcuni demeriti del governo Berlusconi sul piano dell’innovazione tecnologica. Pur sapendo che non poteva essere unica, ma doveva essere accoppiata a una riforma amministrativa, non abbiamo fatto avanzamenti sul piano di altri aspetti del disegno complessivo. Non voglio criticare l’ex Governo, però mi dispiace dover dire che sull’innovazione tecnologica digitale abbiamo perso la spinta propulsiva data dal poter disporre di un Ministro totalmente dedicato. Abbiamo diluito questa responsabilità tra più parti. Dobbiamo essere capaci di decidere alcuni temi, come questo. Vanno affrontati nell’ottica di una continuità, con una condivisione di fondo sulle linee essenziali, sull’architettura, su quello che si vuole fare. Lo stop and go qui non rende, anzi, crea altri problemi, che diventano ancora più difficili.
Per quanto riguarda il livello individuale lei ha certamente ragione. Il cambiamento, a livello individuale, crea queste ansie, queste paure, perciò chi ha la responsabilità del cambiamento e lo sostiene (in questo caso le parti sociali, le associazioni, la leadership) deve aiutare l’individuo, che non deve essere lasciato solo. Se è lasciato solo, l’individuo oppone una resistenza perché ha timore. Bisogna aiutarlo, bisogna fargli comprendere anche le opportunità che ci sono nel cambiamento. Se è gestita solo a livello individuale, l’innovazione di per sé è un fallimento, perché crea solo resistenza.
Per quanto riguarda, invece, il mix, questo è un bel problema. Lei fa un mix anagrafico, in termini di età, ma ci sono altri mix che andrebbero anche presi in considerazione. Ad esempio, vedere dirigenti donne ai massimi livelli, direttori generali, segretari generali, è assai raro. Ricordo la Lanzillotta, che era Segretario generale di Palazzo Chigi, ma non me ne ricordo altre; eppure di rappresentanza femminile, nel pubblico impiego, ce n’è tanta. Quindi, evidentemente, anche qui abbiamo un problema di mix. Abbiamo un problema di mix, sul background della preparazione.
Non possiamo avere una macchina organizzativa così complessa gestita al 90% da giuristi, che sono poi giudici, con tutto il rispetto per la Corte dei Conti, per il Consiglio di Stato. Qui ci vuole competenza anche in termini organizzativi, di gestione delle risorse umane, di tecnologia (non in senso tecnico, ma nel senso delle implicazioni organizzative), di process engineering, insomma, ci vuole un mix poiché la pubblica amministrazione ha una grande complessità di misurazione e di obiettivi. Come si può chiedere a un giudice, pur bravissimo, di diventare un organizzatore? Probabilmente non vi è preparato, non ha svolto un percorso di carriera per poter poi organizzare e gestire una macchina complessa.
Questo problema del mix, insomma, è particolarmente difficile. Le imprese private, di fronte a questo problema, percorrono la via di cercare di invogliare, con incentivi, la parte meno attraente del mix a lasciare la società, per cercare di immettere delle risorse. Questi percorsi così aggressivi nello Stato sono meno praticabili. Lo Stato, infatti, non è un’azienda privatistica. Tuttavia qualche programma deve essere fatto, perché altrimenti i tempi, di nuovo, diventano lunghi anche su questo fronte.
La domanda di fondo è: quanto il Paese può aspettare che questa grande riforma avvenga a una velocità maggiore di quella attuale? L’onda c’è, e non solo per merito di Stanca o di Bassanini: è la corrente ad andare in questa direzione. Bisogna cercare di essere un po’ più veloci dell’evoluzione naturale delle cose, altrimenti il nostro contributo sarebbe molto, molto scarso.
Tuttavia, il profilo delle risorse umane della pubblica amministrazione in senso lato, in senso generale, è un bel problema, per risolvere il quale non abbiamo la strumentazione classica delle imprese private. Dobbiamo essere consapevoli che è illusorio pensare di poter arrivare a quei livelli.
C’è un altro problema nella gestione delle risorse umane, oltre al mix: è quello della mobilità geografica. Scusate l’inciso. Non ho più rapporti con la mia società da quando mi sono ritirato, circa sette anni fa. Ultimamente ho avuto un incontro con l’attuale Presidente, a cui ho chiesto: “Quanti siete in Italia?” Lui mi ha risposto: “Dalla domanda che mi sta facendo, si vede proprio che sta invecchiando!”.
C’è anche questo problema della mobilità: dove servono le persone davvero. E’ un passaggio obbligato per avere una società moderna.
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ATTILIO MARTINETTI
Direttore dell’Euro Info Centre
La sua testimonianza e la discussione che ne è seguita è molto concentrata sulle persone. Io invece vorrei portare la riflessione su qualcosa che riguarda di più le imprese: una delle misure dell’ultima finanziaria del governo precedente (Tremonti, 2006) riprendeva in un comma una misura per i distretti industriali, cioè la costituzione di un’Agenzia nazionale per l’Innovazione, declinata in maniera abbastanza generale perché era un’innovazione assoluta – credo che abbia messo mano anche lei a questo progetto – con un finanziamento pari a metà dell’ITI, tanto per dare un parametro, 50 milioni di euro. Contrariamente a ogni supposizione verosimile la Finanziaria 2007 ha ripreso questo concetto e c’è ancora l’Agenzia nazionale dell’Innovazione, anche se ha perso uno zero, perché è passata da 50 a 5 milioni di euro. Nel momento della costituzione viene assegnata da un DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), uno degli ultimi del Governo precedente; viene assegnata alla Camera di Commercio di Milano a questo punto deve essere declinata da questo tavolo per Milano e diventa un’agenzia che invece di sviluppo e di propulsione per i distretti industriali, diventa un’agenzia che sposta un po’ le priorità occupandosi di foresight (una di quelle parole sulla cui declinazione possiamo parlare un pomeriggio) e di valutazione di “Industria 2015” (programma di Bersani, di cui ognuno può pensare quello che vuole, ma è un programma che propone di concentrarsi su cinque grandi progetti con solo grandi volets di innovazione che tireranno con sé le piccole e medie imprese che ce la faranno, stiamo parlando dei prossimi dieci anni). Allora dico – dato che l’on. Stanca diceva che il suo addetto stampa gli impediva di ragionare su due legislature o multipli di legislatura – Bersani il 2015 lo declina. Volevo il suo commento sul fatto che formalmente, passando da una legislatura da un’altra, con una forte discontinuità da tutti i punti di vista, l’agenzia è rimasta, anche se ha cambiato un po’ di priorità (un po’ tante: perché se devo fare valutazione a tre, quattro, cinque progetti su cinque volets principali evidentemente è un altro mestiere rispetto a quello di promuovere l’innovazione nei distretti industriali o nelle piccole imprese).
LUCIO STANCA
Rispondo subito a questa domanda, che esula forse un po’ dalla pubblica amministrazione, ma resta sempre nel campo dell’innovazione. Ho parecchi commenti da fare, ma in sintesi direi questo: io ho contribuito nella passata legislatura a disegnare questa Agenzia dell’innovazione. L’idea era molto semplice, anche vedendo le esperienze all’estero. Dato che da noi la ricerca si fa soprattutto all’interno delle università (perché la scala, la dimensione è determinante in questo campo e le imprese italiane sono troppo piccole e fanno poca “invenzione”), l’idea alla base dell’agenzia era di creare un organismo “attivatore” per aiutare a velocizzare, ad aumentare il trasferimento tra chi inventa e chi deve utilizzare l’invenzione facendola diventare innovazione a livello di impresa, possibilmente nei distretti. Io credo che di questo l’Italia abbia assolutamente bisogno, perché oggi il mondo del sapere scientifico e il mondo della piccola impresa sono ancora troppo distanti fra di loro per una serie di motivi anche storici e culturali. L’idea era di creare un ente che aiutasse a mettere insieme le parti, anche con politiche di incentivazione e di sostegno, in modo da ottenere il trasferimento tecnologico e un sistema dell’innovazione. Purtroppo un nuovo governo, con una visione diversa, sposta il tiro: non è più trasferimento, ma foresight (e quindi non ha più – giustamente – le risorse, perché per fare trasferimento servivano 50 milioni per iniziare, mentre per fare foresight 5 milioni sono già, secondo me, parecchi). Io però inizio a preoccuparmi moltissimo quando questa agenzia vuole valutare l’implementazione di cinque mega progetti decisi dallo Stato. E qui la visione si divide: io sono convinto che chi conosce le potenzialità dell’innovazione è il mercato. Sono le imprese che devono definire quali sono i settori su cui investire; lo Stato può valutare, può scartare, può incentivare, ma non può decidere su quali progetti puntare, perché lo Stato non ha le competenze, non è il suo ruolo, non può creare l’innovazione o definire dove sarà l’innovazione nei prossimi cinque anni, perché sarebbe uno Stato centralista, dirigista, un modello che è fallito. Oggi non siamo più nel mondo del technology push, ma dell’application pull: è il mercato che decide che innovazione occorre. Oggi chi ha bisogno di una tecnologia va nelle università e nei centri di ricerca a chiedere le risposte a questo tipo di bisogno. E’ una visione diversa dello Stato e del suo ruolo. Probabilmente, se vincerà il Centro-Destra alle prossime elezioni, scommetterò con lei che cambieranno di nuove le cose, perché in Italia è ancora aperto il dibattito su quale ruolo deve avere lo Stato nell’innovazione.
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PIERO BASSETTI
Dopo una testimonianza e un dibattito così interessanti, devo dire che esco da questa conversazione più che mai convinto che alcune intuizioni che ispirano il pensiero e la ricerca della Fondazione Bassetti tengono, cioè l’innovazione come realizzazione dell’improbabile fa la storia e conseguentemente chiama responsabilità. Ma esco, forse, ulteriormente convinto di una mia vecchia convinzione, che ha ispirato tutta la mia esperienza politica, seppure anomala: è l’innovazione che ha ucciso lo Stato inteso come participio passato. Secondo me, quello che non possiamo non cogliere è che se a fare la storia non è più il potere, ma è il sapere che entra nell’organizzazione della società civile e quindi modifica le direzioni della storia, l’innovazione realizzando l’improbabile, realizza un futuro diverso, talmente diverso da essere giudicato improbabile. Oggi non c’è niente che “sta” (perché invece lo Stato di Wesfalia era uscito da una grande confusione e necessitava di qualcosa che “stesse”: allora c’erano i confini, il popolo, la cittadinanza, la sovranità). Un suggerimento: io non credo che si possa concepire la pubblica amministrazione come braccio dello Stato, ma credo che bisogna avere consapevolezza che una società complessa e dinamica ha bisogno di una pubblica amministrazione maieuta, delle possibilità regolate di convivenza. Io credo che l’inversione radicale è che non è più il potere che regola le condizioni in cui si deve sviluppare la storia, ma è piuttosto la società che domanda ordine, un po’ come avviene sul web. Sul web noi assistiamo giornalmente a nuove prassi, un esempi interessantissimo è “Second Life” (non stiamo riflettendo abbastanza sul fatto che stiamo costruendo una società virtuale). Si chiede al Governo, che infatti è in ritadissimo, di governare questa dinamica, ma non si pensa minimamente di stabilirla. Se questo è vero, dato che siamo in sede universitaria, il tentativo non può essere quello di insegnare a quella pubblica amministrazione come si gestisce il rapporto con l’innovazione, ma di insegnare alla società italiana che cosa si può ricavare dalla consuetudine con l’innovazione. A mio avviso il lavoro va fatto principalmente sulla domanda di elementi ordinatori di fronte al rischio di caos che porta il mutamento permanente. Qui c’è un compito per la scuola, intesa in senso lato: in Italia il vero problema è che la società italiana non domanda cambiamento, intanto perché invecchia, in secondo luogo perché ha sempre avuto, soprattutto nella sua meridionalizzazione, una cultura in cui l’ideale prevale sul reale e qui, dato che cambia il reale, il rapporto vecchio, illuminista, che il cambiamento delle idee faceva cambiare la realtà si è rovesciato. E’ necessario capire cosa vogliamo dall’innovazione. In realtà, oltre al computer e alla firma elettronica, vogliamo una pubblica amministrazione che ci aiuti a convivere con il mutamento e ci rassicuri. Ora, se noi non riusciamo a fare questo, la politica – come dice Stanca – non lo potrà mai fare, perché se l’elettore – e qui ha ragione il suo capo ufficio stampa -, corrotto dai nostri media, chiede il contrario di tutto ciò di cui stiamo discutendo, bisogna avere il coraggio di dire che quella democrazia non può fornire innovazione. Quindi anche il circuito del consenso in qualche modo va costruito. Credo anche che, mentre il sindacato è organizzazione del prestatore d’opera in quella organizzazione, piena di giuristi, di inamovibilità e di stabilità, è il consumatore che deve fare quello che il sindacato ha fatto nel riguardo dei padroni nell’imporre le regole difensive di chi faceva quella parte. Il vero sindacato della pubblica amministrazione è l’associazione dei consumatori.
Chi è che fa una dialettica verso la pubblica amministrazione, in termini reali? Nessuno. Perché l’insoddisfazione (che dominava anche qui oggi) è assolutamente disorganizzata: non la può fare l’elettore, perché è inserito in un circuito completamente rovesciato (è lui che chiede delle cose allo Stato per cui non può mettersi a ricostruirlo), ma è solo il mondo della domanda di progresso che può chiedere alla pubblica amministrazione di aiutarlo in questo e non di essere oppressore di questo. Come Fondazione Bassetti saremmo molto interessati a trovare nel mondo della scuola i punti di riflessione per un approccio radicale, nel senso fondante, al tema. Secondo me l’università è arrivata tardi a capire che la pubblica amministrazione non è un problema di diritto, ma è un problema di organizzazione: finora il problema è stato dominio delle facoltà di legge, ma oggi non può “inseguire” la scuola di pubblica amministrazione. Secondo me bisognerebbe girarsi sul quidam de populo e vedere se non si riesce a formare una domanda di governance o di governo che sia realmente innovativa. Innovativa nella sua domanda e per questo suscitatrice di innovazione per la sua risposta. Questo era il tema che volevo lanciare proprio al mondo accademico che ci ospita oggi.
MADDALENA SORRENTINO
Centro interdipartimentale ICONA (Univeristà Statale di Milano)
Abbiamo avuto tantissimi spunti, tantissime idee, stiamo parlando di qualcosa per cui è richiesta una “cassetta degli attrezzi” molto variegata: da nessuna disciplina, da nessuna competenza è possibile trovare una risposta globale ai problemi, così vivi e così attuali, che sono stati posti sul tappeto oggi. Mi permetto di aggiungere, tra le discipline dominanti, nel discorso della pubblica amministrazione, anche le discipline della tecnologia, dell’informazione, che vengono utilizzate pressoché come unica chiave di lettura quando si parla di tecnologie applicate alla cosiddetta “macchina amministrativa”. Queste stesse metafore ci fanno capire qual è la visione, da parte di questo tipo di competenze, nei confronti di quello che in realtà è un sistema sociale molto complesso, e non lo dico perché siamo nel Dipartimento di Studi sociali e politici.
Inoltre, anche un malinteso utilizzo delle tecniche manageriali o presenti nelle aziende private è anch’esso fonte di effetti distorsivi e controintuitivi. E’ molto bello che nelle amministrazioni pubbliche si parli di business plan, process engineering o di altre tecniche, però bisogna anche copiare dalle imprese private un’altra cosa importante: la capacità di valutare se questi sistemi hanno avuto un esito, un impatto o una qualsiasi influenza sulla realtà su cui vogliamo agire.
Su questi temi passerei la parola, per le considerazioni conclusive, alla professoressa Regonini.
GLORIA REGONINI
Chiederei al senatore, a questo punto, una review di quelle che sono le competenze dei nostri curricola. Credo che noi tutti sentiamo la responsabilità di proporci come un percorso, a livello di laurea magistrale, per la pubblica amministrazione. Ha ancora senso? Con quali contenuti? Le chiederemmo, con grande franchezza, con le modalità che riterrà più opportune, intervenendo nel nostro Call for Comments, se è possibile avere un suo giudizio il più critico, il più franco possibile.
In secondo luogo, credo che noi abbiamo una grande responsabilità nel cogliere la ridefinizione, in atto, tra quello che è pubblico è quello che è privato. Io non ho mai visto tanta privatizzazione, appropriazione, come all’interno delle amministrazioni pubbliche: uso privato delle procedure, delle informazioni, irresponsabilità. Credo che in nessuna azienda sarebbe concepibile un uso così privato del proprio ufficio. Ci sono altre arene, altre sedi, ormai, dove si riesce a costruire molta più pubblicità di quella che si riesce a costruire all’interno dello Stato e del suo braccio operativo, del suo ex braccio operativo. La rete è sicuramente una di queste, senza dubbio. Credo che, nell’interesse del consumatore, o, nel mio caso, degli studenti, i dieci dollari che ho speso per comprare un wiki su google, pagati con la mia carta di credito, di tasca mia, siano mille volte più pubblici di tutti gli uffici e le strutture dell’amministrazione, se mi permettono di gestire l’orario nel modo più rispondente alle esigenze degli studenti, oppure di interagire tra docenti per arrivare alle soluzioni più intelligenti. Da questo punto di vista, credo che siano state molto illuminanti le sue osservazioni che ci danno, di nuovo, una responsabilità enorme. E’ un pezzo di strada che, come università, dobbiamo assolutamente percorrere con voi, che siete testimoni di questi processi e avete questa sensibilità.
Grazie a tutti.
LUCIO STANCA
Anch’io volevo ringraziare per questo incontro, che è stato molto interessante anche per me. Sono, ovviamente, più che disponibile a dare il mio piccolo contributo per quello che mi è stato chiesto, anche in futuro, per un tema che mi appassiona personalmente. Oggi sono ancor più convinto che questo grande tema debba essere affrontato da vari punti di vista. Non c’è una risposta semplice. Nei primi articoli del Codice dell’Amministrazione digitale vi è l’empowerment del cittadino, cioè mettere il cittadino in condizione di poter pretendere, di creare pressione affinché l’amministrazione possa cambiare nell’aspetto dell’utilizzo di queste tecnologie. Nello stesso tempo, però, bisogna lavorare all’interno della macchina, per renderla più disponibile, preparata a questa pressione, per evitare gli scontri. Si tratta di un processo molto complesso, ma non si può scendere da questo treno. La domanda che possiamo porci è: come accelerare questo processo? Come renderlo di alta qualità? E’ un impegno che ci coinvolge con il massimo della convinzione.
Vi ringrazio, spero di incontrarci ancora e ringrazio per l’opportunità che mi è stata data in questo incontro.
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