Un nuovo centro interdipartimentale che mette l’accento sull’innovazione trasformativa è nato all’interno dell’Università di Pavia: è l’Institute for Transformative Innovation Research (ITIR), che il prossimo 31 marzo 2023 avrà il suo Kick-off Day (qui il programma completo). Fondazione Giannino Bassetti ha incontrato Stefano Denicolai, professore di Innovation Management e presidente del centro, che nel corso dell’evento presenterà i risultati della ricerca su “Imprese a più elevato tasso di innovazione trasformativa in Italia”.
Il nuovo ITIR mette l’accento sull’innovazione trasformativa. Per Fondazione Bassetti, e per definizione del suo stesso presidente, “l’innovazione è realizzazione dell’improbabile”, conducendoci il più delle volte verso mondi, strumenti, mercati, stili di vita, ancora inesplorati. In questo senso, l’innovazione dovrebbe essere sempre trasformativa, eppure, aver scelto questo termine per definirvi sembra volerci dire qualcosa su cosa intendete per capacità di fare innovazione. Non è così?
Con ambizione, noi siamo il primo centro accademico in Italia, e tra i primi al mondo, dedicato specificatamente all’innovazione trasformativa. Inoltre, mentre in questa accezione l’innovazione era soprattutto legata a temi ambientali, noi abbiamo voluto declinarla integrando altre due direttrici di trasformazione: quella tracciata dalle tecnologie digitali, e quelle dei nuovi modi di fare impresa e business. L’ambizione di ITIR è mettere al centro la prospettiva aziendale, vedere quale contributo possono dare le imprese in un’innovazione trasformativa, un’innovazione che abbia cioè un impatto responsabile in tutto l’ecosistema. Con molto realismo, dico però anche che non tutte le aziende possono, o devono, intraprendere questa strada, che è complessa e delicata. Quando spiego ai miei studenti e studentesse il concetto di innovazione trasformativa, faccio l’esempio di un bruco che, attrezzato di razzi, riesce finalmente a volare. Quel bruco, certo, sta facendo una cosa nuova, ma solo se diventa una farfalla compie una reale innovazione trasformativa, perché per noi innovare è cambiare nel profondo, cambiare il fine dell’impresa in modo irreversibile. Non tutti però devono diventare farfalle, l’innovazione non è un obbligo, e persino il percorso da intraprendere va scelto responsabilmente. Con Fondazione Bassetti condividiamo il concetto di innovazione responsabile, la necessità di interrogarsi sul perché “fai le cose”, la consapevolezza che la dimensione tecnologica non basta, tanto più che il modello Silicon Valley mostra tutte le sue crepe…
È indubbio che quel modello sia in crisi, una crisi a cui ITIR cerca di rispondere guardando alle grandi sfide dell’oggi, dal cambiamento climatico allo sviluppo di tecnologie esponenziali, fino alle crisi energetiche e geopolitiche, in ottica multidisciplinare. La scelta di associare sette dipartimenti (Scienze Economiche e Aziendali, Biologia e Biotecnologie, Ingegneria Civile e Architettura, Scienze Clinico Chirurgiche, Diagnostiche e Pediatriche, Ingegneria Industriale e dell’Informazione, Scienze Politiche e Sociali, Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense) mostra la volontà di incrociare saperi diversi. Come si interconnettono tra loro? E, tema caro a Fondazione Bassetti, è questo il tipo di sapere necessario a un’innovazione trasformativa?
Trasversalità e multidisciplinarietà sono i mantra contemporanei. Invocarle è facile, praticarle, anche se richieste dallo stesso PNNR, molto complicato. Per noi si tratta di un’enorme sfida. Primo perché spesso si scontrano visioni distanti, secondo perché in Italia i settori disciplinari sono piccoli e molto separati. Si fa più carriera quanto più si resta aderenti a un preciso settore, si è premiati quanto più si coltiva il proprio piccolo orticello, cosa che in genere non aiuta né l’economia delle imprese, né l’innovazione. Eppure, ci proviamo. La formula non l’abbiamo, ma ITIR vuole essere un laboratorio a cielo aperto per trovare la strada per combinare scienze dure e scienze sociali, spezzando il flusso lineare che ancora oggi governa un’invenzione. Si tratta di una mission ambiziosa, ma se fin dall’inizio, fin da ricerca e metaprogetto, riuscissimo a lavorare anche sulle implicazioni sociali, e poi continuare a “inventare” mentre queste implicazioni si sostanziano, forse riusciremmo a evitare quel corto circuito distruttivo che in genere si crea quando si passa dalla “fase 1”, che sta in capo alle scienze dure, alla “fase 2”, quella dove solitamente intervengono le scienze sociali. Bisogna diventare bravi nelle così dette meta competenze, la settorializzazione dei saperi del nostro Paese ancora una volta non aiuta, ma noi siamo parte di un’università italiana che, come tale, può, nella nostra visione, diventare più agile e visionaria, accelerare sulla ricerca multidisciplinare, e diventare una risorsa per affrontare le complesse sfide collettive dei prossimi anni».
Lei sottolinea anche, pur insistendo sulla dimensione sistemica, che l’innovazione trasformativa non è non-profit e si distingue dalla più generale innovazione sociale. Esiste un modello?
È necessario generare nuove opportunità con una grande attenzione alle risorse, ma bisogna anche avere il coraggio di credere che non-profit e for-profit non sono antitetici, che si può innovare socialmente generando profitto: questa è innovazione trasformativa. Semplificando molto, il capitalismo come lo abbiamo conosciuto faceva business sui “problemi”, chi fa innovazione trasformativa crede invece che si possa generare prosperità eliminando i “problemi”. Penso alla danese Novo Nordisk, produttrice del 49 per cento dell’insulina globale e specializzata nella cura del diabete, e che pure sta investendo sulla prevenzione di questa malattia, favorendo un impatto sociale positivo che solo a una lettura miope può sembrare antitetico alla loro capacità generare prosperità. Quanto al modello, è vero alcune nazioni, alcune culture, sembrano nativamente orientate a questo tipo di innovazione, ma stando molto tempo in aula come docente mi accorgo che le nuove generazioni hanno una voglia incredibile di fare questo tipo di innovazione, tanto da rifiutare offerte di lavoro interessanti quando le aziende non hanno mission trasparente.
E quali sono i vostri interlocutori accademici? Esiste una sorta di network dell’innovazione trasformativa? Con chi fate, o farete, rete?
Proprio in occasione del Kick-off Day del 31 marzo annunceremo un accordo con Ca’ Foscari, e con il Centro di Innovazione Sociale diretto da Stefano Campostrini. Su scala internazionale invece stiamo lavorando a una collaborazione, che sarà formalizzata nei prossimi mesi, con il Big Data Institute di Oxford. Siamo solo all’inizio.
ITIR prevede anche otto verticali tematici, i T-Labs, molto diversi fra loro. Si va dal Augmented Human Intelligence & Digital Ergonomics Lab al Healthcare Transformation Lab, dal Sustainable Life Science Lab al Deeptech and Manufacturing Transformation Lab. C’è un elemento comune?
La proposta iniziale ne contava addirittura 35. Troppi per un obiettivo originale di quattro. Alla fine, ne abbiamo scelti otto che potessero fare la differenza per le sfide che stiamo affrontando. Ma abbiamo guardato anche all’eccellenze della nostra università. A Pavia abbiamo centri d’avanguardia come il Virtual Modelling and Additive Manufactoring for Advanced Material, o il 3D4Med, il laboratorio clinico di stampa 3D nato dalla collaborazione tra il dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura e Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo; ma abbiamo qualcosa da dire, e fare, anche sui nuovi paradigmi che possono condurci verso un modo di fare ricerca nelle bioscienze con un approccio sostenibile. Basti pensare che ci sono dei dati che dicono che tutte le sale operatorie del mondo inquinano come il secondo stato più inquinante al mondo.
Durante l’evento del 31 lei presenterà i risultati della ricerca “Imprese a più elevato tasso di innovazione trasformativa in Italia. Ci può dare qualche anticipazione sul quadro generale?
Quello che emerge è che, come Paese Italia, siamo indietro sulla cultura dell’innovazione, e soprattutto la forbice, tra alcune eccellenze che il mondo ci invidia, e altre condizioni, è molto grande. C’è un’altra considerazione ancor più importante però. Noi ci siamo organizzati in tre gruppi di lavoro secondo altrettanti filoni: trasformazione di business, trasformazione digitale, e transizione ecologica e sociale. Durante i nostri confronti è apparso chiaro che le tre anime si intersecano e si rinforzano reciprocamente. Quindi la morale è che non ci sono tre trasformazioni, ma una sola, e chi procede diversamente perde di efficacia.
Molti interventi della giornata del 31 marzo saranno di accademici e scienziati, mi riferisco per esempio ad Andrea Carfì, Chief Scientific Officer di Moderna e il suo intervento “Transformative innovation and mRNA: from game changer in vaccine research to ecosystem disruption”. Si tratta di interventi altamente qualificati su temi entrati anche nel dibattito pubblico senza per questo agevolare il rapporto tra scienza e società civile, anzi. Un’innovazione effettivamente trasformativa non dovrebbe essere capace anche di colmare questo gap?
È fondamentale, e per noi priorità assoluta, tanto che aprirci alla società civile è uno dei nostri pilastri. Essere bravi divulgatori, attivare un dialogo vero con imprese e società, è un dovere se vogliamo che l’impatto della nostra innovazione sia realmente trasformativo. La pandemia è stata un avvertimento: in un periodo in cui avremmo dovuto accorgerci dell’importanza della scienza, la distanza da essa si è invece allargata. Di chi è la colpa? Credo che il compito di trovare le parole giuste per il dialogo sia del mondo accademico. Se riuscissimo a spiegare meglio cosa facciamo, come lo facciamo, anche il tema della competenza sarebbe risolto. Il paradosso in un certo senso nasce dal fatto che, per definizione, la ricerca deve essere libera. Ed è giusto, ma spesso chi fa ricerca, in nome di questa libertà si isola, non sente il dovere di spiegare, e diventa sempre più autoreferenziale. In ultimo potremmo dire che l’Institute for Transformative Innovation Research nasce per questo: dare inizio a un dialogo con imprese e società in nome di una libertà che sia anche responsabilità.
L’accesso al Kick-off Day di venerdì 31 marzo 2023 organizzato dal neonato centro interdipartimentale dell’Università di Pavia Institute for Transformative Innovation Research è libero e gratuito: i posti sono limitati e assegnati. Alla pagina del programma completo, in fondo trovate anche la scheda da compilare per poter partecipare.
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