Una intervista di Margherita Fronte a Wiebe Bijker, professore di Tecnologia e società all’Università di Maastricht (Olanda).
La tecnoscienza plasma le società moderne offrendo opportunità nuove, ma crea al contempo vulnerabilità che soltanto fino a un secolo fa erano del tutto sconosciute. E se da un lato, anche per questo motivo, il mondo moderno non può fare a meno dei tecnici – tant’è che sempre più spesso chi ha responsabilità di governo si rivolge ai comitati scientifici prima di decidere sul da farsi – dall’altro, mai come negli ultimi decenni, il sapere esperto viene messo in discussione tanto dalla cultura politica quanto dagli studi sociali della scienza, che hanno dimostrato la natura ampiamente costruita delle conoscenze che esso produce.
Partendo da queste premesse, Wiebe Bijker, professore di Tecnologia e società all’Università di Maastricht (Olanda), esamina la questione democratica nelle società dominate dalla tecnoscienza. È davvero possibile costruire un processo democratico su questioni che, come la neuroetica, le cellule staminali o gli ogm, richiedono competenze altamente specializzate per essere comprese? Qual è il ruolo dei comitati scientifici? E, soprattutto, come può l’attività degli esperti essere integrata in un processo che non precluda la partecipazione democratica? Affrontati nel libro The Paradox of Scientific Authority, scritto con Roland Bal, dell’Istituto di politica e gestione della sanità di Rotterdam, e con Ruud Hendriks, professore associato di filosofia all’Università di Maastricht, questi temi sono stati al centro del seminario che Bijker ha tenuto nella sede della Fondazione Bassetti di Milano. Il libro analizza la questione prendendo in esame il lavoro del Consiglio di sanità olandese, un organo di consulenza formato da scienziati che continua a essere considerato estremamente autorevole anche all’estero, e che i ministri interrogano su questioni che riguardano la sanità, l’ambiente e la sicurezza sul lavoro.
Lei sostiene che la vulnerabilità è una caratteristica delle società tecnoscientifiche. Ma perché la tecnologia dovrebbe renderci più vulnerabili oggi rispetto a un secolo fa quando, per fare un esempio, l’aspettativa di vita era di molto inferiore?
In effetti la tecnologia ha modificato le caratteristiche della vulnerabilità, più che incrementarla in senso assoluto. Ci ha permesso certamente di migliorare la nostra vita e le difese nei confronti di molti rischi, per esempio in campo sanitario, e molti gruppi che prima erano vulnerabili oggi lo sono molto meno. Al tempo stesso però si sono create nuove aree di criticità. Un esempio molto significativo è la recente esplosione del vulcano Eyjafjallajokull in Islanda, che ha avuto ripercussioni in tutta Europa e in buona parte del resto del mondo. In passato ci sono state moltissime eruzioni vulcaniche, e se anche questa fosse avvenuta solo un secolo fa nessuno l’avrebbe notata, tranne ovviamente gli islandesi. Noi oggi siamo vulnerabili a questo tipo di eventi, ma soltanto perché la tecnologia aeronautica ci permette di viaggiare a 6-10 chilometri di altezza.
Qualcosa di simile è accaduto in occasione della recente pandemia influenzale e, più in generale, per tutte le epidemie: senza la globalizzazione la loro diffusione sarebbe molto inferiore…
Esattamente. E un altro caso potrebbe essere un black out elettrico. La nostra società è totalmente dipendente dall’elettricità e una sua improvvisa interruzione, per esempio in una città grande come Milano, creerebbe molti problemi.
In The Paradox of Scietific Authority lei parte dall’osservazione che la nostra è un’epoca in cui l’autorevolezza della scienza è ai minimi storici. D’altro canto, se consideriamo i risultati di sondaggi come gli Eurobarometri, che tastano l’opinione degli europei anche su questioni tecnologiche e scientifiche, emerge che la figura dello scienziato è ancora considerata degna di fiducia. Anzi, la fiducia in queste figure professionali è molto superiore rispetto a quella riposta in altre professionalità, come per esempio i politici e i giornalisti.
È vero, ma non sono sicuro che questo sia il giusto modo di misurare la fiducia negli esperti e soprattutto la sua evoluzione nel tempo. Fino a una cinquantina di anni fa le persone tendevano a fidarsi totalmente di ciò che dicevano i tecnici o i medici e seguivano senza obiettare le loro indicazioni. Oggi non è più così: per esempio, gli scienziati che fanno parte dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) hanno espresso molto chiaramente le loro conclusioni sulla questione climatica, ma queste oggi sono discusse nel merito anche da parte dei non esperti. La situazione può presentarsi in modi diversi nei vari Paesi, ma di fatto c’è stata un’erosione dell’autorità della scienza, molto evidente negli ultimi 50 anni.
Il libro esplora il ruolo del sapere esperto nella società moderna esaminando in profondità i meccanismi di funzionamento del Consiglio di sanità olandese. Perché avete scelto questa istituzione?
Per due ragioni: la prima è che il Consiglio di sanità olandese si situa esattamente all’incrocio fra la democrazia e la scienza, fra il potere della politica e il sapere scientifico. Per chi, come noi, è interessato a esaminare le relazioni fra politica e conoscenza rappresenta quindi un ottimo caso di studio. L’altro motivo è che questa istituzione esemplifica il paradosso dell’autorità scientifica: esiste da cent’anni – e già in questo è un’istituzione eccezionale per la sua lunga storia – ma è ancora molto apprezzata e considerata attendibile e degna di fiducia, in Olanda e anche all’estero. Volevamo capire come ha fatto questa istituzione a mantenere così a lungo la sua autorevolezza.
Il Consiglio di sanità emette opinioni scientifiche elaborate da comitati creati ad hoc sulle singole questioni. E tuttavia i membri di questi panel non sono d’accordo nel dire quali sono stati i documenti di maggior successo. Per alcuni infatti il successo è rappresentato da un numero elevato di citazioni ricevute in altri lavori scientifici, altri invece sottolineano il livello di accordo raggiunto all’interno dei comitati sulle singole questioni. Secondo lei, quando un’opinione scientifica richiesta dalla politica a un panel di tecnici può essere considerata un successo?
La questione può essere considerata sotto due aspetti. C’è infatti una differenza netta fra il corretto funzionamento tecnico della “macchina” che porta alla produzione della consulenza e il documento in sé. Dal punto di vista della conoscenza scientifica prodotta ed espressa nel documento, il solo metro di misura che può dire se questa è un successo o no si trova all’interno della comunità degli scienziati: se la conoscenza prodotta viene citata e presa come riferimento allora è un successo. Dal punto di vista delle ricadute non strettamente scientifiche, invece, il documento è un successo se è scientificamente corretto (con una bibliografia appropriata, internamente coerente ecc.) e se i diversi passaggi che hanno portato alla sua elaborazione, il lancio ufficiale, la sua presentazione ai politici e così via si sono svolti in modo coordinato e organizzato.
Nel decretare un successo o un fallimento, è rilevante quanto il documento prodotto dagli esperti diventa influente?
Dipende dall’obiettivo che ci si è dati all’inizio. Se lo scopo di chi ha elaborato il rapporto è indirizzare la società, allora il suo successo si misura in base a quanto i consigli che esso contiene vengono messi in pratica. Molto spesso però documenti di questo tipo sono prodotti per stimolare la discussione democratica, senza che ci sia l’intento di controllare ciò che succederà in seguito; in questi casi, il successo dipende da quanto il dibattito si diffonde nella società. È possibile che in molti non siano d’accordo con le conclusioni degli esperti, ma se il dibattito viene stimolato allora il documento è comunque un successo.
In questo senso i comitati scientifici possono rappresentare uno strumento per la democrazia…
Sì, esattamente.
Lei identifica diversi passaggi che portano alla produzione di un parere scientifico, che vanno dalla definizione del problema, alla formazione del comitato e così via. In tutti questi passaggi c’è un lavoro dietro le quinte che si situa al confine fra scienza e politica. Nel libro si sottolinea che in questo ambito è fondamentale la coordinazione. Può spiegare questo concetto?
La coordinazione comprende numerosissimi aspetti. Ciò che appare dall’esterno (il frontstage) è fatto sia conoscenze scientifiche sia politica, ma questi due ambiti emergono come nettamente separati. La coordinazione ha due compiti: rendere chiara questa differenza, ma anche assicurare che ci sia un certo grado di interazione fra scienza e politica. Nella pratica, nel Consiglio di sanità, questo viene raggiunto attraverso due passaggi. In primo luogo si crea il comitato di esperti, i cui membri sono esclusivamente scienziati; non ci sono rappresentanti di industrie né di associazioni né di politici e ministeri. In un secondo momento però i rappresentanti dei ministeri sono invitati al tavolo del comitato come consulenti e partecipano alla discussione, per esempio indicando quali sono le intenzioni del ministero su certi temi che possono essere legati al contenuto del rapporto, oppure in che direzione vanno le politiche europee. Il passaggio iniziale crea la distinzione fra scienza e politica, il secondo permette un certo grado di interazione. Questo è lo strumento attraverso il quale si realizza la coordinazione. Ufficialmente non ci sono sovrapposizioni fra scienza e politica, ma le due siedono allo stesso tavolo.
Non sarebbe più democratico dichiarare pubblicamente questa interazione?
Se si facesse il Consiglio non apparirebbe più politicamente indipendente e perderebbe credibilità. Per questo motivo, il lavoro che viene svolto dietro le quinte deve restare nettamente separato da ciò che appare pubblicamente. Questo non rende il processo non democratico: nei documenti finali è chiaro che i rappresentanti dei ministeri hanno partecipato come osservatori, ma è anche chiaro che non erano membri del comitato e che non hanno influito sui contenuti scientifici
Nell’ultima parte del libro si classificano quattro tipi di situazioni di rischio (semplici, complesse, incerte e ambigue) in base a livelli crescenti di incertezza scientifica e alla presenza più o meno rilevante di implicazioni morali ed etiche. Lei sostiene che il livello di partecipazione pubblica alle discussioni e alle decisioni dovrebbe crescere in parallelo con l’incertezza e dovrebbe essere massimo nelle situazioni ambigue, in cui non c’è accordo su questioni etiche e morali legate alla tecnologia. Allo stesso tempo però dite anche che la presenza di stakeholder e cittadini nei comitati di esperti può minare la qualità e l’autorità del parere scientifico. Come può essere risolto questo paradosso?
Penso che per assicurare la qualità strettamente scientifica del rapporto abbiamo bisogno degli scienziati: non dei cittadini né di stakeholder. Ma se consideriamo la questione in modo più ampio, se ci sono incertezze o se sono implicate questioni etiche e politiche, allora c’è bisogno dei cittadini e degli stakeholder per assicurare qualità al processo decisionale.
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