Prosegue l’intervista a Giovanna Lazzari e Cesare Galli del Laboratorio di Tecnologie della Riproduzione di Porcellasco (Cremona). (leggi la prima parte)
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Giovanna Lazzari: Io ho avuto una forte impressione quando è nato il primo clone, Galileo. Anche perché sui libri di scuola la clonazione per trasferimento del nucleo di cellule somatico era data come impossibile…
Nel vostro articolo su Nature ("A cloned horse born to its dam twin. A birth announcement calls for a rethink on the immunological demands of pregnancy. Nature vol. 424, 7 August 2003) vi soffermate infatti sugli aspetti altamente innovativi dei vostri risultati sperimentali…
GL: Sì, la cavalla ha partorito "se stessa", cioè il clone derivato da trasferimento del nucleo di una sua cellula somatica, senza provocare nessun rigetto. Molti pensavano che la gravidanza non sarebbe potuta andare avanti perché il corpo della madre non avrebbe potuto riconoscere la diversità del feto, invece è andata avanti.
Mi verrebbe da chiedere, come sta Galileo, per esempio alla luce del fatto che l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha concluso nel suo parere del 2008 che "i tassi di mortalità e di morbilità degli animali clonati sono più elevati rispetto a quelli degli animali concepiti per via sessuale"?
Cesare Galli: Tutti gli animali da noi clonati stanno bene, i tori come Galileo sono alla sede di San Miniato del CIZ. Galileo è nato nel gennaio 1999. Certo, non so adesso se chiudiamo che cosa succederà e di chi sarà la proprietà. Volevano macellarli già a febbraio 2008, abbiamo chiesto di aspettare. Uno è stato macellato perché aveva un’ernia addominale. Gli altri si sono salvati dalla macellazione, perché abbiamo scoperto poco prima che fossero portati al macello che potevamo commercializzare il loro seme all’estero: ci sono arrivate numerose richieste dagli Stati Uniti per il loro seme. Il seme di Galileo, il clone di Zoldo, un toro da progenie molto quotato a livello internazionale, è stato utilizzato in tutto il mondo. Pensiamo quindi alla paradossalità della situazione: questi tori sarebbero stati macellati perché non remunerativi, finché non abbiamo trasparentemente commercializzato all’estero quel seme che qui non possiamo commercializzare…
Chi altri, oltre USA e EU, sta facendo un’elaborazione sia scientifica che etica e giuridica rispetto a questo tipo di programmi?
CG: In Giappone hanno pubblicato recentemente dati sulla progenie dei cloni che dimostrano che non c’è alcun rischio nel fatto di consumare prodotti (latte o carne) di progenie di cloni. In Europa ci sono pochi dati pubblicati. Può essere un problema di benessere animale, perché c’è una mortalità maggiore negli animali clonati rispetto a quelli non clonati; però il fatto di mangiarli non dà problemi.
Mi sembra di capire che forse il problema sia quello di evitare, con bandi specifici alla carne e latte clonati, che il consumatore si faccia troppe domande sull’intera filiera…
CG: Sì, certo. La clonazione non è certo l’unico problema che riguardi il benessere animale. Se andiamo a vedere gli allevamenti intensivi, c’è da spaventarsi…
GL: Pensiamo per esempio alle scrofe costrette per mesi e mesi a stare in una gabbia parto, lunga come la scrofa stessa, in cui l’animale non può muoversi, girarsi… Ma dato che rientra nei regolamenti, che la legge lo consente, anche a livello europeo, non costituisce problema per l’opinione pubblica… Noi diamo così fastidio, anche perché costringiamo a sollevare questioni molto più generali che non quelle ristrette alla nostra pratica sperimentale: l’attenzione per le nostre ricerche solleva troppo interesse anche sull’intera filiera e questo non fa piacere. Alcuni allevatori poi pensano che tutti questi discorsi sugli animali transgenici possano allontanare i consumatori, nonostante per esempio si dia da mangiare agli animali soia che potrebbe essere transgenica.
CG Io la chiamo la "sindrome della pancia piena", che colpisce i Paesi europei in cui non c’è carenza di cibo e che ti permette di avere una particolare sensibilità nei riguardi degli animali; per questo certe situazioni vengono percepite come problematiche. Nei Paesi in cui la gente ha ancora il problema di potersi alimentare a sufficienza, a nessuno viene in mente di pensare che la scrofa possa soffrire perché viene allevata in un certo modo e se riescono ad allevare dodici suinetti invece che otto vedono un vantaggio per l’uomo. Però questo non cambia che in Europa ormai la sensibilità è questa e questo chiude il cerchio sia sulla ritrosia riguardo alle effettive pratiche di approvvigionamento del nostro cibo di tutti i giorni, sia sul sospetto che circonda il tipo di ricerca che noi facciamo sugli animali.
E’ perché i cinesi non hanno la "sindrome della pancia piena", che una serie di problematiche etiche che vengono poste in Europa non vengono poste in Cina?
GL: Sì, è come in Italia quarant’anni fa. Dopo la guerra, in Italia il problema era mangiare.
E in Russia? Ho l’impressione che vogliano clonare voi e il vostro laboratorio! (vedi parte prima)
CG: Sì, in Russia e in Cina c’è molto più spazio per le nuove tecnologie.
E sul tema della responsabilità dell’innovazione su cui lavora la Fondazione Bassetti che cosa ne pensate?
GL: A me piace molto la definizione di innovazione come realizzazione dell’improbabile.
La definizione è stata coniata da Piero Bassetti. Noi parliamo di innovazione e di responsabilità in termini etico-politici, non vorremmo confinare la riflessione sulla responsabilità dell’innovazione solo all’ambito bioetico, ma vorremmo ragionare più in generale sull’innovazione come pratica diffusa. Un limite è quello di individuare innovazione solo dove c’è ricerca scientifica particolarmente avanzata. La Fondazione Bassetti si è occupata anche di design, di creatività, di nuovi modelli di distribuzione e di gestione della catena organizzativa all’interno dell’industria, proprio cercando di capire come quando si parla di innovazione si parla di un sistema che va a innervare un’intera società, che ha a che fare con la regolazione del sistema industriale, con il policy making, quindi non necessariamente con la responsabilità individuale dello scienziato. La Fondazione con la sua riflessione intende porre il problema della politica dell’innovazione e porsi il problema di chi dovrebbe prendere le decisioni sulle direzioni in cui va l’innovazione: la comunità degli scienziati, quella dei policy makers, i parlamenti, i cittadini, gli stakeholders, gli impenditori? Voi cosa ne pensate?
Per esempio, spesso si fa la distinzione fra ricerca di base e ricerca applicata, così come si fa la distinzione tra innovazione e scoperta scientifica, in cui per innovazione si intende quella scoperta che immessa nella società produce un impatto e degli effetti. A me sembra che il vostro sia un caso lampante di come, dato che c’è un certo tipo di regolamentazione giuridica, sensibilità o ipersensibilità etica rispetto al tipo di ricerche che fate, di fatto Galileo è stato clonato, ma non è stato possibile usarlo commercialmente. Ed è lì che si sarebbe avuto il link tra ricerca e innovazione. Si presume che il CIZ non voglia altri Galileo perché non può venderne il seme in Italia, non c’è cioè il feedback di ritorno, anche economico tra l’applicazione e la ricerca di base. Quindi ha senso parlare della distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata? E ha senso porre questo modello di innovazione, come se l’innovazione fosse a valle e non necessariamente a monte? Chi si pone il problema della direzione? Dovete essere voi? Voi e basta? O chi secondo voi dovrebbe porsi il problema di dove far andare la ricerca? Va bene che se lo ponga il Parlamento europeo?
CG: Ci sono situazioni diverse. La ricerca applicata dovrebbe essere più condivisa: può essere il parlamento, come l’organizzazione professionale, piuttosto che l’imprenditore, ma credo che le forze del ricercatore debbano essere conservate per fare ricerca. A Cambridge ci dicevano che l’80-90% del tempo lo devi dedicare agli scopi per cui ti hanno dato i soldi, il 10% a quello di cui hai voglia, per poter incominciare a pensare a qualcosa di nuovo. La ricerca di base la intendo in questo senso: avere quello spazio di tempo per poter fare e pensare a cose stimolanti a cui nessuno ha mai pensato, che possono portare a qualcosa di nuovo e creare nuovi ambiti di ricerca. Magari invece di parlare di ricerca di base e ricerca applicata, forse si potrebbe parlare di ricerca libera e ricerca finalizzata. Nel 1989, quando eravamo in Inghilterra, io mi sono messo a clonare pecore, mi guardavano come un povero demente, perché mi prendevano come uno che non aveva letto quello che c’era scritto sui libri: dato che non funzionava con i topi era inutile, secondo loro, che provassi a clonare le pecore con i nuclei delle cellule somatiche adulte. Nessuno, quindi, avrebbe finanziato quel tipo di ricerca perché andava contro il fare e il pensare corrente. E’ in simili contesti che serve la ricerca di base o libera, cioè quella che ti consente di avere un minimo di autonomia e di fondi per provare a fare delle cose che "non stanno né in cielo né in terra"! Il mio capo all’epoca mi diceva di provare a fare qualcos’atro; quelli che avevano fatto gli esperimenti sui topi e non avevano ottenuto risultati mi prendevano anche un po’ in giro: "Il giorno che ci riuscirai – dicevano – ti offriremo una birra". Anche nella scienza ci sono dei dogmi e se uno vuole andare controcorrente, non ha vita facile. La ricerca libera va oltre i risultati previsti o le aspettative commerciali. Oggi alla ricerca si chiede sempre a che cosa serve, che ritorno se ne avrà, i soldi arrivano se ci sono già dei risultati. Per questo distinguerei tra ricerca libera e ricerca finalizzata: oggi ha più senso una distinzione di questo tipo piuttosto che tra ricerca di base e applicata.
GL: Quello che dici è assolutamente condivisibile, però è anche vero che esistono delle aree di ricerca che sono lontanissime dalla possibilità di sviluppare una qualche innovazione. Ci sono ricerche che portano a risultati di pura conoscenza, come, per esempio, attraverso la microscopia sviluppatasi una ventina di anni fa, la conoscenza dettagliata di alcuni organi. In questo caso si procedeva con la mente aperta, priva di qualsiasi pregiudizio con la curiosità cristallina di cercare di capire. L’unico scopo era di generare conoscenza biologica. Per poi mettere insieme tutti questi pezzi di conoscenza e vedere come comporre tutti questi pezzi insieme. Oggi, in realtà, questo lo si fa ancora nella ricerca genomica. Il sequenziamento del genoma è una tipica ricerca di base. Anche se c’è una macchina che mi dà i dati, io devo comunque analizzarli. E questa è ricerca di base. Costruire conoscenza è una cosa che bisogna continuare a fare e ha anche una sua ragione intrinseca nel fatto che l’essere umano vuole cercare di guardare sempre più avanti. La mancanza di conoscenza è un buco nero che impedisce di fare ipotesi successive. Come dicevo, il valore della ricerca di base è generare conoscenza. E questo, secondo me, si lega anche al concetto di responsabilità.
Secondo te, quindi, la responsabilità del ricercatore è quella di "seguir virtute e conoscenza": se si può sapere una cosa, occorre saperla…
GL: Sì, questo la storia ce l’ha dimostrato.
Indipendentemente da quelle che saranno le scelte su come orientare eventuali ricadute operative?
GL: Questo deve essere fatto a livello di stakeholders. La ricerca di base dovrebbe essere finanziata semplicemente perché ho una mancanza di comprensione, specialmente dei fenomeni biologici, e dunque faccio ricerca.
CG: Non sono tanto d’accordo…
Chi lo decide dovrebbe essere un organo al di sopra sia dell’interesse eventuale dell’agenzia di ricerca che vuole perseguire i propri obiettivi, come dici tu, sia degli stakeholders che invece vogliono tenerti legato all’eventuale ritorno economico dei risultati della ricerca, come dice Cesare? Idealmente dovrebbero essere proprio i parlamenti, gli organi che si pongono come garanti…
GL: Ma c’è una risposta alla domanda: "Chi lo decide?". Guarda il sequenziamento del genoma di Craig Venter. In quel caso i finanziamenti sono venuti dal privato e per una ricerca di base che ha generato semplicemente conoscenza. Ed è stato pagato per questo e ha brevettato. Quello è un caso classico in cui capitale privato è stato speso perché si è capita l’importanza – solo potenzialmente applicativa – di generare conoscenza.
Ma forse in questo caso, l’ingente finanziamento si spiega con il fatto che ci aspettava che dalla mappatura del genoma ci sarebbero state delle conseguenze applicative immediate…
GL: Di fatto hanno investito questa ingente somma di denaro in una ricerca di base. Magari la speranza di un ritorno immediato c’era, ma non era garantito. Non è detto che il pubblico sia più sensibile alla questione di generare conoscenza rispetto al privato. Spesso è il privato che è più attento, perché lega la conoscenza a possibilità di crescita. La ricerca di base, secondo me, non è in contrasto con il capitale di base. Quello di Venter è stato un caso in cui il privato ha avuto una più ampia visione. E in ogni caso questi dati sono a disposizione della comunità scientifica.
Ci sono considerazioni sulla responsabilità dell’innovazione che sono rientrate nella vostra progettazione delle stesse? Secondo voi, vi sono cautele o obiettivi che vi distinguono da vostri competitori, worldwide, che vi distinguono in termini di "responsabilità"? Tu mi hai detto: "Noi qui siamo avanti di vent’anni e questo è un vantaggio che dovremmo sfruttare". I russi l’hanno capito e infatti vengono qui perché si vogliono portare avanti di vent’anni. Vi pongo la domanda in termini un po’ anglosassoni: perché dovete essere proprio voi a portare avanti un tipo di ricerca piuttosto che non altri? C’è qualcun altro che in qualche modo potrebbe essere un vostro competitore e rispetto al quale sentite di fare le cose meglio, magari con cautele e obiettivi che si definiscono meglio in termini di responsabilità?
GL: Competitori non ne abbiamo, non perché necessariamente siamo più bravi degli altri, ma perché il tipo di ricerca che noi facciamo su animali da allevamento è stata progressivamente dismessa. Per esempio, il centro di ricerca inglese in cui lavoravamo su bovini e suini, già nel 1991, quando noi siamo partiti, aveva già dismesso la ricerca sui bovini e nel giro di pochi anni ha dismesso anche suini e pecore. L’istituto in cui noi lavoravamo faceva parte dell’Agricoltural and Food Research Council, questo nome del 1990 è stato cambiato in Biotechnology and Biological Sciences Research Council: questo dice tutto sulle priorità della ricerca. Noi abbiamo voluto sviluppare e proseguire la ricerca sugli animali da allevamento, mentre in molti casi i nostri colleghi non hanno potuto andare avanti o hanno voluto raggrupparsi in centri che hanno sviluppato l’aspetto zootecnico e hanno svolto tutta la parte di ricerca biotecnologica sempre più sull’animale da esperimento. Per cui in Europa centri come il nostro sono rari.
CG: Quello che ci caratterizza è anche aver accorciato la distanza tra ricerca e applicazione. Tante cose che abbiamo scoperto le abbiamo immesse nell’ambiente nel quale abbiamo lavorato. La nostra è una condizione quasi unica: venire da un laboratorio molto forte e riuscire a provare subito sul campo. Queste sono anche un po’ le motivazioni del premio che ci hanno attribuito recentemente: ci riconoscono una leadership tra le ricerche innovative, ma anche di aver condiviso con gli altri i risultati delle nostre ricerche, di avere offerto la possibilità di venire da noi a vedere che cosa stavamo facendo.
GL: Noi abbiamo avuto sempre un atteggiamento di grande trasparenza; molti sono venuti da noi nel corso degli anni, non abbiamo mai tentato la strada di tenere segrete le nostre tecniche…
CG: E quando abbiamo pensato di brevettare, non abbiamo nemmeno avuto i soldi per poterlo fare. Sono procedure con dei costi notevoli. Le università adesso hanno un ufficio brevetti che brevetta tutto il brevettabile. Ma se nel budget della nostra ricerca, già non alto, bisogna mettere anche la copertura brevettuale non si riesce…
GL: I costi si aggirano sulle decine di migliaia di euro. E poi bisogna anche essere disposti a difendere aggressivamente il brevetto e questo vuol dire anche avere la cultura giuridica del valore del brevetto, ci vuole l’ufficio legale. Il non poter brevettare, come nel nostro caso per le dimensioni e le possibilità del nostro laboratorio, vuol anche dire che se qualcuno che ha i soldi le brevetterà noi non potremo utilizzare quelle stesse tecniche che noi stessi abbiamo sviluppato. Tra l’altro il brevetto dura vent’anni e tutto l’iter per ottenerlo dura alcuni anni, più le spese che ci sono…non vale la pena per chi non abbia un ufficio brevetti dedicato.
Voi avete anche un comitato etico. Da chi è formato?
GL: In totale il nostro comitato etico è formato da dieci persone: un avvocato, un bioetico, un medico, un veterinario dell’Istituto zooprofilattico, un veterinario dell’ordine dei veterinari, un medico specializzato in medicina umana, poi ci sono altre due persone oltre a noi – anche noi due facciamo parte del comitato etico, anche se come membri interni e senza diritto di voto – di cui uno è un medico legale e un altro medico che fa parte anche di un altro comitato etico dell’ASL di Massa Carrara. Ogni riunione è registrata e trascritta su un verbale che viene controfirmato dai membri e archiviato. Non ha valore vincolante, però noi ci comportiamo come se lo fosse. I comitati etici locali non sono istituzionalizzati. I membri dovrebbero anche essere esterni alla struttura. Nel nostro abbiamo cercato, se non altro, di avere competenze diverse: persone che lavorano nel pubblico, nel privato, medici, medici veterinari…
Quando consultate il comitato etico?
GL: Noi abbiamo istituito questo comitato circa otto anni fa, anche in base all’esperienza di comitati etici all’estero e poiché cominciava a trasparire dalla Comunità europea la volontà di avere i pareri di comitati etici locali. Il nostro comitato etico può dare pareri anche al di fuori del nostro laboratorio su altri progetti. I progetti vengono valutati secondo una serie di parametri come la competenza degli sperimentatori, il numero degli animali in relazione agli scopi della ricerca, etc. E’ capitato un caso di un progetto esterno al nostro laboratorio, in cui il comitato etico ha chiesto di venire aggiornato anche l’anno successivo per verificare se i pareri espressi fossero stati tenuti in conto. I pareri solitamente sono abbastanza dettagliati.
Ci sono stati casi in cui il comitato ha espresso un parere del tutto contrario? E in tal caso, come vi siete comportati?
GL: Un parere completamente contrario, no, ma nel progetto Xenoma, un progetto europeo molto grande, due dei partner devono, secondo il disegno sperimentale, utilizzare dei primati che sono gli animali riceventi gli organi prodotti con i nostri animali. Nel progetto c’era un numero di primati alto, che veniva giustificato con necessità di tipo statistico. Il nostro comitato etico si è espresso avanzando riserve sull’utilizzo così alto di primati, se pur per una parte del progetto che non riguardava il nostro gruppo, e quindi non era strettamente sotto la loro giurisdizione. Anche per quanto riguarda le cellule embrionali staminali umane, tutti i progetti sono stati sottoposti al parere del comitato, ma siccome tutti i progetti prevedevano che la ricerca si svolgesse esclusivamente in vitro e che le cellule non dovessero essere trapiantate in animali vivi, è stato espresso parere favorevole specificando che il parere favorevole veniva espresso proprio perché la ricerca veniva svolta interamente in vitro, allegando anche la dichiarazione di consenso informato del donatore (il consenso, come le cellule, erano state inviate da Harvard. In Italia non possono essere prodotte cellule embrionali staminali umane e noi siamo stati i primi ad importarle trasparentemente per i fini sperimentali ampiamente documentati e verbalizzati di cui diciamo).
La Legge 40/2004 si pronuncia su queste pratiche?
GL: In realtà, sulle cellule importate la Legge 40 non si pronuncia, lascia nell’oblio la questione. Adesso abbiamo un progetto con cellule staminali umane sulla tossicologia: utilizzare cioè queste cellule per verificare la tossicità di certi composti chimici. Questo campo di ricerche è oggi tra quelli vincenti dal punto di vista dei risultati, perché è una cosa eticamente accettata, visto che gli esperimenti sono soltanto in vitro e i risultati vanno chiaramente a beneficio dell’umanità e producono immediati risultati. In questo caso è anche concettualmente facile da capire.
Meglio vedere che effetto fa su una cellula piuttosto che su un bambino o un adulto…
GL: Sì, infatti. Uno dei casi per far comprendere meglio il discorso, è il caso del talidomide. Chi l’ha testato sulle cellule staminali umane oggi sostiene che il problema viene rivelato dalle cellule staminali umane, (anche se dati ancora noi non ne abbiamo a disposizione), mentre a suo tempo il problema nacque dal fatto che il prodotto era stato testato solo su animali da esperimento che non avevano rivelato la tossicità per l’uomo e per il feto.