Questo blog si prefigge, per quanto non sistematicamente, di offrire spunti di riflessione e ricerca sulle reciproche relazioni tra pratica e riflessione antropologica e pratica e riflessione sull’innovazione, e in particolare sul problema della responsabilità dell’innovazione. Si tratta di una interconnessione non ovvia, scarsamente tematizzata. Tuttavia è possibile mappare alcuni contributi, anche e soprattutto ai margini della disciplina antropologica in quanto tale, che la esplorano. Non sono numerosi e può essere interessante ricercare le parole chiave che li caratterizzano: sicuramente la globalizzazione è un fenomeno che pone una domanda forte sui mutamenti antropologici che riguardano sia gli effetti dell’innovazione su scala globale che la natura di questi effetti nelle comunità di innovatori. Seguendo un’ulteriore possibile linea di investigazione, l’etnografia della scienza è uno, anche se non l’unico, ambito di ricerca che a sua volta pone questioni fondamentali sui legami tra la scala globale delle applicazioni e delle competizione per le risorse, e i microcontesti della ricerca (politico, sociale, gerarchico, estetico, etc.). Alla base di questo tipo di ricerche, però, è sempre valido il metodo di investigazione etnografico, basato cioè sulla osservazione di prima mano dei contesti delle pratiche. L’antropologia dell’impresa, quindi, del farsi dei prodotti dalla ideazione alla commercializzazione, può contribuire prospettive – anche critiche – interessanti per comprendere il macro fenomeno della globalizzazione. Che non può essere compresa al di fuori delle dimensioni locali che la fanno esistere.
In questa prospettiva “glocal” cominciamo qui a contribuire a questa micro-impresa di mappatura, (e uso il plurale ringraziando chi collaborerà a farlo fin da subito, animando questo spazio) con alcune riflessioni di Valentina Porcellana sul volume “Antropologia della globalizzazione” a cura di Giulio Sapelli (Milano, 2002) cui seguiranno ulteriori recensioni su antropologia e sviluppo, etnografia della scienza e antropologia dell’impresa.
Cristina Grasseni
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A proposito di Antropologia della globalizzazione
di Valentina Porcellana
Alcune brevi riflessioni a margine del saggio “Per l’antropologia economica: culture e pratiche nella divisione sociale del lavoro” che apre il volume “Antropologia della globalizzazione” a cura di Giulio Sapelli.
Il disarmonico continuum fra necessità di cooperazione e conflitto della specie umana è alla base del cambiamento, ma anche, contemporaneamente, della conservazione. La costruzione della società è un continuo laboratorio di innovazione in cui le norme sociali si formano e mutano e solo quelle ritenute utili sopravvivono per qualche tempo per garantire l’equilibrio sociale.
Il capitalismo è la grande innovazione che ha scalzato le altre forme storiche di divisione del lavoro, anche se “il passaggio da società fondate sullo status a società fondate sul contratto non avviene mai storicamente in forma compiuta e totalitaria” (p. 8). Questo ci ricorda come la forma contrattuale di scambio è solo “la reificazione di rapporti sociali in realtà fondati sulla consanguineità, sulla forza, sulla minaccia della forza, sulla clientela e sul potere politico” e che quindi “il cosiddetto agire impersonale di mercato non è altro, molto spesso, che un insieme di azioni regolate dalla reciprocità, oppure dal clientelismo, oppure dalla minaccia della forza” (pp. 8-9). Dunque l’articolarsi del potere è in mano di qualcuno a cui è possibile chiedere conto delle proprie responsabilità: il mercato è gestito da attori sociali – uomini – che lo usano a proprio vantaggio. “Di più: le relazioni comunitarie di passate forme del lavoro sociale, possono riattualizzarsi per consentire a talune pratiche individualistiche di affermarsi e di dispiegarsi, intrecciando forme di azione comunitarie altruistiche, tipiche delle proprietà collettive e della riproduzione comunitaria, con forme di azione individualistiche edonistiche, tipiche di pratiche capitalistiche pienamente dispiegate” (p. 10).
L’innovazione rappresentata dal capitalismo, dunque, convive con altre forme sociali di produzione e riproduzione precapitalistiche (= non impersonali).
Il mercato, di per sé, non ha responsabilità. E’ l’uomo ad averne. Rimettendo l’accento sull’elemento umano l’antropologia economica “si presenta come un territorio di attribuzione di senso di pratiche che appaiono le più reificate e impersonali” (p. 17), svelando i fini, le responsabilità e la moralità dell’agire umano, anche in campo economico. E questo vale naturalmente anche per tutte le istituzioni, prodotto culturale dell’uomo, così: “Lo stato non è più il Moloch impersonale che agisce senza fini, o con la sola eterogenesi dei fini, per divenire, invece, l’addensarsi delle pratiche culturali di coloro che ne governano i nodi e gli interstizi. Le imprese, nelle loro relazioni di potere, tecnologiche interconnessioni, processi decisionali manageriali e pratiche lavorative, divengono molto più che attori economici” (p. 18). Sono attori con piena responsabilità sul futuro dell’umanità.