Un giovane designer italiano si muove con opere dall’elevato contenuto innovativo al confine fra arte e biologia, creando oggetti unici nel loro genere, forgiati con materiali ottenuti manipolando la materia vivente. Si chiama Maurizio Montalti, e nel 2010 ha fondato ad Amsterdam lo studio di progettazione ‘Officina Corpuscoli’, il cui scopo non è tanto quello di produrre esclusivamente bei manufatti, quanto quello di stimolare riflessioni su aspetti centrali del design (in primis, l’uso dei materiali), e suscitare domande su questioni più generali, insite nella natura umana (il rapporto fra la vita e la morte) oppure generate dal progresso e dal suo rapporto con l’ecosistema-mondo.
Vera fucina di idee, Officina Corpuscoli opera in stretta collaborazione con il Dipartimento di microbiologia dell’Università di Utrecht e organizza incontri e workshop con designer e con altri attori potenzialmente interessati ad approfondire i temi proposti, perché, spiega Montalti, «non mi interessa avere il monopolio. La mia idea può svilupparsi al meglio solo se anche altri la colgono, la discutono e la rielaborano».
Lei nasce come ingegnere; come è passato al design?
Mi sono laureato in ingegneria gestionale a Bologna, e ciò che ho appreso durante gli studi continua a essermi molto utile. Parallelamente ho sempre coltivato la passione per la disciplina del progetto e l’ho approfondita da autodidatta. Le competenze che ho acquisito mi hanno poi permesso di accedere alla Design Academy di Eindhoven. Ho scelto questa scuola perché mi interessava il suo approccio meno tecnico rispetto a quello tradizionale, e più incentrato sull’aspetto creativo e sulla necessità di rendere gli oggetti portatori di un messaggio, senza necessariamente legare la progettazione allo sviluppo industriale e alla produzione. A Eindhoven poi si lavora moltissimo con i materiali, e questo aspetto mi interessava in modo particolare.
La materia prima delle sue opere è il micelio dei funghi. Perché questa scelta?
La scelta dei materiali è centrale nella disciplina del progetto; tuttavia quelli che i designer usano più spesso, come le plastiche, le schiume i metalli e altri, derivano da processi industriali, spesso poco compatibili con l’ambiente. Ho voluto mettere in discussione questo punto. Il fascino dei funghi deriva dal loro ruolo in natura: sono ovunque, nel suolo, nell’aria… ma li associamo a repulsione, disgusto o pericolo e ne sminuiamo il ruolo, che è invece fondamentale per la decomposizione, la trasformazione e il riciclo. Nella fase iniziale delle mie esplorazioni mi interessava il rapporto fra vita e morte e mi sono avvicinato ai funghi in quanto riciclatori della materia biologica.
Questo ha comportato un approfondimento della biologia, sia teorica che sperimentale. È stato difficile?
Lo studio in sé non è stato un problema. Ho sempre avuto la passione per la biologia, e rimettermi in discussione, studiare da biologo e imparare le tecniche di laboratorio è stato stimolante. La parte più difficile è stata trovare, fra i biologi, qualcuno disposto a collaborare. Ho dovuto cercare parecchio e ho ricevuto molti no, finché all’Università di Utrecht ho incontrato le persone giuste, che mi hanno permesso di accedere ai laboratori e usare gli strumenti, e con le quali è stato possibile intraprendere progetti interessanti sia per il designer sia per gli scienziati. Questo è stato il punto di svolta.
I primi esperimenti erano volti a capire l’interazione fra funghi e materiali organici, in particolare quelli tessili, con il progetto Bodies of change. In seguito ho analizzato la possibilità di usare funghi per degradare la plastica, utilizzando come substrato per la loro crescita la sedia da giardino, un oggetto comune, economico e che tuttavia si rompe con facilità ed è difficile da smaltire.
Questa interdisciplinarietà è anche l’aspetto più innovativo della sua ricerca.
Sì, lo è senz’altro. L’interdisciplinarietà è un valore aggiunto, perché mi permette di tradurre i risultati della ricerca in oggetti, il cui scopo non è tanto quello di entrare in una fase produttiva, quanto di mostrare una direzione verso la quale ci si può sviluppare. C’è un vantaggio anche per gli scienziati, perché confrontandosi con qualcuno che ha uno sguardo esterno e che ha la libertà di sperimentare anche in modo non ortodosso può dare nuovi spunti di ricerca.
La sua sperimentazione si è spinta fino a creare una simbiosi fra un lievito e un fungo, che in natura non esiste. Quando le biotecnologie alterano il naturale processo evolutivo si creano sempre attriti; l’opportunità di farlo è controversa. Qual era lo scopo?
Il progetto System Synthetics è il risultato di un grant vinto in Olanda. Ero interessato a incrociare le capacità del fungo che degrada la plastica con quelle del lievito Saccharomyces cerevisiae, forzandoli alla simbiosi per creare un microrganismo capace di decomporre i materiali plastici e restituire energia in forma liquida (il bioetanolo prodotto dal lievito). È un progetto di biologia sintetica che ha l’obiettivo di invitare a farsi domande sulle potenzialità e le implicazioni di questa disciplina. Proporlo in veste di designer mi permette di coinvolgere nel dibattito un pubblico ampio, può incoraggiare gli scienziati a esplorare nuove possibilità e stimolare i progettisti a riflettere sulla necessità di adottare un pensiero critico sui materiali che usiamo ogni giorno.
È questo anche lo spirito dei workshop, che la vedono spesso protagonista?
Esattamente. Lo scopo è stimolare il dibattito e coinvolgere altri professionisti, incoraggiandoli ad avvicinarsi a una materia prima – il fungo – che non è quella con cui tradizionalmente lavorano e che richiede competenze e conoscenze diverse da quelle su cui i designer sono soliti fare affidamento.
Nei suoi programmi c’è anche un progetto di sviluppo industriale. Di che cosa si tratta?
È un progetto legato, in fase iniziale, al mondo dell’agricoltura e che mira ad ampliarsi in tanti altri campi applicativi… Lavoro con un gruppo di imprenditori, scienziati e creativi per arrivare alla produzione di oggetti e strumenti di largo consumo ottenuti a partire dai funghi. Entro un anno apriremo un primo impianto pilota nel nord Italia. Sebbene un’iniziativa di questo tipo debba sostenersi economicamente, non è solamente l’aspetto economico che mi interessa, quanto la possibilità di dimostrare che è possibile ingegnerizzare la produzione di oggetti di questo tipo per avviarne la produzione in scala.
(Vedi anche alcune fotografie dei laboratori di Officina Corpuscoli e la lecture di Maurizio Montalti al Politecnico di Milano)
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