Cosa accade quando l’enorme potenza di calcolo necessaria a produrre criptomonete (Bitcoin) si concentra in pochi gruppi? In questo articolo Alessandro Scoscia ci spiega che la criptomoneta è una risorsa scarsa, e che il monopolio della potenza di calcolo può ricalcare le logiche della geopolitica. Inoltre, anche nel mondo delle più diffuse applicazioni di blockchain un comportamento razionale non comporta necessariamente esiti eticamente accettabili. Per esempio, come reagisce il sistema Bitcoin, la cui affidabilità è basata sul consenso, quando si difende dall’attacco “del 51 percento”?
La criptomoneta Bitcoin non viene “battuta” come il denaro tradizionale. Nuovo valore è generato algoritmicamente ed è assegnato a chi è in grado di dimostrare di aver compiuto un certo sforzo computazionale, utile. Finalità di questo impegno è la gestione e la sicurezza dell’intera infrastruttura. La partecipazione attiva e corretta degli utenti è quindi incentivata dalla potenzialità di guadagno. Quindi l’impegno dei nodi attivi – chiamati “miner” – a estrarre valore dal proprio corretto comportamento è competitivo (il primo che risolve un problema matematico riceve tutto il valore in palio).
L’algoritmo stabilisce che complessivamente si possano generare fino a 21 milioni di Bitcoin. Ad oggi, ne risultano già generati oltre 18.628.000. Il sistema regola automaticamente la difficoltà del problema da risolvere durante il mining per far sì che, indipendentemente dalla crescente potenza di calcolo, rimanga costante il ritmo di generazione di nuovo valore. Inoltre, l’algoritmo prevede che quanto riconosciuto come ricompensa per il mining si dimezzi circa una volta ogni 4 anni (“halving”). Il più recente di questi eventi si è realizzato a maggio 2020.
Per mantenere competitività, dunque, ogni partecipante attivo sulla rete ha bisogno di aumentare la propria capacità di calcolo rispetto a quella degli altri. Avere più potenza, infatti, aumenta la probabilità di essere in grado di risolvere per primo le sfide computazionali che consentono l’attribuzione di nuovi Bitcoin.
L’uso per il mining di tradizionali CPU (Central Processing Unit) è stato rapidamente reso obsoleto dall’utilizzo di hardware diverso: GPU (Graphics Processing Unit) e schede ASIC. Le GPU, nate per ottimizzare il rendering video, aggiungere effetti grafici e gestire la visualizzazione di ambienti 3D, si sono dimostrate un ottimo supporto per i calcoli necessari in queste operazioni. Le più grandi aziende di produzione di questa tipologia di hardware, NVIDIA su tutte, hanno visto nel tempo crescere vistosamente le vendite delle loro schede, proprio per questo tipo di attività. Nella recentissima conferenza annuale "J.P. Morgan Tech/Auto", Colette Kress, Chief Financial Officer di NVIDIA, aveva dichiarato che la compagnia stava valutando la possibilità di produrre schede grafiche, senza uscita video, da utilizzare esclusivamente per il mining. L’annuncio ufficiale ha meglio chiarito la politica di produzione adottata da NVidia, sollevando più di qualche polemico interrogativo tra i miner: sulle schede “per giocare” la potenza di mining sarà limitata, via software, e saranno prodotte schede finalizzate al mining, a maggiore efficienza energetica.
Paradossalmente, e come ampiamente dimostrato nella “teoria dei giochi”, in ambienti estremamente competitivi spesso la strategia più utile per massimizzare il guadagno di ciascun partecipante è la collaborazione. In ambito Bitcoin, la spinta all’aumento delle probabilità di guadagnare dal mining ha dato luogo a forme di collaborazione tra miner: i mining pool. Molti miner infatti si organizzano in gruppi con l’accordo di condividere quanto guadagnato da uno qualunque del partecipanti, in modo proporzionale alla potenza di calcolo aggiunta al gruppo. In tal modo il pool può considerarsi un singolo grande miner, con una potenza di calcolo pari alla somma di quella dei propri membri. Di norma, un miner sceglie di partecipare ad un pool in base alla potenza già raggiunta da quest’ultimo e alla sua reputazione, al sistema di ricompensa che propone e alle commissioni che applica per gestione e coordinamento. Fermo restando che la gestione ed il coordinamento del pool vengono delegati ad una parte terza, rispetto ai miner.
Il sistema Bitcoin basa la propria affidabilità sul consenso della maggioranza dei partecipanti. È vulnerabile quindi ad un attacco distruttivo noto come “51% attack”. Nel 2014, la popolarità del più grande pool allora esistente “GHash.io” aveva portato per un breve periodo il gruppo a gestire più del 51% della potenza complessiva. Questo generò una forte agitazione nella comunità di utenti e sviluppatori e, addirittura, la vendita di gran parte dei Bitcoin personali da parte di uno dei più importanti sviluppatori del progetto. Il pool di GHash dovette promettere di depotenziarsi e di non estendersi mai più oltre il 40%.
Più recentemente, il TokenAnalyst Team è riuscito a verificare la provenienza del 95% dei blocchi minati nell’intera rete Bitcoin da mining pool che aveva identificato e ha evidenziato che in gennaio 2020 solo 5 mining pool controllavano il 49.9% dell’intera potenza di calcolo. I 5 pool, peraltro, fanno capo ad un’unica azienda, BitDeer, che esplicitamente dichiara sul proprio sito: “In strategic partnership with Bitmain, an industry-leading mining machine manufacturer, BitDeer aggregates the world’s top mining pools from across the world, such as BTC.com, Antpool, F2Pool, ViaBTC, and BTC.top, aimed at providing users with more flexible mining options”.
Analisi molto attendibili confermano che il numero stesso dei pool di grandi dimensioni sta diminuendo. La concentrazione di governance e potenza di calcolo aumenta sempre di più e si concentra geograficamente in Cina. Lo conferma lo studio presentato dal Cambridge Centre for Alternative Finance, il quale mostra che il 65% dell’intera potenza di calcolo è stabilmente in Cina. 20 fra i maggiori pool attivi al momento, infatti, sono cinesi. I motivi di questa aggregazione sono molteplici: contenuto costo dell’energia elettrica (sia proveniente da fonti rinnovabili che da carbone disponibile in grandi quantità), mining pool sempre più attrattivi per dimensione, basso costo di infrastruttura e ampia disponibilità di personale per la manutenzione.
Nel sistema decentralizzato per antonomasia, la blockchain, la tendenza che si sta evidenziando è quindi quella di un certo tipo di centralizzazione, in termini di risorse di calcolo, organizzazione della partecipazione e area geografica. Questa tendenza è percepita come una minaccia e, per certi versi, ricorda quanto già accaduto per il Web. Molto famosa è la dichiarazione del suo stesso inventore, Tim Berners Lee, sul fatto che ciò che era diventato gli aveva “spezzato il cuore”. Berners Lee lamentava la deviazione dall’intento originale di una risorsa per tutti – che potesse rinforzare la democrazia e fornire a tutti le stesse opportunità – e la sua degenerazione in strumento di concentrazione di potere economico e politico nelle mani di pochissimi soggetti (“over the top”).
La politica cinese sulle criptomonete ha vissuto momenti alterni; si è passati dal bando di tutte le attività, al “suggerimento” di far uscire gli operatori di mining al di fuori dei propri confini nazionali. Infine, è certo che la Cina possiede una potente arma tecnologica per l’ “enforcement” delle proprie scelte politiche: il Great Firewall. L’uso di questo strumento di monitoraggio e filtering del traffico di rete potrebbe essere particolarmente efficace anche per influenzare l’andamento di Bitcoin e delle altre criptomonete. Già nel 2018 uno studio della Cornel University poneva l’attenzione sul fatto che la Cina avesse maturato la capacità di eseguire una serie di attacchi contro Bitcoin e ne avesse le motivazioni.
Secondo quanto riportato in altre analisi, la cooperazione tra miner organizzati in mining pool è inevitabile e, anzi, neanche esclusa fin dalla prima proposta di presentazione al mondo di Bitcoin. Semplicemente si suppone che i partecipanti siano “razionali”, sottointendendo che non lo sia distruggere un progetto nel quale si sia spesa tutta l’energia (computazionale ed economica) richiesta per attuarla. “Volontà di non distruggere”, però, non significa “possibilità” e avere un comportamento “razionale” non significa prevedibile o eticamente accettabile.
Storicamente, sono infatti noti casi di attacco al 51% per Ethereum Classic. In un particolare caso, si stima un attaccante sia riuscito ad assegnarsi un valore di circa 5,6 milioni di dollari, anticipandone soltanto 204 mila per acquistare la potenza di calcolo necessaria. Tecnicamente una scelta “razionale”.
Anche senza disporre della potenza necessaria a sferrare un attacco “disruptive” al 51%, si possono ottenere notevoli vantaggi anche dalla sola alterazione del comportamento dei miner, una gestione fraudolenta dei quali consente di manipolare gli equilibri economici del sistema. Ad esempio, la sola possibilità di ritardare, in modo mirato, il consenso su alcuni blocchi può comportare gravi perturbazioni economiche: alcune transazioni possono rimanere non confermate, senza apparente motivo, per tempi molto lunghi o, in casi più complessi, “in attesa” che altre siano riconosciute come valide. La concentrazione di tanta potenza di calcolo in un unico Paese, o sotto un’unica gestione, rischia quindi comunque di essere una minaccia per qualunque criptovaluta o infrastruttura che si basi sulla decentralizzazione.
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