Abbiamo idea di quante persone abbiano il nostro indirizzo e-mail? O il nostro numero telefonico? Allo stesso modo ignoriamo quante e quali persone raccolgano informazioni sulle nostre abitudini. Non sto parlando necessariamente di spie o malintenzionati. Se navigate in internet sapete da tempo che ciascun computer viene “profilato” e in base all’utilizzo di ognuno di noi fornisce informazioni ai molti servizi di cui ci si avvale, siano pagine internet o programmi avviati, in modo da fornirci una “esperienza” più soddisfacente (in velocità e in pertinenza). Tali dati inoltre vengono utilizzati da varie aziende per diversi scopi.
Non è solo l’uso del computer che fornisce a terzi informazioni sulle nostre abitudini (o sulle nostre azioni). Ogni volta che facciamo la spesa usando una qualsiasi carta elettronica (bancomat, carta fedeltà…) o quando telefoniamo con un cellulare o smartphone, in breve ogni volta che usiamo un servizio digitalizzato, inviamo una informazione collegata ad un nostro profilo utente presente in una qualche azienda o istituzione.
Già allo stato attuale delle cose il concetto di Privacy è totalmente da riconsiderare, ancor più e più velocemente per la diffusione dell’Internet of Things: Internet delle Cose prevede che il destinatario delle informazioni non sia solo “qualcuno” ma anche “qualcosa“.
Adrian McEwan, autore di “Designing the Internet of Things“, propone questa definizione: Internet of Things è composto da oggetto fisico + controllori, sensori e attuatori + servizio internet: una descrizione tecnica che gioca un ruolo importante sul fronte delle questioni etiche. È proprio questo, infatti, che McEwan affronta nella parte finale del libro, a conclusione di “From Prototype to Reality”.
Internet delle Cose è un fenomeno che, a partire dal moltiplicarsi di oggetti che si scambiano informazioni fra loro (quindi uno sviluppo tecnologico), porta con sé un cambio radicale della vita quotidiana, dell’esperienza del mondo che ci circonda e dell’immagine che di esso ci facciamo.
Gli oggetti di cui si parla possono fare parte della nostra sfera personale (bypass, rilevatori vari della nostra salute, cinturini, orologi, telefoni, abiti, occhiali…), della sfera casalinga (elettrodomestici, lampade, televisori, allarmi…), lavorativa (computer, servizi igenici, distributori di bevande e alimenti, ascensori…) e pubblica (semafori o “gate”, mezzi pubblici, biciclette, mezzi di trasporto in sharing…). Si moltiplicheranno gli strumenti che ci metteranno in grado di interfacciarci con la grande rete che registra e ottimizza la nostra attività quotidiana all’interno del panorama delle Smart Cities.
Tali oggetti si potranno considerare non solo nodi di una rete, ma la loro stessa rete un nodo di una rete di reti. Intere banche dati dialogheranno, dialogano, con altre banche dati.
Trovo per questo piuttosto azzeccata la posizione di una nota impresa che invece di parlare di Internet of Things, parla di Internet of Everythings, l’internet di ogni cosa: “Cisco defines the Internet of Everything (IoE) as bringing together people, process, data, and things to make networked connections more relevant and valuable than ever before-turning information into actions that create new capabilities, richer experiences, and unprecedented economic opportunity for businesses, individuals, and countries > Infographic”
Eppure la discussione sulla proprietà di tutti i dati raccolti è ancora aperta.
Di chi sono i dati rilevati e distribuiti a varie destinazioni e chi potrà usufruirne? Saranno dell’individuo rilevato, del proprietario del sensore, del proprietario della rete, di un altro soggetto che potrebbe acquistarne l’uso? Da chi quest’ultimo dovrebbe ottenere le autorizzazioni per acquistarne l’uso? La complessità data dalla sovrapposizione di molteplici punti di vista e interessi comporta necessariamente lo sviluppo di una governance a cui riferirsi. Ma di che genere? Un coinvolgimento coordinato dei governi? Gestioni private? Meccanismi di condivisione delle scelte bottom-up o crowdsourcing? Delle linee guida simile ad una netiquette?
Nel 2012 la Commissione Europea ha lanciato una consultazione pubblica sul quesito “The Internet is gearing up for the next technological revolution: communication with and among objects. How would you envisage the ‘governance’ of such an ‘Internet of Things’ (IoT)?” da cui è risultato evidente che il pubblico non sente la necessità, anzi, è preoccupato per un intervento governativo.
In ambito europeo si sta discutendo di “veillance” cioè dell’attività di quelle strutture (private e pubbliche) che puntano esplicitamente a migliorare la vita dell’individuo e della società raccogliendo e distribuendo dati sulla salute (e non solo) dei cittadini e dell’ambiente. Sono esperienze importanti perché vedono la collaborazione sul campo di scienziati e cittadini che, attraverso l’uso di dispositivi ICT e bio-banche (centri di raccolta di informazioni genetiche), mirano alla condivisione di strumenti e saperi scientifici, sociali e legali e alla creazione di conoscenza.
Trovare modelli di gestione condivisa dei big data (come quelli raccolti anche nelle citate bio-banche) potrebbe aiutare a capire come affrontare questo nuovo panorama. Ad esempio si sta studiando come alcune forme di associazionismo di cittadinanza o di democrazia partecipata possano essere la migliore strada per distribuire e rendere trasparente in ogni passaggio l’uso dei dati.
Recentemente la GSMA, l’associazione che raduna le più grandi aziende di telecomunicazioni nel mondo, ha redatto un documento che fisserebbe le linee guida tecniche per poter far fluire masse di dati finora neppure immaginabili e ha pubblicato un report per comprendere la portata del fenomeno
Il governo italiano ha appena pubblicato la proposta per una “Dichiarazione dei diritti in Internet” per cui presto partirà la consultazione pubblica. Quello italiano non è il solo esecutivo che sta affrontando il tema, ma sempre i timori che sorgono ancora prima della lettura delle proposte si spostano tra due posizioni: quelli che temono un tentativo di imbrigliare la libera circolazione del sapere e quelli che danno per scontato sia un documento inapplicabile che “si arrende” di fronte a un tema troppo complesso. Eppure pare evidente che qualche passo si dovrà compiere e “il popolo di internet” vive con la sensazione che presto nulla sarà come prima.
Forse è già così.
In ogni caso, parlando di normative per la navigazione in internet, non si può ignorare il fatto che i confini della rete saranno sempre più ampi e capillari e saranno masse di big data. E’ per questo che i passi da fare dovrebbero essere sovranazionali, partire da accordi internazionali, almeno europei.
Internet come lo abbiamo conosciuto è una piccola porzione dell’Internet of Things e quest’ultimo è parte di una problematica ancora più ampia: la gestione dei big data.
La sensazione della necessità di linee guida non solo tecniche è sempre più forte, man mano che si percepisce l’impatto che a breve avrà su tutti i piani della nostra vita.
L’impressione è che a fronte di enormi potenzialità positive, ci venga chiesta una mutazione profonda della socialità, della intimità e della rappresentazione delle cose che ci circondano.
Più i contatti fra gli individui avverranno attraverso strumenti digitali, più gli spostamenti di persone e cose saranno registrabili, profilabili in abitudini e analizzabili da software per big data, più vivremo in una società controllata (nel senso più ampio del termine). Con i pro legati alla sicurezza, al benessere e allo sviluppo e i contro legati al rischio della perdita della libertà sociale e individuale. Su questo pericoloso crinale c’è chi si è spinto a prefigurare dittature totalitarie mentre difficilmente si è potuto immaginare la prevalenza di una socialità dove la comunità riesce a gestire i dati su se stessa in modo da migliorare sia qualità della vita che libertà (di espressione, di spostamento, di rinnovamento dell’ordine costituito).
Su questo fronte lo scorso mese (sett 2014) sono usciti due libri: “The Epic Struggle of the Internet of Things” di Bruce Sterling, uno dei principali visionari del futuro digitale, pilastro della cultura Cyberpunk e “Rete padrona. Amazon, Apple, Google & co. Il volto oscuro della rivoluzione digitale” di Federico Rampini, giornalista che ha cominciato la carriera di corrispondente estero proprio dalla nascente Silicon Valley.
Ambedue lanciano una sorta di allarme e tracciano una previsione fosca e pericolosa: il sogno di Internet come luogo di condivisione e libertà di espressione si sta infrangendo contro la sua mutazione in strumento di controllo planetario.
Sterling comincia con: “The first thing to understand about the “Internet of Things” is that it’s not about Things on the Internet. It’s a code term that powerful stakeholders have settled on for their own purposes“.
In chiusura raccolgo questo Tweet (17 ott 2014) di @AlessiAnniballo: “È finita. L’#InternetOfThing sarà la parola che sostituirà #startup nel 2015. #sapevatelo“.
(@tomcorsan)
A seguire qualche video dalla rete:
Jeremy Rifkin spiega la sua visione di Internet of Things
David Rose, l’autore “Enchanted Objects“, propone un mondo dove gli oggetti sembrano essere magici. Video di Kristyn Ulanday. The New York Times. Interessanti i punti sollevati dai lettori nei commenti all’articolo dove compare il video: “Putting Magic in the Mundane” (click su “See all Comments” e poi su “Readers’ Picks”).
Internet of Things secondo IBM Social Media
Una interessante infografica a cura di Harbor Research.
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(Photo: Picnic Day III – Internet of Things by Playing Futures Applied Nomadology from Flickr)
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