di Piero Bassetti
(Il seguente articolo è stato pubblicato su “Impresa & Stato” n.76, luglio-settembre 2006)
Tema importante quello che ci è stato assegnato: "se la libera circolazione dei saperi possa dare valore all’innovazione e se possa essere preferita ad altri strumenti quali il brevetto e il segreto industriale"! Ma anche tema assai difficile se affrontato al di fuori della superficialità nella quale, da quando la parola Innovazione è sulla bocca di tutti, esso viene spesso affrontato.
In ogni caso quasi un invito a nozze per chi, come chi scrive, da molti anni presiede una Fondazione che se pure focalizzata su innovazione e responsabilità, proprio per questo si è trovata spessissimo a confrontarsi coi delicati e complessi rapporti esistenti tra Innovazione e Sapere.
Due temi che appaiono spesso – e erroneamente – così strettamente collegati fra loro da poter essere perseguiti insieme: quasi che la realizzazione dell’uno, l’innovazione, altro non fosse che l’acquisizione di un plus dell’altro; quasi cioè che il semplicismo dell’equazione: più sapere uguale più innovazione, avesse fondamento.
Un fondamento che invece non ha: per la semplicissima ragione che l’intreccio che lega fra loro questi due termini non è affatto riducibile alla pur auspicabile loro convergenza. Tra libera circolazione dei saperi, innovazione, pratiche rivolte a incentivarne lo sviluppo o il controllo, il rapporto non è quasi mai diretto e univoco. Coinvolgendo altri. numerosi fattori è invece ben capace di generare, se scorrettamente considerato, problemi di fatto e di diritto sufficienti a condizionarlo o addirittura intercettarlo.
Molto bene fa quindi "Impresa e Stato" a invitare i suoi lettori a rifletterci a fondo.
Anche perché si tratta di un rapporto ricco di nodi complessi lo scioglimento dei quali non riguarda soltanto chi ad innovare o sfruttare l’innovazione si dedica direttamente: come ricercatori, tecnologi, imprenditori, "venture capitalists". Ma riguarda anche – e forse ancor più – chi nel processo innovativo si colloca a monte: come l’intellettuale; o a valle: come il consumatore o il pubblico amministratore.
Per mostrarlo basta fare una breve analisi dei due termini. Un’analisi che comincerà dal constatare che innovare non vuol dire scoprire bensì realizzare qualcosa di improbabile; e che proseguirà col mostrare che l’innovazione non ha come suo protagonista solo l’imprenditore – pubblico o privato – che la propone; ma esige un pari coinvolgimento di giudizio e quindi di informazione da parte di chi decide di darle credito e di avallarla.
Per il primo punto osserverò che troppi sono quelli che confondono l’innovazione con la scoperta. Certamente ci sono molte innovazioni che derivano direttamente da una scoperta, sia essa scientifica o tecnologica. Solo che queste non sono, nei fatti, né le più numerose né, sempre, le più importanti. Molte di queste, anzi, sono state il prodotto non già di nuovo sapere ma semmai di nuovi modi di usare saperi antichi: un esempio tra tutti, la locomotiva. Troppi sono quelli che confondono l’innovazione con l’acquisizione di un plus di sapere. Così come molti sono quelli che confondono l’innovazione con l’accorgimento tecnologico che rende possibile un miglioramento di processo. Si finisce così col non disporre di un concetto chiaro di distinzione fra innovazione e novità. Mentre la vera innovazione non nasce solo da un supplemento di sapere o di tecnologia ma è inscindibilmente connessa alla presenza e all’esercizio di una adeguata volontà imprenditoriale capace di legare le nuove cognizioni o le nuova tecnologie col nuovo capitale necessario per la loro implementazione in un processo nel quale la componente rischio non sarà meno rilevante della componente novità. In un processo cioè nel quale sapere, potere, volere, rischio, cioè tutte le componenti di una vera imprenditorialità, dovranno essere implicate e si riveleranno parimenti indispensabili.
Sul secondo punto osserverò che la migliore, più inventiva innovazione può rivelarsi un flop totale se il pubblico, sulla base dell’informazione di cui dispone, non la giudica accettabile, non la percepisce come positiva e perciò, non gradendola, non le conferisce il successo; e se la pubblica autorità, non giudicandola accettabile, non ha deciso di consentirla. Solo allora, non prima, l’imprenditore che ne ha proposto l’introduzione e i pubblici poteri che ne hanno consentito la diffusione potranno riscontrarne il successo economico, in termini di profitto; politico, sociale in termini di progresso. Non bisogna infatti mai dimenticare che chi è chiamato a giudicarla è sempre un’utenza, o un pubblico potere, che prima, non potendone conoscere l’esistenza, non solo non la usava, o non la regolava, ma che nemmeno poteva sentirne il bisogno o valutarne il rischio: perché appunto non ne constatava l’esistenza in assenza di concreta notizia e adeguata comunicazione.
Ora da questa analisi due sono le considerazioni che subito si affacciano.
La prima attiene al merito dell’innovatore che per assumersi la possibilità e il rischio di realizzare l’improbabile, di rendere concreto il nuovo, appunto di innovare, vive il conflitto fra il suo interesse a spingere l’accrescimento di tutti i saperi che gli servono per il successo e il desiderio di restringere solo a sé e alla sua impresa la conoscenza delle informazioni che intende utilizzare.
La seconda riguarda invece chi dell’innovazione essendo il ricevente – sia esso il cosiddetto "mercato" o invece la "Autorità" – sui processi di acquisizione e di utilizzo dei saperi utilizzabili per innovare è chiamato a esercitare una valutazione ben più articolata e complessa nella quale ricerca, possesso e diffusione dell’informazione possono giocare in modo bivalente.
E’ chiaro che il primo non potrà non essere a favore di ogni soluzione che fa crescere il patrimonio di saperi utili al suo lavoro, cioè l’innovazione, tanto più quando accedendo a tale patrimonio potrà disporre di adeguate protezioni. Mentre i secondi potranno trovarsi di fronte a qualche problema di scelta: favorire indiscriminatamente quantità e qualità della ricerca di tali saperi e la loro circolazione, o invece scoraggiarli selezionando a seconda dei loro specifici contenuti, nell’ambito di scelte le cui valenze non potranno essere solo economiche bensì anche politiche. E tali saranno anche là dove problemi di liceità o di etica non si porranno perché si porranno comunque problemi di allocazione di risorse o di direzione di sviluppo. Se infatti è vero che là dove c’è innovazione là c’è sempre cambiamento, allora è altrettanto vero che là dove c’è innovazione sempre c’è politica. Che politica è quella che non si fa carico del cambiamento?
Ecco perché a me sembra fondamentale che quando si parla di innovazione, il giudizio di chi ha responsabilità politiche – e tralascio volutamente in questa sede il tema etico – debba in primo luogo essere consapevole delle complessità delle questioni implicate. Perché in una società veramente moderna e avanzata, proprio in questo ambito non c’è spazio per atteggiamenti semplicistici di mera mistica dell’innovazione. Così come non c’è spazio per una gestione dell’informazione orientata al solo favore di chi ha il compito di innovare: quasi che fosse sempre vero che più c’è protezione per gli innovatori e sempre meglio è!
Il problema è infatti di gran lunga più complesso.
Prendiamo il brevetto. Vogliamo prenderlo in considerazione solo dal punto di vista di chi anima i processi innovativi che definirei attivi o anche da quello di chi presiede a quelli che definirò passivi? Certamente esso è un espediente funzionale alla protezione dello sforzo di acquisizione di conoscenze che il brevettante ha fatto e che non vuole vedere acquisite da chi vuole imitarlo. Come tale esso agisce a favore non solo del brevettante, che vedrà riconosciuto lo sforzo di acquisizione di un plus di sapere scientifico o tecnologico da lui promosso – tanto più se non da solo ma in gruppo, o in una organizzazione aziendale, o in un ambiente universitario – ma anche di tutta la società che ha partecipato al suo slancio innovativo e che pensa di ricavare, da questo, vantaggi latu sensu sociali.
Ma il brevetto non è soltanto questo; cioè occasione di legittimo profitto per chi lo ottiene e lo sfrutta. Esso è anche tante altre cose: è un fatto macro-economico e di mercato in quanto suscettibile di modificarne il tasso di concorrenzialità o addirittura la presenza di monopoli; è un fatto sociale se consente l’apparizione nella società di nuovi prodotti o nuovi modi di produzione aventi rilevanza non solo economica ma anche culturale; può essere un fatto di "ordine pubblico" se il suo impatto sull’organizzazione sociale risulta tale da creare lesioni di interessi per altri versi protetti (es. gli OGM) o addirittura etici (es. un clone) o a maggior ragione strategici (es.: una nuova arma).
In altri termini il suo valore e il suo significato variano a seconda che venga preso in considerazione dall’una o dall’altra parte. La sua regolazione non potrà non tenerne conto.
Tanto più che in questa problematica il caso del brevetto, o in generale della protezione dell’invenzione, non esaurisce la delicata questione del rapporto tra sviluppo e comunicazione: penso per es. al copy-right o in generale ai diritti di autore. Perché una politica della comunicazione dell’innovazione si riveli equilibrata essa non dovrà limitarsi alla sola produzione e diffusione della conoscenza dei fatti innovativi. Perché ci sia un "nuovo" accettabile, perché si creino "nuove possibilità" e quindi "cambiamento", intesi in senso non solo economico ma anche storico-politico, un’adeguata crescita culturale dell’opinione pubblica allargata relativamente al tema dei possibili rischi dell’innovazione è altrettanto indispensabile. E’ questa la vera ragione per la quale in tutto il mondo il problema dell’informazione, del suo sviluppo ma anche del suo impatto sui processi di sviluppo economico e politico è centrale. I fasti di Silicon Valley non sono riducibili all’alto numero di brevetti e alla buona protezione accordata a chi innova, sono anche il frutto dell’esistenza di una società aperta nella quale l’informazione circola anche quando si tratta di mettere in luce problemi riconducibili ad innovazioni discutibili: non a caso è proprio qui che il dibattito sul copy-right, sul diritto d’autore, sulla regolamentazione della Rete hanno avuto i più larghi riscontri. Perché è assolutamente necessario che protezione dell’innovazione e protezione del contesto che dell’innovazione fruisce vadano di pari passo.
Quando è in atto una storica torsione dello sviluppo verso orizzonti influenzati da elevato tasso di innovazione non sono solo le esigenze di chi ha nel processo la parte attiva ma anche quelle di chi è parte passiva ciò che una buona comunicazione deve tutelare: il che postula un maneggio dell’informazione e della comunicazione capaci di combinare obiettivi specifici di protezione di operatori singoli con obiettivi generali di crescita diffusa della cultura sociale che deve sapersi collegare ai fenomeni innovativi. Il caso della protezione dei brevetti in farmaceutica è un esempio certamente appropriato: c’è una bella differenza tra la protezione accordata a un nuovo processo per produrre l’aspirina a minor costo o, invece, a un farmaco capace di combattere un fenomeno nuovo come l’epidemia di AIDS in Africa.
Ma quante volte anche in casi indubbiamente complessi e delicati il tema della comunicazione dell’innovazione e dell’eventuale conflitto di interessi tra informazione e protezione dei legittimi interessi dell’innovatore riesce ad essere impostato nel riconoscimento di tutta la sua complessità?
Credo proprio si debba dire poche!
Orbene tra i molti "perché" uno ce n’è che coincide con quello che a me pare il più vicino all’intento istituzionale di questo numero di I&S: lo chiamerei la difficoltà strutturale della Pubblica amministrazione a interferire in un problema che non si sa bene se è di pertinenza del mercato o del pubblico potere.
Se si parte infatti dal presupposto che il compenso specifico dell’innovazione, intesa schumpeterianamente, è il profitto, che riconoscerlo è compito proprio del mercato, che le regole informative del mercato perché questo possa attribuire il successo di una proposta, avanzata su di esso, sono ben note, allora diventa ovvio che il tipo di comunicazione coinvolto sarà più simile alla "pubblicità", i cui costi sono generalmente a carico dello stesso imprenditore e le cui modalità seguono regole economiche e di "ordine pubblico" note e comunque non tali da costituire materia di decisione politica. Se invece si parte dall’assunzione che il compito di promuovere l’innovazione e di indirizzarne i contenuti è prevalentemente politico, non foss’altro per le implicazioni sociali e civili – oltre che macro economiche – che molte innovazioni si portano dietro, allora è chiaro che li potere politico non solo potrà, ma dovrà farsi carico di regolare i circuiti informativi secondo logiche proprie seppure coerenti, nel limite del possibile, con le esigenze di funzionamento tecnico del mercato.
Ecco allora una possibile conclusione: se una Camera di Commercio vuol far bene il suo mestiere, allora fa benissimo a fare quello che con questo numero della sua Rivista sembra essersi proposta: invitare gli attori culturali e sociali a chiarire i diversi significati dei concetti coinvolti e ad approfondirne le concrete implicazioni nell’azione regolatrice del fenomeno utilizzando in questo difficile compito tutte le risorse che la società milanese offre.
Per parte mia sono ben lieto che mi sia stata data la possibilità di mettere a disposizione qualche risultanza di un lavoro che la FGB da molti anni svolge proprio su temi come questo.
07.09.06