Il 15 febbraio 2008, presso la sede della Fondazione Bassetti a Milano, il sociologo della scienza Brian Wynne ha aperto il seminario moderato da Piero Bassetti e Mariachiara Tallacchini sul rapporto della Commissione europea, Taking European Society Seriously (2007), tradotto in italiano per iniziativa della Fondazione Bassetti (Scienza e Governance. La società europea della conoscenza presa sul serio. Rubbettino, 2008).
Gli interventi introduttivo e conclusivo del prof. Wynne, così come il dibattito ricco e coinvolgente che ne è seguito, si sono incentrati, lungo sentieri lucidi ed originali, sugli effetti sociali e politici dell’attuale mancanza di procedure tecniche, strumenti dialogici e strategie di pianificazione atte a ricomporre entro una comune visione i diversi e contrastanti punti di vista sul governo della conoscenza e della tecno-scienza.
Numerosi gli ospiti convenuti presso la sede della Fondazione: Massimiano Bucchi, sociologo della scienza; Maria Antonietta Foddai, filosofa del diritto; Raffaele Cattaneo, Assessore alle Infrastrutture e Mobilità della Regione Lombardia; Bruno Montanari, professore di Filosofia del diritto; Giuseppe Adamoli, Presidente della Commissione Statuto della Regione Lombardia; Alessandro Colombo, direttore della ricerca dell’I.R.E.R. (Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia); Giuseppe Testa, direttore del Laboratorio di Epigenetica delle cellule staminali dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano; Alessandro Cavalli, professore di Sociologia; Scira Menoni, docente di Pianificazione urbanistica; Alberto Trevissoi, caporedattore de Il Sole 24 Ore; Fiorella Operto della Scuola di Robotica di Genova.
In apertura, Brian Wynne ha spiegato le ragioni per cui, in una società razionale, il desiderio dei cittadini di fare domande sulla tecno-scienza e sugli effetti che essa sortisce sulle loro vite non deve essere visto in maniera problematica.
Tali domande sono spesso imparziali, ovvero non esprimono un’attitudine di tipo anti-tecnologico o avversa alla scienza. Le domande poste, piuttosto, sono in grado di suggerire l’esistenza di relazioni importanti tra aree della tecnologia e della scienza tra loro distanti, ad esempio la sperimentazione su larga scala dei medicinali (come avvenne per il talidomide), le colture e gli alimenti geneticamente modificati, gli effetti di lungo periodo delle scorie radioattive. Tali relazioni non sono di tipo cognitivo, bensì ricavate dalla pratica, e indicano che ambiti tecno-scientifici talvolta disparati presentano lo stesso tipo di problemi, in termini non solo di gestione del rischio (ex post), ma anche di valutazione del rischio (ex ante). In altre parole, fondamentalmente non si tratta di domande dettate dall’ignoranza di aspetti tecnici di casi specifici, ai quali si possono dare risposte tecniche su casi specifici – quali ad esempio il talidomide, gli OGM, le centrali nucleari. Le risposte basate sui soli contenuti rispondono solo parzialmente a queste domande, dal momento che, in forma indiretta, queste ultime chiedono non dati ed informazioni, bensì assunzione di responsabilità e costruzione della fiducia. Le vere domande sono: "Chi si occuperà della questione e delle sue conseguenze?". E quindi: "Possiamo fidarci?", "Quali benefici dovrebbero derivarne e per chi?". Sono domande compiutamente razionali, non intrinsecamente ostili o retrive o ancora reazionarie. I cittadini vogliono sapere chi si assumerà la responsabilità circa l’impatto dell’innovazione sulla società; e si interrogano sui fini sociali dell’innovazione. Ci sono poi altre domande sulle conseguenze non volute e sulla presa in carico delle responsabilità che ne discendono: una questione di accountability.
Il dibattito che si è sviluppato ha quindi approfondito numerosi aspetti di questo tema:
- Esiste una pluralità di significati entro il dominio semantico del lemma inglese "responsibility" (liability, accountability, answerability, etc.). Le sanzioni o le punizioni non sono funzionali al tema degli "effetti indesiderati", poiché la natura e l’impatto delle azioni dell’uomo non sono più di tipo individuale ma collettivo. Nondimeno, si continua a legare la fiducia ed i convincimenti etici all’ambigua virtù della “responsabilità", ovvero conservare un equilibrio normalizzatore tra valori e fatti. Pertanto, è necessario partire da un’evoluzione del concetto stesso di cosa significa "essere responsabile": dall’idea di essere “ligi al dovere" a quella dell’essere "capaci di anticipare le conseguenze di un’azione, confrontarsi con altri punti di vista, essere flessibili rispetto ai programmi, essere disponibili a rendere conto in modo trasparente e veritiero delle proprie azioni” (Foddai).
- La fiducia e la competenza non necessariamente vanno di pari passo (Cavalli). Esiste una differenza fondamentale tra un sistema democratico basato sulla politica (politics) ed uno basato sulle politiche (policy): è la differenza che c’è tra un sistema che sceglie coloro i quali sono legittimati politicamente a prendere decisioni, ed un sistema che invece sceglie i decisori sulla base della competenza (Montanari). Le decisioni politiche sono spesso assunte, come prassi consolidata, senza un livello adeguato di informazione e conoscenza tecnica dell’argomento in esame, in nome della fiducia che i decisori pubblici ripongono nella “appropriata capacità di giudizio” dei loro consulenti tecnici (Cattaneo).
- Bisogna chiedersi come è possibile alimentare la fiducia nei decisori pubblici quando la fede circa la neutralità sociale e politica della scienza viene meno (il che è una cosa diversa dalla fine della visione epistemologica della scienza come certezza assoluta) (Bassetti, Wynne, Cattaneo).
- La questione presenta rilievi di tipo antropologico, in quanto è imperniata sull’esistenza di diverse culture e sistemi di valori, spesso divergenti. Molti dei temi tecno-scientifici in agenda sono quindi inerentemente controversi (Testa, Cattaneo).
- Le decisioni sono spesso discusse ed assunte in ambito locale, laddove i contesti, le storie, le comunità di pratica sono di capitale importanza ai fini della comprensione e della ricomposizione di queste fratture. E’ sul campo, a livello locale, che è più facile individuare le possibili soluzioni procedurali finalizzate a raggiungere un compromesso (Menoni, Grasseni).
- Vi è una mancanza di procedure a livello istituzionale per valutare collettivamente i benefici della tecno-scienza secondo una metodologia partecipativa e basata sull’evidenza (Adamoli, Colombo, Cattaneo, Bassetti).
- La minaccia che il vuoto lasciato dall’assenza di simili procedure sia colmato da strategie di sospensione delle decisioni, di non scelta, è una minaccia reale. Tali strategie distolgono l’attenzione e l’interesse pubblici dalla ricerca della verità. Alcuni esempi: la tecnocrazia (la tirannide delle commissioni di esperti, degli indicatori, e così via); l’overload di informazioni (si inondano i cittadini di informazioni, nell’illusione che le scelte relative alla tecno-scienza possano maturare a livello individuale); la demagogia come dittatura dell’opinione della maggioranza (Colombo).
- Simili procedure non solo devono prendere in esame "che cosa fare", ma anche "perché", ovvero devono includere nella discussione i fini ed i mezzi (Testa, Colombo).
- Nel momento in cui vi è apertura ed onestà rispetto al fatto che le decisioni non sono mai l’esito di pareri esperti neutrali, bensì il risultato di assunti politici, diviene utile e necessario ricercare modi sostanziali per supportare la partecipazione dei cittadini ai processi di decisione pubblica (Adamoli).
- Nondimeno, aprire una discussione franca ed aperta sui fini sociali dell’innovazione significa confrontarsi con uno scontro tra visioni antropologiche inconciliabili circa il bene comune, il valore della vita, il significato della scienza, e così via. In altre parole, la prospettiva che si apre include visioni del mondo non confrontabili tra loro ed interpretazioni divergenti di che cosa è "vantaggioso" e per chi (Cattaneo, Testa, Trevissoi).
- I sistemi giuridico e legale vengono chiamati a dare un quadro chiaro di analisi e criteri-guida per decisioni, che gli stessi scienziati ammettono di non poter fornire (Tallacchini).
- Il passaggio dalla gestione politica (politics) di complessi problemi socio-economici alla gestione orientata alle politiche (policy) richiede che la società condivida una visione sufficientemente omogenea del bene comune. Altrimenti, il dibattito politico smarrisce il più ampio orizzonte temporale complessivo rispetto al quale investire per il bene comune, e ciascun rappresentante politico si preoccuperà dei soli effetti di breve periodo generati dalle proprie decisioni (Montanari).
- Limitare la discussione al ruolo dei pareri esperti e alla loro incertezza epistemologica significa ignorare l’impatto economico e le relazioni di potere che sussistono tra gli attori degli scenari tecno-scientifici e coloro che determinano tali scenari. Occorre occuparsi concretamente di tali scenari (Trevissoi, Bassetti, Operto).
- La retorica dell’economia della conoscenza alimenta il rischio di considerare il pubblico come una controparte del tutto all’oscuro dei fondamenti della scienza. Fortunatamente, la sensibilità dell’Unione europea a tale proposito si è evoluta, abbandonando il modello deficitario e sviluppando la strategia della propria unità "scienza nella società", non più finalizzata semplicemente a “promuovere la consapevolezza del pubblico rispetto alla scienza" (Bucchi). Tuttavia, va considerato anche il fatto che, come reso evidente dalle rilevazioni demoscopiche, in Italia il livello medio di competenza circa i temi della scienza è alquanto basso (Cavalli).
Nelle sue conclusioni, Brian Wynne ha sottolineato il vero argomento di discussione: come possiamo generare processi di creazione della fiducia, seguendo percorsi inediti ed includendo tutti questi elementi di complessità? Ciò significa che bisogna mettere a punto forme tecniche, quindi rituali, di armonizzazione degli interessi intellettuali, economici e politici e delle controparti.
La mancanza di fiducia del pubblico può essere affrontata e risolta al meglio con il ricorso a processi partecipativi. Perché simili tecniche funzionino, nondimeno, la buona fede – anche quella istituzionale – è un prerequisito che non può mancare. In altre parole, la prima decisione da prendere riguarda il tema con il quale confrontarsi come società europea: la nostra priorità è generare un’innovazione competitiva a livello globale? Oppure si tratta di un’altra, diversa questione?
Le procedure rituali come quelle dei sistemi giuridici (le audizioni delle parti contendenti presso le corti) sono modelli funzionanti che costituiscono un buon punto di partenza per il disegno delle procedure di consultazione pubblica. Tali forme altamente ritualizzate di “audizione pubblica” rispondono a finalità e funzioni pubbliche quali utili alternative alla presa d’atto dell’incommensurabilità antropologica di weltanschauung radicalmente diverse, o alla via della guerre tra bande. In tal senso, l’esperienza britannica della Windscale Public Inquiry degli anni Settanta sul piano di riprocessamento dell’impianto di Sellafield costituisce un precedente istruttivo. L’insegnamento che ne proviene è che, indipendentemente dai contenuti specifici del dibattito e dai risultati ottenuti, la forma della discussione deve contemplare sia una parte razionale, sia una parte rituale (cf. Brian Wynne, Rationality and Ritual: The Windscale Inquiry and Nuclear Decisions in Britain, 1982).
La prima conclusione da trarre è che le scelte non devono essere semplicemente “convenzionali", anche quando prese in condizioni di incertezza epistemologica e sotto la pressione esercitata dagli interessi corporativi. E’ proprio quando lo statuto cognitivo ed epistemologico dell’informazione disponibile offre spazi al dibattito, e gli interessi in gioco sono alti, che c’è un grande bisogno di ritualizzazione della decisione pubblica al fine di conferire ad essa l’autorevolezza necessaria. La funzione espletata dal rito pubblico deve essere considerata in senso letterale, antropologico, e non soltanto evocativo. Bisogna costruire scenari e ruoli teatrali che possano dare vita a situazioni codificate, stabilite e riconoscibili dall’immaginazione collettiva secondo schemi "tradizionali", ovvero autorevoli ed efficaci, sui quali i partecipanti possono essere d’accordo ed aderire intimamente.