“Il corpo contemporaneo è ormai la mappa su cui convergono diverse sinestesie”
Il corpo post-organico, Teresa Macrì, 1997
A fine dicembre 2024 Fondazione Bassetti ha aperto una galleria in Spatial, sempre visitabile, come espansione del sito: la copertina – quel momento in cui la home page del sito cambia in tutte le sue immagini e propone un tema nuovo – si prolunga in una galleria nel metaverso.
Lì si trovano contenuti selezionati del sito e qualche anteprima, ma soprattutto si offre una esperienza di socializzazione.
La sensibile fretta di dichiarare il metaverso come una moda già superata è stata già vissuta diversi anni fa con lo sboom di Second Life. Eppure, eccoci ancora qui a vivere lo sboom del Metaverso di Meta ma insieme a scoprire che in modo pervasivo ci stiamo preparando a una realtà fatta di stratificazioni perché intanto sono sorti molteplici metaversi sociali e di gioco – e Second Life è ancora vivo e molto attivo.
Forse è come si legge su Il Post: “il termine “metaverso” è stato abbandonato, considerato ormai sinonimo di una tecnologia promettente ma poco concreta. La stessa Meta, nonostante il suo stesso nome, ha recentemente dedicato un post del suo blog aziendale al futuro del settore, nominando la «realtà mista» (come viene definito il suo mix con la cosiddetta realtà aumentata, meno immersiva di quella virtuale) prima del metaverso”.
Ma l’esperienza di proiettarsi in un avatar sociale, in un dialogo attraverso un rappresentante digitale, è il cosiddetto embodiment un “dare forma” (come lo straniamento brechtiano?) a un personaggio che si muove come una espansione del nostro io. E non è un caso che durante la pandemia abbiamo scelto di imparare ad usare strumenti come Zoom Meeting o Google Meet o Microsoft Teams ma non Spatial, VRchat o le versioni “immersive” del primo gruppo citato: l’unica vera differenza tra i primi tre e gli altri (al di là degli strumenti offerti che sono decisamente simili) è l’incarnazione in un avatar digitale.
Il passaggio del sé in un “circa sé” è faticoso, ingaggia maggiormente. Si potrebbe dire che ci permette una maggiore falsificazione di noi stessi, e invece ci obbliga a una maggiore consapevolezza, ad affrontare sia la nostra forma “reale”, sia una nuova, da esporre.
Eppure, poi… l’ingaggio è molto più forte, è come un sapore complesso, più articolato. Anziché rimanere schiacciati sul “contenuto” osservato, tale contenuto si rivela di maggiore spessore, tridimensionalità, appunto. Non si parla più di navigazione, si parla di esperienza, quello spazio temporale che può lasciare dei segni nella memoria e nella crescita personale.
Il fatto di invitare i frequentatori di Fondazione Bassetti a esperire i contenuti che di solito proponiamo come articoli o materiali multimediali pubblicati nel nostro sito (e citati nei social), invitarli in un metamondo, mi pare riflettere il passaggio che, come esseri umani, stiamo affrontando.
Spesso, quando si parla di qualcosa di digitale, lo si descrive come una copia svilita dell’esperienza concreta e poi si scopre che invece ne è una espansione. Di cui non possiamo fare a meno.
Intanto, “fuori”, i social network, saturi di selfie e delle narrazioni dei nostri migliori o più emozionanti momenti della nostra vita, inseriscono profili che dichiaratamente non sono di persone reali, eliminano (riconoscendone il valore? Arrendendosi?) le verifiche dei fatti pubblicati (il fact-checking), ci preparano a un panorama dove il contraffatto è parte del reale.
Stiamo quindi per entrare in un mondo in cui il concetto di realtà che abbiamo ora (già molto compromesso), si trasforma in un altro stato delle cose, in cui realtà e invenzione – o falsità – saranno categorie completamente ridefinite e molto ma molto meno distinte. Penso che questo passaggio avverrà velocemente e con grandissima pervasività. Si pensi a come negli scorsi anni abbiamo dovuto ridefinire il concetto di privacy. Sono passati decenni da quando ci lamentavamo per una telecamera in piazza ad oggi, in cui siamo costantemente osservati, tracciati, datificati, ma è stato un percorso dall’accelerazione esponenziale.
E quindi, se qui si parla di proiezione del sé nelle cose e nella tecnologia, o comunque di relazione, non possiamo tacere il trasporto che cominciamo a provare verso una qualsiasi AI, quasi fosse un’amica di vecchia data che conosce di noi vicende a noi stessi celate.
Non penso sia più nemmeno questione di empatia con un robot o un pupazzo, è un misunderstanding, un fraintendere, un equivocare, molto molto coinvolgente. Anche se il futuro ci mostrerà maggiore precisione, minori errori, estrema verosimiglianza (a cosa?), il campo proprio del fascino della AI resterà il misunderstanding.
Se, con empatia e proiezione, spontaneamente ci mettiamo in relazione con un mondo circostante che sempre più ci parla in linguaggio naturale, consideriamo che si moltiplicano i dialoghi mai chiusi o mai interrotti con una miriade di persone che non sempre conosciamo, e che non sempre sono persone: sono bot, sono oggetti con cui ci interfacciamo quotidianamente. Fra tutti il nostro smartphone, in cui abbiamo espanso la nostra identità fino a farne una parte di noi – soprattutto quella sociale – irrinunciabile.
Non c’è scelta, si è ingaggiati e coinvolti ma al contempo deresponsabilizzati. Si è circondati di monologhi e di proposte (spesso non richieste) dall’apparenza amichevole, sempre amichevole, in uno stato personale e sociale senza geografia né tempo.
In questa straordinaria transizione, difficile è il governo e capire la “direzione giusta”.
È in questo panorama che Fondazione Bassetti “sbarca” in Spatial, un luogo dove scambiare due parole su tutto questo; è facile darsi un appuntamento laggiù (quaggiù?).
(In questa pagina più in basso, alcune immagini della serata di inaugurazione della galleria)