Il 23 settembre Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha ospitato il primo dei seminari del ciclo Archivi del presente organizzato dalla fondazione milanese in collaborazione con la Soprintendenza archivistica e bibliografica della Lombardia. Curato da Luigi Vergallo, Vittore Armanni e Serena Rubinelli di Fondazione Feltrinelli, e da Carlotta Sorba dell’Università di Padova e referente per il Progetto Activate, il workshop dal titolo Le istituzioni di conservazione: come innovare la propria funzione? ha visto la partecipazione di Giorgio Bigatti di Fondazione Isec, Debora Migliucci dell’Archivio del Lavoro, Francesco Samorè per Fondazione Bassetti, Sara Zanisi dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, e, come discussant, di Annalisa Rossi della Soprintendenza archivistica e bibliografica della Lombardia. Di seguito una breve sintesi del seminario.
Il ruolo degli istituti di conservazione e dei centri di documentazione nella società attuale; la necessità di innovare le tecniche di conservazione per restare al passo con i cambiamenti imposti dall’era digitale e con le trasformazioni della natura dell’informazione e delle modalità di generazione del sapere; trovare pratiche e soluzioni per rimettere in circolazione fonti sempre meno interrogate, anche a causa dell’evoluzione delle università e degli elaborati finali di laurea. La premessa di Vittore Armanni, dal 2015 responsabile del patrimonio archivistico della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, conduce al cuore di una discussione che ha tra i suoi obiettivi primari quello di restituire un significato civico e politico al “documento” nel senso più ampio del termine. Ne è prova ulteriore il progetto presentato da Serena Rubinelli: un archivio on line da fine settembre delle fonti prodotte dai più recenti movimenti sociali e attivisti del clima in Europa, e che risponde alla necessità di raccogliere e valorizzazione le testimonianze materiali e immateriali di quei soggetti sociali che oggi sono, o domani potranno essere, soggetti politici. Registrare le tracce lasciate dalla storia umana, per poi renderle accessibili a tutti, creare un archivio, insomma, è di fatto un atto politico, un atto che contribuisce alla qualità della vita democratica.
Nel caso dell’archivio di Piero Bassetti, e del recente accordo quadro tra l’Università Statale degli Studi di Milano e Fondazione Giannino Bassetti che ne prevede l’apertura alla ricerca di studiosi e studiose dell’Ateneo, si tratta, come ha sottolineato Francesco Samorè, «dell’archivio di un uomo politico e intellettuale cui interessa cogliere la cultura utile a rinnovare gli strumenti della politica stessa, e quindi le istituzioni. Sono settant’anni di anni di attività istituzionale. Come finalizzare questo patrimonio è la domanda che ci poniamo tutti (almeno chi partecipa a questo seminario), perché collettivamente viviamo, per citare Paul Ricoeur, “un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini”; ovvero, abbiamo tanta documentazione, ma non capiamo verso quale destinazione guidarla e verso quali fini collettivi. Di fatto, l’archivio di Piero Bassetti è la testimonianza di una corrente di pensiero che, pur attraversando diverse istituzioni, nel corso del tempo ha postulato il trascendimento delle stesse per porre le basi di una loro riformulazione. “Innovare è il modo in cui sapere e potere si combinano per modificare la storia” è un assunto della nostra fondazione, e ancora oggi, quando notiamo che il flusso prodotto dai e nei social network ‘non si può salvare’, dovremmo pensare che si tratta, ancorché di una creazione di sapere, di un tema di potere, che trasforma in oggetto di transazioni anche la nostra possibilità di crearlo, un archivio».
Come finalizzare questo patrimonio è la domanda che ci poniamo tutti (...) ovvero, abbiamo tanta documentazione, ma non capiamo verso quale destinazione guidarla e verso quali fini collettivi
Considerazioni di metodo e di strumenti si intrecciano a scelte su – per usare le parole di Rubinelli – come e cosa conservare per il futuro in un’era di opulenza informativa. Passo quasi obbligato, il processo di digitalizzazione degli archivi, cosa che nel caso di Piero Bassetti sta facendo il dottorando Dario Baldini: «Si è partiti da una selezione dei materiali, individuando innanzitutto i faldoni che raccolgono i documenti relativi all’attività internazionale, come la Commissione Trilaterale o l’IPALMO; quindi per ciascuna si sono suddivise le carte sulla base degli eventi. Carte che vengono poi processate per renderle fruibili online in modo interattivo. Le singole pagine sono strutturate e descritte, ma sarà anche possibile annotarle per evidenziare elementi di interesse, e arricchire l’esperienza di lettura inserendo collegamenti e permettendo la manipolazione dei singoli elementi. L’ultimo passo sarà poi l’implementazione di sistemi di Intelligenza Artificiale per operare sui contenuti, come riassumere porzioni di testo». E per interrogare in modo del tutto nuovo testimonianze del passato.
Un altro esempio di diverso trattamento delle fonti, lo racconta Carlotta Sorba, annunciando il progetto europeo della durata di quattro anni ACTIVATE che partirà da gennaio 2025 e che, nato in seno al consorzio di tre centri di storia culturale europei METIS (il Laboratorio dell’Università di Versailles Saint-Quentin-en-Yvelines, il Centro Interuniversitario di Storia Culturale dell’Università di Padova e il Centro delle scienze storiche della cultura dell’Università di Losanna), si propone di unire università e una serie di istituzioni di archiviazione e fondi (tra cui la stessa Fondazione Feltrinelli), per intercettare nuove forme di archiviazione e nuove narrative per le fonti, anche audiovisive e digitali, prodotte dell’attivismo e dalla sua storia transnazionale. Anche guardare a come si sono evoluti oggi istituti di conservazione della documentazione prodotta da gruppi politici e sociali come il sindacato o il movimento di Liberazione in Italia potrebbe fornire ulteriori spunti. Così Debora Migliucci ricorda che la missione culturale, politica e sociale custodita nell’archivio della CGIL oggi è utile anche per rafforzare i valori identitari della propria comunità, creare consapevolezza e promuovere partecipazione, con workshop in cui si chiamano i vecchi delegati di industrie storiche per raccontare, ma soprattutto produrre, tra passato e presente, nuove testimonianze sul tema del lavoro, del conflitto, del presidio dei diritti.
In un’epoca in cui sono cambiati gli strumenti della propria auto-narrazione, con social, reel, podcast, e in cui le professionalità che interagiscono con il patrimonio documentale, oltre agli archivisti, sono i grafici, gli ingegneri informatici e i social media manager, le modalità di relazionarsi con l’archivio devono gioco forza modificarsi. Una necessità, secondo Sara Zanisi, indispensabile per portare avanti quella vocazione di educazione civica dello stesso Istituto Parri. Le iniziative con la scuola, i laboratori didattici che invitano a far toccare con mano i documenti, le attività creative, i podcast (Hai presente la marcia su Roma? ha totalizzato più di 90mila ascolti), gli spettacoli teatrali, sono tutti progetti che rinforzano il concetto di archivio come bene comune. Perché, in definitiva, come ben sintetizzato da Annalisa Rossi: «Al di là degli strumenti, l’innovazione è soprattutto una questione strategica. Una scelta rispetto a chi si è e chi si vuole diventare. Essere consapevoli della propria funzione pubblica appare una necessità, e per farlo forse bisogna ripartire dalle conoscenze dell’archivistica tradizionale e uscire dall’idea che per intercettare pubblici nuovi ci sia bisogno di semplificare e ridurre. La complessità va compresa, non elusa».
Essere consapevoli della propria funzione pubblica appare una necessità, (...) uscire dall’idea che per intercettare pubblici nuovi ci sia bisogno di semplificare e ridurre. La complessità va compresa, non elusa
“La missione principale di un patrimonio culturale”, scrive come conclusione Luigi Vergallo, dal 2018 coordinatore dell’area di ricerca Storia e Memoria di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, “è quella di rendere possibile l’accesso alle proprie raccolte ai gruppi sociali che quell’accesso ancora non l’hanno, nella doppia accezione di accesso fisico, ma anche della possibilità di fruirne un ‘senso’. Laddove questo ‘senso’ non è determinato a priori dall’istituzione; bensì, è inteso come un significato che genera dalle risposte che quei gruppi sociali e individui stanno cercando. Ciò che dunque serve, è che il patrimonio possa contribuire a creare la cassetta degli attrezzi utile a trovare risposte da sé e per sé, più che le risposte già predisposte dall’ospite. Costruendo un Archivio vivo, insomma, il fine ultimo è la co-costruzione di un patrimonio che, nello stesso momento in cui “conserva”, abilita soggetti e gruppi che agiscono nel tempo presente a produrre una documentazione, scritta, orale, digitale, ecc., che l’istituzione ha tutto l’interesse di patrimonializzare, una volta individuati criteri e modi per farlo”.