Il 13 giugno Fondazione Bassetti ha ospitato il seminario Datafied Childhoods: Data Practices and Imaginaries in Children’s Lives con Giovanna Mascheroni, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il tema delle “infanzie datificate” rientra nel ciclo più ampio dedicato al rapporto tra innovazione e generazioni, e Longevità e Innovazione, ovvero a quella società per tutte le età evocata nel white paper A Society for All Ages. Di seguito, un breve resoconto dell’incontro.
Era il 2018 quando Fondazione Bassetti prese parte a un’iniziativa nata in seno a Regione Lombardia, il progetto RINGS – Responsible Initiative on Newborn Genome Sequencing: fu subito chiaro come, con un processo di datificazione che può iniziare ancor prima della nascita per accompagnarci oltre il fine vita, l’intera società si trovasse immersa nei processi d’innovazione. Sul modo in cui le innovazioni influenzano i rapporti tra generazioni, Fondazione Bassetti ha costruito anche un corso al Politecnico di Milano, perché, come sottolinea il segretario generale Francesco Samorè aprendo la discussione: «Alla Fondazione non interessa trattare l’innovazione come fatto isolato, etico o “di mercato”; interessa analizzare, utilizzando le lenti della demografia, che comprende l’invecchiamento della popolazione come il degiovanimento, e partendo dal tema della responsabilità su cui lavoriamo da trent’anni e dagli strumenti con cui si vorrebbero governare i suddetti processi, una società in cui le relazioni sono mutate generando fenomeni non conosciuti e quindi non ancora deliberati». Anche per questo, nel ciclo degli incontri che si sono succeduti sull’argomento, spesso si è fatto riferimento al libro di Veronica Barassi I figli dell’algoritmo (presentato in via Barozzi nel 2022), o alle riflessione avviate da Gabriele Giacomini.
L’osservazione di partenza è che l’uso dei media digitali influenza e in-forma le relazioni interpersonali e comunicative e diventa, come dice Mascheroni: «la chiave interpretativa con cui diamo un senso alla realtà sociale e produciamo realtà sociale». Ma cosa succede quando questa realtà viene influenzata e in-formata fin dai primissimi mesi di vita? «Noi viviamo in una società dei dati in cui spesso si crede che dai dati stessi e dalle tecnologie che alimentano arrivi una risposta a tutti i problemi, dimenticando di interrogarci su questioni cruciali come i nuovi confini dell’agire umano e la nuova dimensione della conoscenza», dice Mascheroni. «Bisognerebbe domandarsi, per esempio, a che tipo di conoscenza stiamo socializzando i bambini e bambine, e quali conseguenze può avere il tecnosoluzionismo dominante che accoglie le risposte immediate fornite dai sistemi automatizzati senza più interrogarsi sulle cause profonde, rinunciando di fatto a comprendere. È la rivoluzione epistemologica di cui parla Mark Andrejevic, con l’abbandono dell’assunto di base dell’illuminismo per cui “per conoscere bisogna comprendere”… E c’è anche l’illusione che attraverso la Rete si possa accedere a tutta la conoscenza disponibile, quando invece quella proposta è sempre più ritagliata su misura sulla base dei dati che noi stessi, o persone classificate come simili a noi, forniamo. Questo impatta in particolar modo sull’infanzia se pensiamo, come ha evidenziato la ricerca finanziata da Fondazione Cariplo, che lo stesso smart speaker usato per raccontare favole finisce per proporre sempre lo stesso contenuto, annullando una reale interazione vocale e predeterminando i consumi culturali fin dai primi anni di vita. La questione della limitazione dell’agency umana è in definitiva il cuore di queste trasformazioni digitali. Per ora, essendo i proprietari di queste tecnologie per lo più aziende private, non si può che constatare che si tratta di un processo che non stiamo governando».
(...) c’è anche l’illusione che attraverso la Rete si possa accedere a tutta la conoscenza disponibile, quando invece quella proposta è sempre più ritagliata su misura sulla base dei dati che noi stessi, o persone classificate come simili a noi, forniamo. Questo impatta in particolar modo sull’infanzia (...)
L’organizzazione e la gestione dei dati raccolti nelle mani di soggetti privati è una delle questioni rilevanti in un’ottica di un ripensamento delle regolamentazioni. Lo sottolinea ancora Samorè: «La raccolta di dati ha sempre segnato il punto di ingresso nella “categoria della cittadinanza”, ma la datificazione a cui siamo sottoposti oggi fin dai primi mesi di vita, e anche prima, determina l’essere cittadino in modo del tutto nuovo, con conseguenze enormi dal punto di vista dell’organizzazione della società e della politica. Appare già evidente un riadattamento delle relazioni intra-familiari sulla base degli strumenti di cui disponiamo, come nel caso della scelta di utilizzare i sistemi di tracciamento per avere rassicurazione della posizione e dei percorsi di bambini e bambine, e altrettanto palese è la modificazione del rapporto di fiducia con la scienza, le istituzioni, la politica, e il prossimo, che negli anni ha portato ad affidarci a “uno come noi”… Dal punto di vista della Fondazione, la domanda è quanto questo aspetto istituzionale e relazionale cambierà anche il modo di organizzare i nostri saperi?».
(...) la datificazione a cui siamo sottoposti oggi fin dai primi mesi di vita, e anche prima, determina l’essere cittadino in modo del tutto nuovo, con conseguenze enormi dal punto di vista dell’organizzazione della società e della politica (...) la domanda è quanto questo aspetto istituzionale e relazionale cambierà anche il modo di organizzare i nostri saperi?
Una possibile risposta arriva da Mascheroni: «La relazione tra genitori, figli e nuove tecnologie mette in luce tutte le ambivalenze che si porta dietro l’adesione acritica alla trasformazione e innovazione digitale. Citando José van Dijck e la sua platform society: “le piattaforme non riflettono il sociale, producono le strutture sociali in cui viviamo”, e questa struttura sociale spesso non garantisce le chiavi per valutare in modo critico le interfacce di accesso al sapere, a partire dagli smart speaker, e gestire le informazioni ricevute. La crisi dei “saperi esperti” va in un certo senso di pari passo con il tecnosoluzionismo, e con un deficit crescente di competenze digitali. Ma, tornando alla datificazione, se è vero che i dati sono il cuore della nascita dello Stato moderno, è la prima volta che accettiamo di essere immersi, per dirla con David Lyon, in una cultura della sorveglianza interiorizzando e normalizzando un controllo costante, sia dai nostri pari che dai nostri genitori. Non a caso c’è chi parla di colonialismo dei dati, ovvero di una colonizzazione della nostra vita attraverso i dati che noi stessi forniamo affinché i nostri spazi digitali privati diventino monetizzabili. È un nuovo tentativo di impadronirsi delle risorse del mondo che genera nuove disuguaglianze, e di fatto già appare molto disuguale non solo la distribuzione delle competenze e delle risorse per accedere alle tecnologie, ma anche la responsabilizzazione richiesta ai genitori per promuovere un uso sano delle stesse. E d’altra parte, nei Paesi in cui la delega ai processi di decision making è fortemente automatizzata, i bias algoritmici hanno già mostrato i loro effetti (è il caso del Toeslagenaffaire citato in A Society for All Ages, capitolo H7) penalizzando famiglie e bambini già in difficoltà. Libera conoscenza, organizzazione dei saperi, governance e potere sono i problemi che solleva il processo di datificazione in ogni età ma, per quanto riguarda i bambini e le bambine, si tratta di mettere la basi per l’espressione della propria identità e cittadinanza».