Internet fatta a pezzi è la prima opera a quattro mani di due profondi conoscitori delle tecnologie digitali come Vittorio Bertola, ingegnere e attivista per i diritti digitali, già membro di numerosi comitati internazionali e attualmente a capo del settore Policy & Innovation di Open-Xchange, e Stefano Quintarelli, componente dell’expert group sull’Intelligenza Artificiale per la Commissione Europea, presidente del Comitato di indirizzo dell’Agenzia per l’Italia digitale e ideatore di SPID, nonché autore, presso la stessa Bollati-Boringhieri, di Capitalismo immateriale. Le tecnologie digitali e il nuovo conflitto sociale (2019) e del volume collettaneo Intelligenza artificiale. Cos’è davvero, come funziona, che effetti avrà, di cui firma nel 2020 la curatela.
I due autori intrecciano le loro competenze professionali e analitiche in un testo divulgativo che sa coniugare un’apprezzabile facilità di lettura alla capacità di sintetizzare, in modo autorevole e accurato, le principali cifre geopolitiche e socioeconomiche dell’Internet contemporanea. L’esame di Bertola e Quintarelli prende le mosse dalla nozione di ‘frammentazione’, intesa come una nuova macro-tendenza dell’ecosistema digitale che interessa trasversalmente la gestione dell’infrastruttura fisica di Internet e la sovra-concentrazione dei servizi digitali in mano a poche e gigantesche multinazionali tecnologiche.
L’assunzione della frammentazione come categoria interpretativa privilegiata del nostro presente digitale consente agli autori di registrare innanzitutto alcuni cambiamenti sostanziali che si sono verificati nella storia recente di Internet e del web. Tra questi spicca l’inequivocabile e definitivo tramonto dell’universalismo che contraddistingueva l’Internet degli esordi, radicalmente decentralista, avversa allo sfruttamento commerciale dei propri protocolli e promotrice dell’accesso aperto, dell’architettura peer-to-peer e, quindi, di una partecipazione collaborativa e dal basso finalizzata ad una progressiva democratizzazione della disponibilità e dell’uso delle tecnologie. È appunto questa la constatazione preliminare da cui si dipana l’intero percorso espositivo del libro, il cui scopo dichiarato è pertanto quello di individuare e ricostruire le tappe salienti attraverso le quali si è progressivamente arrivati alla recente emersione dei nazionalismi digitali, da un lato, e, dall’altro, al consolidamento di un oligopolio ristretto dei servizi digitali da parte delle principali Big Tech.
Entrambi questi aspetti sono fuor di dubbio paradossali se si considera, come mettono in risalto i due autori, che l’attuale grado di avanzamento tecnologico della rete si deve in gran parte alla duplice circostanza che “tutto il software che fa funzionare il cuore di Internet […] è software libero, o al limite una variazione proprietaria di un software libero” e che, inoltre, “senza questo modello di creazione collettiva dei programmi fondamentali, Internet probabilmente non sarebbe mai nata”.
Da dove traggono quindi origine queste molteplici direttrici di frammentazione della rete? La risposta, sostengono Bertola e Quintarelli, va ricercata in prima battuta nel laissez-faire che per lungo tempo ha caratterizzato le politiche regolamentative delle istituzioni statali o federali, come testimoniano leggi come il Communication Decency Act varato nel 1996 dal governo americano, il quale sancì per la prima volta il principio di non-responsabilità dei fornitori nei confronti dei contenuti pubblicati sulle loro strutture di hosting, ma anche la Direttiva europea sull’e-commerce (2000) che istituì il cosiddetto ‘principio del paese di origine’, per il quale i contenuti e i servizi distribuiti trasversalmente ai Paesi europei sarebbero stati comunque soggetti alla sola giurisdizione nazionale del loro Paese di produzione o provenienza.
Se l’immotivata e controproducente permissività delle politiche governative nel settore digitale era già stata sottolineata da altri autori, tra i quali Massimo Florio, Internet fatta a pezzi suggerisce però un ulteriore causa dell’attuale frammentazione politica della rete, individuandola nell’inefficacia dei modelli di governance adottati dagli enti internazionali preposti ad una gestione globale e condivisa di Internet come la Internet Engineering Task Force (IETF). Tali strategie avrebbero infatti involontariamente promosso un’indebita sovra-rappresentazione dei Paesi occidentali in molti comitati d’indirizzo internazionali consegnando ai loro membri americani una significativa e iniqua egemonia decisionale. Nella ricostruzione dei due autori, la conseguente “assenza di un governo rappresentativo e sufficientemente riconosciuto da tutti” avrebbe dunque incentivato l’affermazione, per parte americana, di una sorta di ‘neocolonialismo digitale’ nei confronti del resto del mondo, condizione che costituirebbe una delle ragioni principali per cui molti Stati sono stati portati a “riaffermare la [propria] sovranità nazionale, non solo nell’accezione negativa di uno stretto controllo sui propri cittadini da parte di un governo, ma anche in quella positiva delle garanzia della libertà e dell’indipendenza” che derivano dall’autodeterminazione politica dei popoli.
La frammentazione di Internet in senso nazionale non viene difatti esercitata esclusivamente per mezzo di elaborati sistemi statali di sorveglianza dei cittadini e di censura digitale – di cui il noto Grande Firewall cinese costituisce per longevità e efficacia un testimone d’eccellenza – o, addirittura, tramite la creazione di una Internet parallela e sostanzialmente disconnessa da quella mondiale come in Corea del Nord, bensì deriva anche dalla differenziazione di policy e funzionalità richiesta dalle diverse legislazioni nazionali o sovranazionali, come nel caso dei vincoli e dei requisiti introdotti dall’Unione Europea nel corso della sua recente e robusta ‘svolta regolamentativa’ in materia di servizi digitali, privacy e protezione dei dati (Sul tema si rimanda, tra gli altri, a M. Santaniello, La regolazione delle piattaforme e il principio della sovranità digitale, «Rivista di Digital Politics», 3, 2021, pp. 579-600).
Dalla circostanza generale per cui pur non essendo “ovviamente vero che Internet non fosse soggetta alle leggi nazionali […] nessuno Stato si preoccupò più di tanto di imporne il rispetto” deriva però anche la frammentazione in senso commerciale della rete – quella collegata, cioè, alla progressiva privatizzazione di quest’ultima per opera di un numero estremamente ristretto di fornitori di servizi. Una privatizzazione che ha investito tanto l’infrastruttura di Internet, in termini di cavi (di cui il 57% di questi è di proprietà delle GAFAM – Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – e di Netflix) e reti di consegna, vale a dire di server e connessioni (il 90% del mercato è gestito da tre oligopolisti americani: Amazon e due aziende specializzate – Cloudflare e Akamai), quanto la vasta e variegata congerie di funzionalità, applicazioni e programmi accessibili online: dai servizi cloud ai motori di ricerca, dalle reti sociali allo streaming e alla messagistica, e così via. L’oligopolio economico detenuto dai grandi intermediari digitali (che Gabriele Giacomini pensa di conseguenza come veri e propri ‘neointermediari‘) riflette un modello di gatekeeping commerciale che si fonda sulla progettazione di sistemi gratuiti ma proprietari e non interoperabili, nonché sull’adozione di strategie manipolatorie di lock-in degli utenti e, spesse volte, anche di numerose pratiche anticoncorrenziali finalizzate a mantenere o a rafforzare la propria posizione dominante sul mercato, scoraggiando l’affermazione di nuovi potenziali competitor.
La frammentazione di Internet in una miriade di “giardini recintati” che fanno però capo a pochissimi attori economici, perlopiù statunitensi, consegna a questi ultimi un “potere di pressione politica e di influenza sociale mai visto prima” che si manifesta in una sostanziale e emblematica dipendenza della stragrande maggior parte degli Stati del mondo dalle forniture tecnologiche dei monopolisti americani. A sua volta, ciò comporta una drastica e problematica riduzione delle capacità istituzionali di intervento e di contrattazione in numerosi ambiti tradizionalmente soggetti ad una gestione monopolistica da parte dello Stato, quali la certificazione dell’identità dei cittadini, l’imposizione di una tassazione coerente con i propri regimi fiscali, l’amministrazione autonoma della propria sicurezza nazionale o interna e, infine, la possibilità di regolare l’accesso dei cittadini a determinati contenuti, qualora essi risultassero, ad esempio, illegali. In piena regola con il destino tragico dei beni comuni descritto da Garett Hardin, per il quale “tutti sfruttano e molti inquinano a costo zero, mentre nessuno investe per proteggere e migliorare l’ambiente comune, che alla fine viene distrutto, con una perdita di tutti”, dalle ceneri dell’Internet globale rischia quindi di nascere una nuova forma di governo mondiale fondato su una sorta di ‘feudalesimo digitale’ delle Big Tech, il quale potrebbe persino arrivare a soppiantare silenziosamente il presente ordine vestfalico.
Di fronte a tali amare previsioni dal gusto forse un po’ distopico, le riflessioni di Bertola e Quintarelli confluiscono a questo punto a favore della cosiddetta ‘sovranità digitale’, vale a dire “[de]l diritto e [de]l dovere di uno Stato indipendente di imporre efficacemente regole specifiche all’uso di Internet da parte dei propri cittadini e da parte degli attori esteri che forniscono a essi i servizi digitali fondamentali, in modo che tale uso sia conforme alle leggi, ai valori e agli interessi di quello Stato”.
In sintonia con le posizioni espresse in questi stessi anni dal filosofo Luciano Floridi, il quale non a caso firma la Prefazione dell’opera, gli autori prendono conclusivamente in considerazione la frammentazione non più come mero strumento ermeneutico ma anche come possibile soluzione ai problemi di governance che affliggono il nostro ecosistema digitale. Il loro presupposto è che sia “auspicabile che […] la frammentazione vada a vantaggio dei cittadini e sia gestita, almeno nelle parti del mondo in cui la democrazia è ancora di moda, attraverso le procedure di autogoverno della società che abbiamo elaborato in secoli di storia e di progresso”. Pertanto, un’azione regolamentativa equilibrata potrebbe costituire un buon compromesso tra una condizione di completa assenza di regole come quella contemporanea, che favorisce lo strapotere delle piattaforme, e un potenziale eccesso di controllo statale su Internet, che causerebbe, per contro, una rovinosa suddivisione della stessa in “blocchi nazionali”.
Le direttive e i regolamenti europei potrebbero, in conclusione, contribuire fattivamente al concepimento di un nuovo “modello di governo di Internet” che “non sia basato né sulla sola finalità economica né sul solo controllo della politica, ma persegua una via di mezzo tra i due” e che presupponga al contempo “un mercato digitale unico, libero e competitivo, ma anche una supremazia dei valori e dei diritti umani sul mercato stesso”.
Solo l’immediato futuro saprà dimostrare fino a che punto le speranze riposte da Bertola e Quintarelli nel successo del “talento” europeo per i “valori fondamentali comuni” possano essere giustificate. Per ora, quel che è certo è che “[a] differenza degli Stati, per i quali in centinaia di anni abbiamo sviluppato raffinati sistemi di controllo e bilanciamento dei poteri, non esiste alcun modo di assicurare che aziende private agiscano nell’interesse pubblico o anche solo ne tengano conto” e le gravi e manifeste ripercussioni socioeconomiche e democratiche del capitalismo della sorveglianza e dell’ampio tasso di diffusione globale di disinformazione non fanno che confermarlo.
INTERNET FATTA A PEZZI. Sovranità digitale, nazionalismi digitali e Big Tech
Autori: Stefano Quintarelli, Vittorio Bertola
Editore: Bollati-Boringhieri
Data e luogo di pubblicazione: Torino, marzo 2023
Recensione di Margherita Mattioni