L’idea del salottone è nata durante la pandemia, sulla scorta del libro di Piero Bassetti Oltre lo specchio di Alice. Governare l’innovazione nel cambiamento d’epoca con l’auspicio di aiutare ciascuno a confrontarsi su quanto esperisce nel proprio lavoro quotidiano, compresi gli spunti fattuali e cronistici, e offrire un luogo per cercare insieme, estraendo il senso da collegarsi a fatti nuovi.
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L’idea del salottone è nata durante la pandemia, sulla scorta del libro di Piero Bassetti Oltre lo specchio di Alice. Governare l’innovazione nel cambiamento d’epoca. Insieme a una lettera di Bassetti e Samorè, alcune cartelle di Fabio Rugge accompagnavano l’invito e ne descrivevano lo spirito. Qui un estratto:
«È sempre più precisa in noi la sensazione di essere protagonisti di un ininterrotto ed entusiasta cambiamento senza meta (…)
Una scena di questo cambiamento è il sapere, e in particolare la sua variante amputata: la scienza. La nostra dotazione di potenza in questo ambito ha rotto gli argini della nostra capacità di governo (…)
L’altra scena è la comunità glocale (…) La scena delle scene è l’ambiente (…)
Siamo convinti che tutto questo richieda più Governo. Eppure, tutto il Governo disponibile si presenta debole e senza ispirazione. Noi, oltrepassando lo specchio di Alice, ci siamo lasciati alle spalle i tradizionali sistemi di orientamento. Il sapere rinascimentale (con la sua declinazione scientista) ha dato ciò che poteva.
Lo stato-nazione si è perso per strada la nazione. Da un lato, il territorio vivente si disegna ormai attraverso città enormi; dall’altra parte, emergono ‘civilizzazioni’: non sono ‘popoli’, sommano e trascendono realtà multiple.
I sistemi di credenze della modernità hanno anticipato e guidato i grandi avanzamenti. Non sono stati al loro seguito! È di costruzioni simili che abbiamo bisogno. In fondo, ciascuno di noi placa il proprio demone quando sente di essere sintonizzato su cose importanti».
Aiutare ciascuno a confrontarsi su quanto esperisce nel proprio lavoro quotidiano, compresi gli spunti fattuali e cronistici, e offrire un luogo per cercare insieme, estraendo il senso da collegarsi a fatti nuovi. Questo l’auspicio, confermato dal primo incontro e proposto ad apertura del secondo.
La discussione è ruotata intorno all’intervento iniziale di Alessandra Lavagnino, sinologa direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università di Milano. Si è partiti dalla problematica dei rapporti tra la guerra pandemica e il sapere tecnologico; del modo di organizzare il sapere tra scienza e istituzioni; del portato di civilizzazioni diverse anche negli approcci individualisti o collettivisti.
Abbiamo visto che il problema dei sistemi liberali di trovare un posto legittimo, equilibrato, soddisfacente e sostenibile all’autorità si è rappresentato, durante la pandemia, in maniera drammatica. Oltre al Covid, si è enfatizzata la più generale tendenza storica all’assolutizzazione dell’individualismo con il corollario di politiche e bolle identitarie, cancel culture, risentimento. Per quanto sacrificare l’individualismo ci veda riluttanti, riconosciamo che una somma di individui non assolve i compiti collettivi. Una comunità di follower forse non è una comunità.
Nella ricerca di comprendere lo stallo delle istituzioni “al di qua dello specchio” si è affacciato il tema della comunicazione: in qualunque situazione si trovi, la politica deve scegliere. E qualunque giustificazione di quella decisione sembra delegittimata, complice la crisi dei saperi esperti.
La sfida è al pensiero politico. Come reinventiamo le fonti di potere, che sono condizionate dalla potenza di un “nuovo” sapere (dai big data al genoma, dall’intelligenza artificiale all’algoritmo) quando abbiamo visto che l’auctoritas non viene dal sapere, bensì dalla capacità di suggestionare al sapere di cui si è portatori? In sintesi: a quale sapere andrà il potere?
Ecco allora affacciarsi l’interrogativo sui soggetti capaci di navigare in un mondo trasformato in tutte le sue categorie fondamentali, a cominciare da spazio, tempo e mobilità. In altre parole, per quanto si continui a ragionare sull’offerta di potere, ciò che sembra non funzionare è l’organizzazione della domanda di potere. E quindi il modo per ricostituire una auctoritas sta forse nell’education della domanda di potere. Le rivoluzioni vengono dal basso, nonostante gli intellettuali pensino che prima è venuta l’Enciclopedia e poi la presa della Bastiglia!
La messa in discussione del modello di statualità è una conseguenza dell’esserci scoperti a vivere in un mondo glocale; ma è anche effetto della debolezza del potere, sfidato anche nella sfera dell’opinione pubblica dalla rivoluzione nell’informazione; da cui l’ascesa degli influencer. Ne abbiamo parlato partendo dall’esperienza di chi, come Salvatore Carrubba, vive da dentro le avventure dei media.
Il Pew Research Center statunitense ha spiegato che il giudizio nei confronti dei media, nell’ultimo anno, è cambiato: la loro influenza è ora crescente, quando solo nel 2019 la maggioranza degli americani definiva il declino dei media quasi inarrestabile. Inoltre, se una grandissima maggioranza – il 68% – riceve informazioni dai social media, allo stesso tempo quasi il 60% le considerano largamente inaccurate. Con le bolle, le echo chambers, si ricevono informazioni che corrispondono al proprio profilo assieme alle persone che condividono gli stessi interessi. Finisce il pluralismo che era alla base del modello della democrazia classica. E nel business dei media si sta premiando un sistema nel quale i titani (Google, Amazon, Facebook e Apple) mangiano circa tre quarti della pubblicità digitale. Il ruolo dell’editore – delle piattaforme – non è più quello di dare informazioni ma soltanto di attirare l’attenzione. Come scrive Byung-Chul Han (Nello sciame. Visioni del digitale) essere bombardati dalle informazioni non significa poter decidere meglio conoscendo meglio. Prevale il frastuono.
Almeno dal punto di vista della regulation l’Unione Europea è all’avanguardia, sta elaborando proposte coraggiose sul controllo dei dati e sull’utilizzo delle piattaforme, nel senso di tutelare i diritti dei cittadini e tutelare la qualità dell’informazione.
Abbiamo discusso del rapporto tra doxa e verità in tempo di pandemia. Gli stessi dati forniti sul covid non erano capaci di totale verità, perché la verità scientifica ha elementi di soggettività rilevanti. Dunque, dobbiamo avere il coraggio di chiederci se il problema non sia nella democrazia, che in fondo contiene il diritto al conferimento del potere all’ignoranza. Non esiste solo la variabile assunta come centrale – cioè che la crazìa abbia bisogno di un demos che sa – ma la sua alternativa, che è quella di Huxley, del Brave New World: l’alternativa del soma e quella del potere degli alfa, che il rapporto con la verità lo realizzano in modi estremamente selettivi.
Fabio Rugge ha trattato il tema Cosa c’è dopo lo stato? Dalla politica alla simbiotica, partendo dal presupposto che ciò che sarà politico nei prossimi decenni dipenda dalla capacità di liberare la testa – e il modo di funzionare delle istituzioni – dall’idea della statualità.
Bisogna cioè domandarsi se la dottrina classica dello Stato (popolo, territorio e potere sovrano) regga alla scena del XXI secolo. Sebbene dal 1970 a oggi abbiano aderito all’Onu 67 Stati, quasi un terzo di essi ha una superficie inferiore a quella del comune di Roma. Inoltre, tutte le ripartizioni interne con cui gli Stati si organizzavano per demoltiplicare il proprio comando territoriale stanno saltando. Sono emersi territori economici naturali, come la pianura Padana, o territori che violano addirittura i confini statuali, basti pensare a quello che c’era tra Hong Kong e Shenzhen. Si parla di trascendimento: le piattaforme emerse dall’evoluzione di Internet stanno diventando un luogo alternativo a quello delle relazioni territoriali.
Il secondo punto è l’eclissi del popolo. Gli Stati vengono sostituiti dalle grandi reti digitali in piattaforme che accolgono popoli multiculturali, multilinguistici e multireligiosi. Il fenomeno migratorio, in crescita, impatta soprattutto sugli stati che avevano “creato” la statualità, nati come entità compatte sotto il profilo religioso prima (cuius regio eius religio, la pace di Augusta) e poi nazionale. Mentre ora tali comunità di costume si fondano su base trans-statale, cioè sulle civilizzazioni. A tal proposito ci interessa il ruolo di Unaoc, United Nation Alliance of Civilization, agenzia delle Nazioni Unite per l’incontro tra le civilizzazioni.
E poi c’è lo smarrimento della sovranità. Lo Stato ha perso la prerogativa di giudicare e rendere giustizia (sono nati 125 corpi sovranazionali incaricati di tale funzione). A leggi nazionali si sovrappongono direttive europee, e queste devono fare i conti con le leggi regionali. L’urto dei sistemi di controllo basati sul digitale e sugli algoritmi ha tolto spazio alle meccaniche basate sul confronto tra libertà e coercizione, entrambe controllate dagli Stati, che facevano le leggi e punivano chi non le rispettava. Si è affermata la dinamica abilitazione/disabilitazione, che può essere agita tranquillamente dai privati: Twitter, per esempio, ha tolto la «cittadinanza» a Trump.
David Held sostiene che gli stati siano troppo piccoli per i grandi problemi (migrazioni, filiere produttive, ricerca e formazione, pandemie, cambiamenti climatici e difesa planetaria) e troppo grandi per i problemi piccoli. Ma è chiaro che qualunque sfida ha al tempo stesso una dimensione locale e una dimensione globale, e soprattutto che esse sono indistricabilmente collegate. A questo punto, l’interrogativo verte su quali saranno i poteri capaci di articolarsi in una dimensione spaziale variabile.
Massimo Russo, Chief product officer di Hearst per l’Europa, ci ha illustrato i temi del suo libro Statosauri, pubblicato per l’editore Quinto Quarto:
«Il 2020 è stato l’anno della presa di coscienza: gli Stati nazionali non sono più capaci di governare la complessità. Il popolo è diventato populismo, la sovranità sovranismo e le piattaforme digitali hanno polverizzato il concetto di territorio. L’insufficienza degli ordinamenti e dei corpi intermedi della politica ha evidenziato una disperata fame di governo. Gli Statosauri, preziosi per secoli, sono oggi una tecnologia sociale espressione di una cultura superata e incapace di integrare Big Data, intelligenza artificiale, connessione permanente, e di confrontarsi con soggetti economici privati che valgono in borsa quanto la ricchezza prodotta dai paesi più ricchi del pianeta. La conseguenza di un’incertezza strutturale è quel sentimento di paura che pervade le vite dei singoli, e la paura, spesso, richiama nostalgia: di un mondo forse peggiore ma sicuramente più semplice, in cui ci si poteva affidare a un partito, una fede, un’ideologia, per sentirsi parte di un destino collettivo. Nell’era della Rete il modo privilegiato di fare politica si è ridotto alle scelte di consumo: i cittadini hanno cominciato a votare con il portafogli. Chi può proporsi come guida? Gli Usa, in cui la Silicon Valley detta l’agenda politica? La Cina, con la sua autocrazia tecnologica? A sorpresa, l’Europa è nella condizione migliore per un neoumanesimo nell’era delle piattaforme.».
Statosauri parte dal presupposto che le organizzazioni sociali complesse (anche gli Stati) e gli strumenti che utilizziamo per governarle siano tecnologie vere e proprie. Non solo strumenti fisici come un’incudine o un elaboratore elettronico, ma anche qualsiasi struttura sociale che ci aiuta a raggiungere degli scopi. E gli Stati, ha proseguito Russo, hanno risposto alle necessità che si erano presentate loro di risolvere per diversi secoli. A cavallo di questo secolo si è realizzato il passaggio tecnologico, culturale e sociale, che ha messo in luce il logoramento iniziato nella seconda metà del Novecento. Ed è l’era delle piattaforme.
Primo elemento chiave per adattare queste tecnologie sociali al tempo in cui viviamo è la scala. Di fronte a organismi e piattaforme è necessaria una scala altrettanto grande. Secondo: le organizzazioni sociali dovrebbero mutuare da chi ha saputo sfruttare “i doni del nostro tempo” – e quindi dalle piattaforme – caratteri che hanno permesso loro di crescere. Con ricadute, per esempio, sull’idea di cittadinanza. Le piattaforme hanno mostrato che non è più imprescindibile una comunità basata su profili territoriali, etnici o di appartenenza a una comunità statuale. Dalla discussione è emerso che, se la tendenza della politica è criticare sé stessa sulla base delle concettualizzazioni storicamente date, si pone il problema di criticare gli assetti politici secondo i nuovi assetti della società civile. Domandandosi se reinventare la politica e le istituzioni cercando nelle organizzazioni sociali, nelle piattaforme, i modelli di una nuova statualità non sia effettivamente la strada più realista per modificare positivamente l’organizzazione istituzionale.
Davide Cadeddu, storico delle istituzioni politiche all’università di Milano, ha analizzato il rapporto tra università e democrazia alla luce del Covid-19. Nell’agorà pubblica, attraverso mass media e nelle piazze, sembra trasformarsi la democrazia occidentale. Siamo abituati a chiamarla “degenerazione populista”, collegandola alle opportunità inedite offerte dai social media e dalla comunicazione istantanea. D’altra parte, da Platone a oggi, il regime democratico è sempre stato descritto come costitutivamente in crisi, oscillando tra forma retta e forma corrotta, tra democrazia e oclocrazia. Le varie forme di innovazione stanno quindi amplificando un problema noto, generando una sorta di presentismo: un appiattimento anche esistenziale sul presente che sembra essere privo sia di lucida memoria storica sia di prospettiva politica utopica. Il dibattito su vaccino e green pass ha reso ancor più evidente che chiunque ha una opinione compete al pari con quella di (almeno potenziali) esperti, i quali certo aiutano la relativizzazione non trovandosi d’accordo neppure tra di loro. Assistiamo così a una certa esaltazione del principio individualista, che il liberale guarda con piacere fino al momento in cui scopre che non sembra produrre sintesi costruttiva.
Nelle università si assiste a un processo simile. In Italia si partiva da due problemi: pochi laureati e, soprattutto in ambito umanistico, scollamento tra università e mondo del lavoro. La risposta ha comportato una prospettiva inclusiva contraddittoria: da un lato, politiche animate dal principio del diritto allo studio; dall’altro l’idea di premiare il merito attraverso l’introduzione del numero chiuso. Sembra che in nome del processo di democratizzazione sia andata perduta l’importanza del principio ordinativo e di una dimensione verticale che integri quella orizzontale; un’idea di gerarchia sociale aperta.
La discussione ha sottolineato che le università, storicamente, nascono attorno alla funzione della didattica. Se osserviamo questa missione, ci troviamo di fronte alla fenomenologia descritta. D’altra parte, se l’università oggi manifesta quegli aspetti di crisi nella prima missione, manifesta una vitalità senza precedenti nelle altre due: il baricentro dell’università, come emerge chiaramente anche dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, sono diventati la ricerca e lo stimolo all’innovazione sociale. Non ci deve sorprendere che l’università destinataria di investimenti sia quella essenzialmente della seconda e della terza missione. Si è poi rilevato che la dinamica del sapere oggi è imperniata sull’esperienza incarnata nell’innovazione: l’apprendimento non è sviluppato soltanto in termini di docenza, bensì di esperienza. Ciò che cambia il mondo non è il cambiamento del “discorso del saggio”, ma il rivolgimento storico in cui siamo immersi. Siamo tutti codice sorgente: produttori di (big) dati che possono essere profilati e che indubitabilmente sono “sapere”. È un altro fatto storicamente inedito: sembra logico che la società sia spaventata dalla quantità di sapere che produce, oltre che dalla quantità di sapere che dovrebbe gestire.
Riccardo Fedriga, docente presso il dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna, ha aperto il settimo salottone, sulla scorta di queste sue precedenti considerazioni:
«abbandonare una posizione assertiva e, in alleanza con le scienze dei dati, muovere alla consapevolezza del passaggio dall’uomo statico all’uomo probabile: colui che congettura sulle novità in relazione al loro possibile movimento».
Concetti che rievocano alcune idee circolate anche nel Salottone. La prima è relativa ai modi di trasmissione del sapere così come si sono consolidati nel corso del tempo; la seconda è l’idea che si debba abbandonare una posizione assertiva per una dubitante ma non immobile; la terza è che per farlo converrebbe allearsi con la scienza dei dati, e ciò significa farci travolgere da modalità interpretative nuove; non ultima è l’idea che si debba passare dall’uomo statico all’uomo probabile.
L’uomo probabile è una citazione ripresa da Musil, da L’uomo senza qualità, per dire che l’oggetto non è qualcosa di statico, è il cambiamento stesso. Secondo Musil non possiamo più essere legati solamente a un soggetto che si muove verso un oggetto: è la pluralità degli oggetti, che si muovono a una velocità incredibile, a determinare la continua ri-situazione dei modelli da agire per avvicinarci al cambiamento.
C’è stata una rivoluzione enorme tra un modello o una serie di modelli di rappresentazione del sapere ai quali eravamo abituati, e le euristiche, cioè i modi concettuali sotto i quali riuscivamo a dominare tali modelli di rappresentazione del sapere.
Le categorie di spazio di tempo di velocità si sono talmente contratte che se ne può fare uso, ma non si riesce a riflettercisi sopra. È il problema posto dalle tecnologie digitali, cioè dal legame tra esse e la costruzione di modelli di rappresentazione del sapere, di modelli di diffusione della conoscenza, di modelli pedagogici; la relazione con la tradizione.
È un problema di proporzione: è una relazione tra commensurabile e incommensurabile. Il compito di una riflessione critica è rendere conto innanzitutto degli effetti fisici della digitalizzazione profonda e in particolare proprio dell’estrema velocizzazione nella circolazione delle informazioni.
Possiamo, come una sorta di distant reading, ingrandire il fuoco e vedere gli eventi come avvengono; trasmettere il fatto che tra un primo livello – gli eventi – e la riflessione su di essi, debba passare un ingrandimento della realtà. Secondo Fedriga, è di queste lenti che bisogna dotare il mestiere di docente. Il problema è, ha concluso, se siamo già stati formati in questo modo o se dobbiamo cercare di formare professori di un’università tale per cui si riesca ad avere la giusta distanza rispetto alle cose da dominare, senza dover entrare direttamente in grandi masse di dati o grandi masse di informazioni.
Ai Salottoni 2021 hanno partecipato:
Giampaolo Azzoni, Piero Bassetti, Paolo Bertaccini, Giovanni Bocco, Davide Cadeddu, Salvatore Carrubba, Stefano Clima, Alessandro Colombo, Tommaso Correale Santacroce, Riccardo Fedriga, Paride Fusaro, Elisa Mariani, Maria Grazia Mattei, Giovanni Lanzone, Alessandra Lavagnino, Paolo Perulli, Rossella Pulsoni, Fabio Rugge, Giacomo Rugge, Massimo Russo, Francesco Samorè, Alberto Schena, Lanfranco Senn, Alessandro Venturi, Paolo Zanenga.
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