Oltre lo specchio di Alice, governare l’innovazione: il caso del movimento per la italica community
Università della Tuscia, Viterbo, 23 settembre 2021, in occasione della Notte europea del ricercatore.
Sono particolarmente grato al Magnifico Rettore, prof. Stefano Ubertini, per l’onore di questa tribuna.
E lo sono per due ben precisi motivi.
Primo, perché consentendomi di parlare del Movimento per la Italica Community e di farlo qui nella Tuscia, mi permette di realizzare un obiettivo che possa un giorno rivelarsi storico: aver proposto all’attenzione di un qualificato mondo universitario un movimento italico che per tema e natura ben può collegarsi a quella Lega Italica che intorno al 90 a.c., Etruschi, Umbri, Marsi, Sanniti, Peligni, Apuli, Frentani, Lucani, etc, seppero fondare coniando una propria moneta dove per la prima volta compare il termine Italia, ma soprattutto operando una operazione politica nella quale Roma, con un capolavoro di vera cultura politica, decise di concedere a tutte le popolazioni italiche il diritto di cittadinanza romana sulla base non dello jus soli, ma dello mos maiorum, esempio pre claro di come si può vincere andando “oltre”.
Secondo, per avermi invitato a farlo nella cornice della “Festival della Scienza e della Ricerca”, cioè di un appuntamento nato “per far conoscere risultato e metodi della scienza”.
I. Oltre: rompere lo specchio, guardare il futuro
Perché è proprio avvalendomi di questo duplice riferimento che io intendo affrontare con voi il tema “Oltre lo specchio di Alice, governare l’innovazione: il caso del movimento per la Italica Community” nella sua obiettiva difficoltà.
Una difficoltà che si presenta fin dall’inizio. Perchè dico “Oltre” lo specchio di Alice?
Perché la poetica della fiaba di Lewis Carroll consiste nell’immaginare e vivere diversamente la realtà che si proiettava nel suo specchio; noi alludiamo invece alla possibilità di trascenderla, scrivendo un altro futuro: quello appunto oltre lo specchio. Uno specchio che infatti riflette sempre ciò che vede, il nostro mondo, chi siamo oggi: che, come tale, non può vedere il futuro.
Se ci pensate, quando (ieri) la senatrice Elena Cattaneo ha affermato che «il metodo della scienza fa comprendere come stanno le cose al meglio delle evidenze disponibili» ha descritto uno specchio, quello della scienza.
Ebbene, vorrei affermare che la politica, nel mezzo della svolta d’epoca, deve rompere consapevolmente lo specchio del mondo che tramonta con tutte le sue dinamiche innovative perché l’innovazione non si governa senza un’idea di Oltre e di rischio.
II. L’innovazione è politica, ma le redini non reggono più
L’innovazione è politica, perché essendo una forza imprime un senso ai nostri destini. Forse gestire l’innovazione è il nostro destino evolutivo: in questo senso mi sembra esprimersi Harari in Homo Deus.
Il secolo breve, segnato dal fungo atomico, ha svelato il volto terribile del sapere separato dall’esercizio responsabile del potere. Considerazioni che mi spinsero, nel 1959, a scrivere Le redini del potere.
Il nostro vissuto si modella sulla tecnica, dunque la politica deve regolare il rapporto con i suoi sottosistemi: finanza, grande impresa tecnologica, comunicazione di massa, con tutte le innovazioni che le traversano e ci traversano. Blocchi di potere che oggi può al massimo tenere in sintonia, ma non governare.
Così, mentre l’economia tecnologica ha portato la vera politica fuori dalle cornici tradizionali, si direbbe che purtroppo le nostre istituzioni vadano spesso disperatamente cercando quello che succedeva prima.
Mentre non può esservi il dubbio che dopo il trionfo dell’algoritmo, dopo la rivoluzione delle scienze della vita e della fisica quantistica, insomma Oltre lo specchio, la vecchia strumentazione di gestione del potere non tiene più.
III. «Dove ci porta» o «dove vogliamo andare»? Innovazione in cerca di senso.
Siamo abituati a dire: ciò che non funziona non vale. Eppure ciò che «potentemente» troviamo continua ad alimentare il nichilismo. Pur avendo attribuito all’innovazione una funzione quasi salvifica, ci sentiamo ancor più orfani di valori. Proprio quei valori di virtus, come coraggio, virtù, eroismo; di pietas, come rispetto, devozione; di fides, come lealtà, fedeltà, che sostanziano il Mos maiorum.
In fondo, il problema che i greci avevano risolto condannando Prometeo a quella triste fine, l’innovazione ce lo pone più che mai oggi: quando è la mistica dell’innovazione che irrompe come fosse il nostro destino e il nostro dramma: qualcosa che continuamente ci accade e ci costringe ad un atteggiamento di accettazione o invece di paura per il «dove ci porterà?».
Certo, tra innovazione e Oltre c’è la scelta consapevole del nostro atteggiamento verso il futuro. Ma è una scelta che andrebbe invece presa con consapevolezza se solo sapessimo «dove intendiamo andare».
In un certo senso, Oltre significa sì fare i conti con la potenza (il sapere funzionale o disciplinare), ma anche con il senso delle nostre vite. È questa la nuova frontiera del potere, specie quello politico che non può proporsi di ridurre solo il rischio e l’incertezza ma deve ottimizzarne i valori.
IV. Orfani dello Stato nazione
Eravamo abituati a considerare il potere legato al controllo del territorio. Basta pensare alla Prima guerra mondiale e ai 500mila nostri morti per spostare di qualche chilometro qualche nostra frontiera.
Un secolo dopo, l’idea di indipendenza nazionale legata al territorio e alla sua sovranità, sta regredendo in due direzioni ben diverse: nel trascendimento dello spazio locale sempre più legato a dimensioni più ampie e nell’incombere del riordino glocale, l’emergere cioè della nuova dimensione spazio, tempo, mobilità, il cui vero nome è “il glocale”.
Perché infatti lo Stato-Nazione è irreversibilmente superato? Perché l’innovazione più dirompente nella quale siamo immersi è un fatto storico irreversibile: la glocalizzazione.
Credo infatti che la tensione cui anzitutto lo Stato è sottoposto si debba soprattutto al fatto che una categoria innovativa, quella del glocale, è irrotta nella nostra organizzazione politica annichilendo l’intero complesso delle istituzioni fondate sulle vecchie dimensioni territoriali che stanno sempre più perdendo efficacia.
V. Cambiati dal glocalismo
La glocalizzazione ha infatti messo in tensione la tradizionale coincidenza tra territorio, popolo, mercato e ordinamento, che caratterizzava lo stato-nazione nel chiuso della sua frontiera.
Si tratta non di un fatto politico ma di qualcosa ontologicamente diverso tanto dalla globalizzazione quanto dal concetto di locale: un fatto politico che non può essere rubricato alle categorie dei luoghi, né a quelle della mobilità. Pensate al virus: non è fermo e non è in moto: è glocale. E proprio per questo riesce a fare tanti guai.
La glocalizzazione contiene infatti non una serie di punti separati ma tutto l’insieme dei punti locali, ossia dei loci, possibili. Su ognuno di questi punti passa intero il suo impatto, così come è vero il suo inverso.
La scelta del tema di oggi è quindi dettata da una oggettiva concatenazione di difficoltà nelle quali ci troviamo, le cui ragioni valicano i confini dell’università per interrogare le nostre culture e le conseguenti prassi.
Non credo infatti possibile, né giusto, separare ciò che le forze storiche della società esprimono dal basso e ciò che comporta la consapevolezza di vivere fino in fondo nel pianeta, partecipi di fenomeni globali.
Ci accingiamo a rientrare nell’Europa – la Next generation EU – e rischiamo di farlo da subalterni, se non ci svegliamo dal letargo del nostro pensiero.
Sembriamo ignorare che il vero dramma delle nostre democrazie sta nel fatto che esse sono prive di una espressione glocale, esprimendosi infatti solo a scala territoriale e con esiti anche paradossali – quando si arriva per esempio alle materie concorrenti tra Stato e Regioni.
È quanto noi di Globus et Locus abbiamo recentemente constatato studiando per conto della Comunità europea, l’impatto di un treno veloce, il Frecciarossa, nella realtà territoriale, economica, sociale, urbana, nazionale e internazionale di quel pezzo di Europa che sta tra Bologna e Milano.
È lì che abbiamo tutti constatato come gli snodi economici, i nuovi interessi delle popolazioni che quotidianamente riorganizzano la propria vita sulle traiettorie di una nuova offerta di mobilità non abbiano oggi gli interlocutori in grado di fornire risposte consapevoli e attente.
Persone e spazi in movimento che non hanno divisioni corazzate, non hanno rappresentanze democratiche: in un mondo ormai dominato dalla mobilità la loro democrazia sembra ancora strumentata solo a partire da dimensioni spaziali ferme.
Cambiando la natura dell’oggetto da ordinare (il territorio) e il tempo necessario per farlo (la storia), cambia l’oggetto stesso della politica: le scelte.
Tutte! O quasi tutte.
La glocalizzazione contiene dunque il germe di un altro, ben più largo orizzonte: ci spinge a pensare popoli che trascendono le tradizionali appartenenze, prima fra tutte quella nazionale. È qui che abbiamo incontrato il risveglio degli italici!
È da qui che si è mosso e si muove il Movimento per l’Italica Community.
VI. L’ Italica Community nello spazio delle civilizzazioni
Quando rifletto su questo ricorro alla formula coniata da Benedict Anderson in un libro scritto nel 1983 che si intitola appunto Comunità immaginate. Penso che le «comunità immaginate», animate da popoli caratterizzati da comunanze di valori, possano coesistere nel grande spazio storico delle civilizzazioni.
Lo stato-nazione si è purtroppo perso per strada la nazione e il popolo!
Nel 2015, quando ho scritto Svegliamoci Italici!, il movente era la «presenza di un fatto, di una realtà ben determinata», ovvero la presenza nel mondo di una comunità italica in potenza, che condivide valori e trascende passaporti e confini.
Quel fatto ne faceva intravedere un altro, il dialogo tra civilizzazioni per superare le vetuste barriere degli Stati-nazione.
Al tempo della pace di Vestfalia si è potuto dire: Cuius regio, eius religio. Solo che l’idea che un pezzo di terra definita da un confine tracciato sul territorio potesse contenere, separandoli e mettendoli fatalmente gli uni contro gli altri, i soggetti della storia, ha risolto male il problema per secoli; gli ultimi, pieni di guerre.
Oggi finalmente avanza la consapevolezza che il destino del pianeta ci accomuna, non accetta vincoli nazionali e logiche di frontiera. Il balzo inatteso di questi mesi sembra averci fatto riguadagnare almeno una dimensione europea, la cui storia è pure lastricata di colonialismi e guerre, ma la cui secolare esperienza politica rappresenta sempre una vicenda storica unica e inconfondibile (Kabul docet)
VII. Dunque, l’Europa
Ma siamo sicuri che quello che stiamo facendo per costruire l’Europa non sia meramente la somma di ventisette popoli nazionali? Siamo sicuri che stiamo cercando di ricostruire il destino del popolo di Erasmo e Spinoza?
Le Università, non solo le nostre, saranno in proposito chiamate ad avere un ruolo decisivo nella ricerca di un nuovo umanesimo europeo che consenta di individuare la cassetta degli attrezzi valoriali per orientarci in quella che gli americani definiscono the new normal.
Ricordandoci che la prima scienza che ci consente di descrivere e conoscere la realtà che ci circonda è la Geografia, dal greco γῆ «terra» e -γραϕία «descrizione». Perché se è vero che il globo cambia, anche la geografia che lo studia, soprattutto quella politica, deve cambiare e aggiornarsi. Non possiamo più considerare la terra esclusivamente come una mappa su cui tracciare confini, occupare e percorrere spazi, nel più breve tempo possibile. Su scala globale le comunità non si aggregano più seguendo esclusivamente i perimetri della geografia fisica, ma secondo funzioni e interessi transnazionali e trans-territoriali. Slegate sovente da ogni dimensione di prossimità, ma riorganizzate invece secondo passioni e interessi che travalicano i tradizionali confini dello Stato-Nazione.
Certo sappiamo benissimo che le nostre istituzioni sono state costruite per l’era della terra e dei confini. Ma sappiamo anche che il rapporto tra sapere e potere, come quello tra globale e locale, in un’epoca profondamente innovata si è separato dalla prassi delle istituzioni consolidate.
E che in questo contesto l’istituzione di un Osservatorio interuniversitario sulla nuova geografia politica può rappresentare un luogo super partes di riflessione e confronto per l’individuazione degli strumenti indispensabili per orientarsi e governare il mondo nuovo che viviamo e che avrà sempre più bisogno di Europa.
Come infatti ha osservato Hans Köchler (Co-existence of civilizations in the global era, Glocalism Journal, 2020), una delle maggiori sfide del nostro tempo sarà la necessità per le comunità globali di concordare un insieme di meta-valori sulla base della reciprocità ai fini di una nuova governance globale.
Meta valori da cercarsi, più che sull’atlante, in un comune sistema di esperienze che chiamiamo «civilizzazioni»: concetto al quale abbiamo lavorato molto anche in Globus et Locus e nel Journal «Glocalism» e con l’associazione Svegliamoci Italici.
Qual è infatti la sfida europea, se non quella che assegna alla comunità di valori che già oggi è l’Europa un ruolo storico di soggetto politico? Quella cioè che ci assegna la costruzione di un nuovo soggetto storico, di un popolo nuovo capace di collocarsi nel mondo glocale partendo da postulati politici nuovi?
Mentre l’Europa vara il recovery fund e Next generation EU, dando il segno concreto di volersi ripensare come soggetto storico, questi concetti devono aiutarci a riflettere meglio.
L’idea di chinarci su questo storico accadimento per dar vita alla Comunità degli italici nasce proprio da qui. Ed è qui che anche le Università sono già oggi chiamate.
Siamo un’entità (Community) che abbraccia 250 milioni di persone, le quali partecipano alla coesistenza delle civilizzazioni nell’era del glocalismo.
Una comunità che si vuole riconoscere e affermare come quella degli italici di tutto il mondo che non nega l’appartenenza comune a identità precedenti come quella nazionale, ma postula una statualità diversa, pronta al collegamento tra civilizzazioni, con l’obiettivo di una convivenza globale più desiderabile, più in pace. Non “parte” e tanto meno “partito”, ma movimento cioè confluenza a un “quid” che oggi storicamente non può essere che l’Europa.
Una Europa però tutta da costruire trascendendo quella delle 27 bandiere nazionali.
Ma realizzando invece quello che già oggi ci emoziona quando sentiamo le note romantiche della Nona di Beethoven.
Perché è questo il senso del movimento per la italica community! Andare Oltre lo specchio per governare insieme l’innovazione italica.
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