Presentazione del libro di Simone Pieranni in dialogo con Juan Carlos De Martin. Ha moderato Angela Simone.
Simone Pieranni, giornalista, ha vissuto in Cina dal 2006 al 2014, ha fondato a Pechino l’agenzia stampa China Files, è autore del podcast Risciò sulla Cina contemporanea, insieme a Giada Messetti (della quale consigliamo, sul tema, Nella testa del dragone, edito da Mondadori).
Fondazione Bassetti ha scelto di presentare Red Mirror (Laterza 2020) favorendo il dialogo tra l’autore e Juan Carlos De Martin, ordinario di ingegneria informatica e vice rettore del Politecnico di Torino, co-direttore del Centro Nexa su Internet e Società, associato al Berkman Klein Center for Internet & Society della Harvard University e (dal 2014 al 2018) membro della commissione di studio della Presidenza della Camera dei Deputati che ha redatto la Dichiarazione dei diritti in Internet.
Il nostro futuro si scrive in Cina, dunque? Gli ospiti ne hanno parlato introdotti e moderati da Angela Simone. Sullo sfondo, l’indice del libro di Pieranni, la cui struttura è molto chiara e spazia dalla svolta – “da fabbrica del mondo a hub tecnologico” – al progetto di città futuribili, iperconnesse e ipercontrollate; dalla “cultura del lupo” (la sinizzazione dell’industria digitale mondiale) alla “vita a punti” (il sistema dei crediti sociali) fino alla prima emergenza sanitaria globale nell’era dell’intelligenza artificiale cinese.
(continua sotto il video dell’incontro – In questa pagina: video, podcast, resoconto e immagini dell’incontro.)
Resoconto (prosegue dall’inizio della pagina)
Come The Economist scrisse per tempo, “Facebook è il nuovo WeChat”. Quest’ultima è onnipresente, sostituisce la mail, le business card, si è agganciata ai conti correnti consentendo i pagamenti online e offline: è l’emblema della digitalizzazione della Cina, che fino al 2011 era il regno della burocrazia, della carta, della modulistica, delle file agli sportelli. Ora quella cinese è una società cashless dove ovunque si paga con smartphone. Il punto, naturalmente, è che così il tracciamento dei dati è onnicomprensivo. Nessuna impresa digitale, per quanto colossale, può rifiutarsi di girarli al governo. Pagare le tasse e sposarsi su WeChat, essere monitorati con il “codice salute” (che permette di muoversi in relazione al Covid) di WeChat… essere dei paria senza WeChat.
Cosa significa tutto questo per il potere? Il concetto cinese di sovranità, sostiene Pieranni, è che la rete coincide con il territorio. Le imprese tecnologiche non sarebbero tali senza il controllo esercitato sulla tecnologia dal Partito comunista. Dopo il 1989, dopo la morte di Mao, gli investimenti nella “innovazione con caratteristiche cinesi” sono stati un filone fondamentale delle politiche nazionali: ricerca pura, fisica, matematica. Intellettuali e scienziati hanno guadagnato un ruolo sociale. Sul mercato interno, gli investimenti tecnologici sono aumentati durante la crisi occidentale del 2008/2011: la fabbrica del mondo rimaneva tale, ma non si trattava più di prodotti a bassissimo costo. Le Silicon Valley cinesi esperiscono dunque una presenza rilevante dello stato, con il suo portato di sorveglianza (una telecamera ogni tre abitanti, il sistema dei crediti sociali che valuta l’affidabilità dei singoli cittadini tramite algoritmi capillari, i modelli predittivi in uso alla polizia) e di dirigismo.
Tornando alle piattaforme digitali, Facebook e Twitter sono competitor non pervenuti, nel senso che sono tenuti fuori dai confini. Eppure, Tencent e Alibaba hanno moltissime partecipazioni in aziende di altro tipo, a cominciare da quelle che si occupano di media e di informazione. Il governo, non a caso, ha recentemente chiesto loro di smembrarsi, cosa non dissimile da ciò che viene chiesto dai governi occidentali alle loro omologhe GAFA. Pieranni suggerisce che, osservando le tendenze in corso nei paesi occidentali, il capitalismo di sorveglianza sia tutt’altro che un orizzonte remoto. Spostiamo le nostre paure sulla Cina, con scenari distopici, mentre importiamo l’alta tecnologia cinese. Ma il sistema a partito unico e socialismo di mercato è un fronte che resta diverso e distante.
Juan Carlos De Martin si concentra su una domanda di fondo: l’ascesa della Cina negli scenari geopolitici mondiali non è forse sopravvalutata? Negli ultimi quarant’anni, l’uscita di centinaia di milioni di persone dalla povertà ha rappresentato un cambiamento enorme, forse storicamente inedito. Ma l’attuale Pil pro-capite cinese è paragonabile a quello di Messico o Turchia. L’unica multinazionale comparabile a quelle americane e Huawei. Nel digitale, sui semiconduttori la Cina sta investendo molto per colmare un divario che però permane, ed è ostacolato sistematicamente, da occidente, nelle battaglie sui dazi. Interloquendo, Pieranni conferma e aggiunge che gli investimenti in semiconduttori impostati già negli anni Sessanta furono annullati dalla rivoluzione culturale. Oggi la Cina acquista i componenti da Taiwan, ma qui entra in gioco proprio la tensione geopolitica. Nell’ultimo piano quinquennale, uno degli obiettivi è la produzione autoctona, ma pochissime imprese dispongono del saper fare necessario.
Col 23% della forza lavoro – riprende De Martin – la Cina cattura il 16% del reddito mondiale. Gli Usa, col 5% dei lavoratori catturano il 24% del reddito mondiale. In fondo, c’è anche una grande estrazione di ricchezza da parte dell’Occidente, e il giacimento è stata per decenni la forza lavoro cinese.
Tra i problemi cinesi, si discute del rapporto centro-periferia (eclatante nel caso dell’esplosione del Covid) e delle proteste sociali che nel gergo politico sono rubricate “incidenti di massa”, molte delle quali legate ai luoghi e alle condizioni di lavoro. Ma, rispetto alla frontiera digitale del Red Mirror, il punto su cui l’autore si sofferma, stimolato da una domanda di Angela Simone, è un altro: rispondere con il “technological fix” a problemi complessi come la sostenibilità ambientale o il controllo sociale è un’illusione cinese che, leggendo il libro, appare disvelata: le smart cities sono dispositivi di diseguaglianza anche in ragione della precipitazione dall’alto della tecnologia (il trasporto pubblico a guida autonoma a livello 5 e il riconoscimento facciale, per esempio) senza possibilità di dialettica. L’autore vi dedica un intero capitolo, “Le città del futuro”. Certo, alla società civile vengono lasciati piccoli margini per manifestare preoccupazioni, come per la legge sulla privacy, ma si tratta appunto di mere concessioni.
Pensando all’Europa, il GDPR è quindi un’opportunità da cui partire per rivendicare il controllo sui nostri dati. La direttiva sulla tutela dei dati personali e la proposta europea sull’intelligenza artificiale sono anche un portato della storia. E rappresentano uno strumento negoziale, per quanto minimo, verso gli Stati Uniti. Perché la subalternità digitale del nostro continente, conclude De Martin, è veramente marcata. Considerazioni da soppesare con ancor più attenzione dopo la lettura dell’ultimo capitolo di Red Mirror, dedicato alla gestione cinese del rapporto tra tecnologia e pandemia. Riprendendo quanto ha scritto l’agenzia Reuters, Pieranni afferma che il coronavirus ha fatto emergere dall’ombra il sistema di sorveglianza cinese; anzi, la pandemia ha consentito un utilizzo ad hoc di strumenti che la popolazione è abituata a usare o subire ogni giorno: incrocio dei dati sulle targhe e sul riconoscimento facciale (che “supera” le mascherine) per individuare chi sfugge alla quarantena, utilizzo dei droni per invitare le persone a indossare la mascherina, sostituzione delle persone con robot addetti alla pulizia, alla consegna pasti e alla disinfezione negli ospedali, adozione massiva degli assistenti vocali per svolgere campagne telefoniche massive con istruzioni sulla gestione del virus; ricerca e sviluppo di farmaci facilitata dalla costruzione di piattaforme alimentate dai big data e interpretate dall’intelligenza artificiale: “al di là della situazione di emergenza – scrive l’autore nell’ultima pagina del libro – tutto questo in Cina è già realtà”.
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