Piero Bassetti è stato al centro del webinar “Resistenza & Resilienza, Talk tra pensieri e visioni scomode per affrontare il presente e per (ri) conquistare con fiducia il futuro“ organizzato da Vento & Associati il 24 marzo 2020. Riportiamo i suoi interventi principali.
RESISTENZA & RESILIENZA
Il virus esemplifica il glocalismo: la mobilità e la moltitudine (di virus, appunto). Ha messo in evidenza un cambiamento che la storia ha già fatto: la tecnologia, rendendo lo spazio infinito e il tempo zero (quindi il rapporto tra spazio e tempo è infinito) ha fatto saltare le frontiere schematiche della geografia e della geografia politica. Il virus ci ha svegliati al fatto che il mondo non è più internazionale: è glocal. Quindi l’infinitamente piccolo ha un rapporto diretto con l’infinitamente grande, e sfida il mondo. Allo stesso modo la sanità è un fatto globale.
[ Domanda dei partecipanti al Webinar: Bauman è il teorico della società liquida. Non è troppo rigido il confronto tra lo stato nazionale hegeliano e la società liquida? Bassetti, non trovi stucchevole il confronto tra ordinanze regionali e decreti della Presidenza del Consiglio? ]
Il «Journal of Glocalism è il luogo in cui svolgiamo il dibattito, con Appadurai, Bauman, Sen e altri: recentemente insieme a Davide Cadeddu abbiamo pubblicato il Best of della rivista, edito da Giappichelli. La nostra società oggi è liquida perché non ha più quei confini che la rendevano solida. Mentre le sfide nel mondo glocale avvengono con un approccio privo di ordinamenti schematici, noi continuiamo a credere di utilizzare il potere in partizioni che hanno perso qualunque validità dimensionale. Oggi abbiamo visto che nemmeno Cina e Stati Uniti riescono a erigere frontiere alla pandemia. Persino il concetto di guerra non è più pensabile nel riferimento ai territori e alle frontiere cui abbiamo pensato per tremila anni. Non c’è dubbio, quindi, che il sistema delle istituzioni, istituito, è vecchio.
Invece il mondo glocal è dominato dalla mobilità. Parliamo con Sidney in pochi istanti, mentre Trump può dichiarare guerra all’Iran con un tweet dopo quattro secondi di riflessione. Se il potere emana da strutture che hanno perso qualunque capacità di controllare i veri fenomeni – pensiamo alla ecologia, alla salute, alla mobilità (anche quella dei popoli: i tentativi sovranisti sono destinati a fallire per questo) -, se questo è il conflitto, è come quando la linea Maginot non era in grado di opporsi all’attacco dei carri di Hitler.
È chiaro che la lotta al coronavirus, dunque, non è lombarda, italiana o europea: diventa glocale. Il Covid-19 è entrato a Vo’, paesino sconosciuto del Veneto che è diventato punto di riferimento generale.
La caduta delle paratie che sono state efficaci fino all’epoca della bomba atomica oggi ci sveglia al nuovo, se non lo capiamo saremo sconfitti da una logica moderna: perché il virus è più moderno del nostro sistema sanitario. Da dove poi tale sistema sanitario debba essere diretto, dovremo deciderlo secondo una logica funzionale. A me risuona il classico, «Stai fermo che ti accoppo!» Smettiamo di masticare un osso non commestibile. Se insegui un venditore di mascherine ovunque nel mondo, stai comunque trattando il problema in una logica più adatta alla scala necessaria. Con le decisioni prese nei giorni scorsi è già stata immaginata la Banca europea, senza apparentemente rendersene conto.
[ Domanda dai partecipanti al webinar, ancora sul problema della gestione sanitaria ]
Bisogna rinunciare a ogni supponenza. Ciò detto, si vede una cosa: avendo dimenticato la natura della sanità, cioè l’organizzazione della salute nel territorio, l’autonomia regionale si è rivelata debole nel controllo della mobilità, appunto sul territorio. Organizzare la difesa attraverso l’ospedale ha mostrato il problema. Semmai, la domanda è in quale rapporto si sono poste le istituzioni verso le competenze e verso le funzioni (il Frecciarossa fa più politica del piano regolatore). Bisogna avere il coraggio di adeguare le riflessioni alla natura nuova dei problemi, si vedrà anche col mondo del business.
[ Domanda sul senso di spazi e luoghi modificati dal periodo di isolamento: il concetto di confine. ]
Quale sarà l’architettura degli edifici per lavorare in remoto? E poi: qual è l’urbanistica del lavoro in remoto? Anche sollecitati da nuove consapevolezze, dobbiamo trovare le forme di organizzazione del potere di dimensioni adeguate all’attacco. Questo è il tema della politica. Con Globus et Locus, per esempio stiamo analizzando seriamente il cambiamento dell’urbanistica tra Milano e Bologna generato dall’alta velocità. Pensiamo anche alla privacy, tema sul quale dovremo confrontarci su piani completamente nuovi.
[ Domanda sulle conseguenze economiche della crisi ]
Confrontiamo interrogativi, sapendo che nessuno ha in tasca risposte semplici. Se la salute ci impone di non lavorare, dovremmo adattarci a non mangiare? L’economia serve all’offerta di ciò che la gente consuma. Nell’organizzazione capitalistica, occorre avere la disponibilità monetaria o di scambio per recepire la disponibilità dell’offerta. Ovviamente se pensiamo di fermare il lavoro continuando a disporre di ciò che esso produce, andremo nel fosso. La finanza è l’unica che può «fabbricare liquidità». La sfida che il passato ha evocato con la guerra e le drammatiche inflazioni conseguenti ci ricorda cosa accade in questa temperie. I sindacati hanno chiesto di fermarsi: ma cosa potremo dirci quando i prezzi saliranno oltre la capienza dei sussidi? Come gestiamo il rapporto tra produzione e consumo, a livello mondiale, nei prossimi semestri? Per poco tempo la finanza può fare il ponte, ma solo se la produzione ricomincia rapidamente. Per tale ragione un’eventuale seconda ondata di coronavirus sarebbe ancor più grave. Se discuti con un finanziere, lo capisce per la sua parte; il sindacalista lo capisce per la sua. Ma la persona d’istituzioni, oggi, ha le competenze per fare sintesi? La conciliazione della competenza col consenso è costitutiva della democrazia (non la sola rappresentanza). Tutti saremo sfidati a non dire la prima scemenza che ci viene in testa, di fronte al problema.
[ Domanda sul concetto di italicità, in relazione alle tesi esposte da Bassetti nel libro Svegliamoci Italici! C’è un tratto italico nel modo di reagire al virus? ]
Si guardi al modo in cui gli italiani rispondono, cantando, alle restrizioni; gli americani comprano armi e i tedeschi si arrabbiano. Cercare gli elementi che accomunano, di fronte al dramma, aiuta molto. I bavaresi che cantano Bella ciao, dove si fa riferimento all’oppressore… L’unione delle grandi civilizzazioni forse organizzerà meglio il mondo, rispetto ai duecentoventi stati nazionali. Trump definisce il virus «cinese» ma i due soggetti cardine di questa fase non sono nazioni, sono civilizzazioni. La parcella del medico, quando andai in Cina negli anni settanta, la pagava la comunità (senza mediazione del fisco) conformemente all’idea che la salute sia una dimensione pubblica. Spiegare a un cinese le ragioni per le quali deve stare in casa è più facile. Gli italiani, tra la salute e la grana hanno una netta preferenza per la salute. Dovremo mobilitare, al di là delle solidarietà nazionali, queste nuove comunità glocali di cui gli italici sono un esempio.
Ho seguito con curiosità la sfida del premier inglese, che l’ha presa come una competizione sportiva. È il tema delle competenze: lui pensava che l’immunità di gregge si sarebbe raggiunta con molte meno conseguenze. A noi interessa organizzare gli italici. Non solo per il vantaggio di sentirsi tali, ma per l’idea che un mondo affidato alle comunità nazionali non funziona più. Dobbiamo al massimo tollerare una dialettica tra le grandi civilizzazioni. Tra un mondo in cui la gente continua a litigare sull’Europa e uno in cui ci accorgiamo che anche l’Europa ha emesso finalmente un vagito, passa l’atto di rovesciare il tavolo per affrontare i problemi di oggi. Pensiamo alla scuola, senza cattedra e banchi, per esempio in una città come Milano: quanti sono gli edifici scolastici costruiti sull’idea della classe tradizionale? E poi il linguaggio: «guerra al coronavirus». Ma che cavolo di guerra! È un linguaggio di ieri. Chi farà più una guerra con i soldati in trincea, se una fiala di virus è capace di sfondare il fronte?
[ Domanda sulla pandemia come prova generale della complessità prossima ventura. Due approcci di governance globale (approccio Usa e approccio asiatico) ]
Partirei dal dato fattuale: gli Usa stanno perdendo l’egemonia mondiale perché l’avevano costruita sulla superiorità militare. Ma considerato che una portaerei può valere meno di una provetta contenente un nuovo virus, bisognerà vedere se, superato Trump, gli americani avranno l’intelligenza di capire che si stanno giocando il primato; se insistono nel costruirlo su basi che nel frattempo sono invecchiate.
I cinesi, indubbiamente, questo lo sanno bene. A proposito delle infrastrutture, si sono avvicinati con la Via della seta e il 5G. E gli americani hanno fatto la guerra commerciale sul tema della Via della seta, mentre noi italiani siamo gli unici che hanno aderito con un memorandum alla presenza cinese nel Mediterraneo, visto che stiamo decidendo attraverso quale porto entreranno in Italia (il porto di Vado lo hanno costruito loro). Però dobbiamo stare attenti che se continuiamo ad assecondare modi vecchi di affermare l’egemonia, noi la perdiamo. Questa è la sfida. E cominciamo a perderla sul controllo della salute. Come si misura una civiltà? Sulla sua capacità di assicurare la salute a chi ne fa parte. Poi i beni di consumo, ma questi vengono dopo, in un certo senso. Il tema è quello del passaggio del potere dal possesso dell’arma per guerreggiare al possesso dello strumento di servizio che costruisce l’egemonia; non la potenza. Questa è la vera sfida alla teoria politica. Perché noi abbiamo costruito – Hobbes docet – la nostra idea politica sulla considerazione che il primo problema dell’istituzione sia la difesa militare. Il giorno che dovessimo costatare che è l’ultima delle cose sensate, è chiaro che la nostra costituzione andrebbe rifatta dalla base.
È chiaro che il mondo non cambierà così, di colpo, per il passaggio del coronavirus. Però chi lo può gradualmente ristrutturare deve farlo, è una sfida che ci tocca. Per esempio, ricordiamoci che anche Dante non ha mai auspicato l’italianità della penisola, perché scriveva «Noi siamo come i pesci nel mare»: nel mare che era quello a conoscenza di allora, cioè quello imperiale. Abbiamo nelle nostre categorie culturali molti dei valori moderni, se per modernità si intende il dopo coronavirus.
Il fatto che il potere stia mutando nelle sue espressioni e nelle sue funzionalità è il primo problema di cui dobbiamo prendere coscienza. Uno dei punti centrali nell’esperienza di Fondazione Bassetti è che l’innovazione, realizzazione dell’improbabile, non è controllabile dal potere in sé: perché l’improbabile vuol dire ignoto, oltre, qualcosa che ci trascende. E quindi dobbiamo costruire il governo per potenze di cui non conosciamo la logica. Ormai è chiaro, basti pensare alla fisica quantistica. Quand’è che ci decideremo a insegnare ai nostri giovani, che sono la classe dirigente di domani, che queste sono le problematiche di cui un uomo postmoderno deve impadronirsi per riuscire a sopravvivere?
[ Domanda: fino a qualche mese fa le persone al mondo non conoscevano Hubei e Wuhan, mentre ora le conoscono e le riconoscono come origine della pandemia. Un gradino sotto ci siamo noi, Milano e la Lombardia, come epicentro della crisi. Come recuperare reputazione? ]
A costo di sembrare semplicista, direi: potremo recuperare la reputazione di seconda grande civilizzazione del mondo se punteremo sulla nostra tradizione storico culturale, che ha 2.500 anni e non 150, come quella dello stato nazione. Non siamo nel mondo solo per le prestazioni della Repubblica italiana.
E poi recupereremo reputazione non attaccandoci alle vecchie categorie concettuali; non lo faremo dicendo che il virus era cinese: ma che senso ha? Il virus è generato da un salto di specie che poteva succedere dappertutto e qualcuno sostiene anche che non è assolutamente certo che sia avvenuto a Wuhan. Il problema è presentarsi – e secondo me, se non lo sappiamo fare, inevitabilmente ne pagheremo il prezzo – dicendo che il virus è un fatto globale perché appartiene alle categorie concettuali dell’umanità, darwiniane, e quindi non si può dire né cinese né americano.
Le risposte sono legate al sistema di valori di chi si trova la pandemia di fronte; e noi quindi siamo in tendenza, a dirigere la storia, se prendiamo atto di questo accadimento, dovunque sia accaduto. Se mai, chi ha organizzato le difese meglio? Chi ha scoperto l’antivirus? Lì cominciamo a entrare nelle gerarchie culturali. Allora se questo è, noi dovremo renderci conto che – come sempre nel conflitto tra grandi culture – l’egemonia e il primato li si acquista sui valori, non sulla potenza. Chi ha reagito meglio al virus, esaltando il valore della salute? L’ammirazione del mondo in questo momento, per noi italiani, viene proprio da qui: lo stupore perché in un paese democratico – ma soprattutto notoriamente casinista – di colpo abbiamo accettato, senza aver bisogno di schiere di poliziotti, di autolimitarci. Questo è un punto di fierezza che dovremmo cercare di utilizzare. Chi capisce meglio, di più e prima le sfide che ci propone la storia. Tenendo presente che la storia ormai non ci dà sfide darwiniane, basta parlare con Ilaria Capua. La sfida che oggi il virus ci lancia è quella a tornare a discutere di valori come essenza della politica, non di rapporti di forza e di controllo. Questa è secondo me la sintesi politica del discorso. Siamo riusciti con il controllo della guerra atomica (finché dura), dobbiamo riuscire con il controllo dell’evoluzione virologica.
[ Domanda sulla gestione del Covid-19 in Corea. Infrastruttura tecnologica importante, concetto diverso di privacy. ]
Se vogliamo essere brevi: sono totalmente d’accordo, convinto che la sfida è rivedere le nostre categorie concettuali per ridistribuire quelle valoriali diversamente da come avevamo fatto nella recente modernità. Si tratta per esempio di capire che, rispetto ai problemi che pone il mondo ipermoderno, poco può fare il confronto della violenza o della forza, molto può fare il confronto dei saperi. Rispetto al Genesi ha vinto il serpente: oggi è il sapere che condiziona il potere, quindi inseguire il potere senza porsi il problema del sapere è scorretto. Gli asiatici in questo, anche perché sono immanentisti, si muovono bene. Perché per loro il potere risulta dal bottom up, non è un’immissione top down. Si confronta una cultura abituata ad affermare: «Siccome abbiamo visto che le cose sono così, tu le devi fare» con una, diversa, che dice: «Siccome abbiamo scoperto che le cose sono così, dobbiamo assecondarle». E in questo confronto noi italiani siamo meno svantaggiati di altri che hanno contribuito più di noi alla cultura cosiddetta moderna, perché siamo disponibili a una cultura postmoderna: questa è la mia tesi. C’è una sola strada: rivedere le nostre categorie valoriali o riscoprirle, perché se andiamo ai nostri precedenti ci accorgiamo – basta pensare al Rinascimento – che siamo stati grandi quando avevamo un sistema di valori diverso da quello di chi ha imposto la subalternità semplicemente con le truppe.
[ Domanda: immissione di titoli di debito pubblico a livello di eurozona. Può essere utilizzato lo stesso strumento per la ripresa? ]
La mia risposta è sicuramente sì, perché ritengo – da economista di formazione – che la funzione dell’economia è di servizio alla soddisfazione dell’uomo nella sua interezza. Allora, sono convinto che se partiamo dall’idea che le domande che il sistema sociopolitico fa all’economia possono e devono cambiare, ce la faremo sicuramente. Arrivo a dire che ce la faremo anche salvando – per quelli a cui la cosa può star cara – gran parte del capitalismo.
Perché non è che il capitalismo funzioni solo per quello a cui l’avevamo chiamato nell’epoca cosiddetta moderna: è un modo razionale di organizzare gli scambi, che può servire per fare qualunque politica valoriale, purché le curve di domanda si adeguino. Non c’è dubbio che possiamo usare la nostra potenza di creare beni capaci di soddisfare domande. Il vero problema non è economico ma, come sempre, politico: cioè quello che chiederemo all’economia.
In questo momento qual è il problema del mondo? Disporre di beni e servizi che restituiscano la salute ai sette miliardi di persone che la vedono traballare. Quando vedo la pubblicità delle automobili dico: «mah, se fossi un imprenditore non farei più pubblicità oggi alle automobili; chi è che vuole comprare un’automobile oggi, nelle grane in cui siamo?» Si stanno facendo discorsi drammatici, come quelli sulla situazione dei nostri ospedali e ti arriva la pubblicità che vuole vendere la cosa che, rispetto alla tua domanda di soluzioni, è assolutamente inutile.
[ Domanda. Il messaggio di Svegliamoci italici è più utile per ricompattare l’identità e l’unità nazionale italiane, rispetto al tricolore? ]
La risposta è sì, però nella consapevolezza che da questo ci separa la dimensione temporale.
Il mio libro non si pone una scadenza a qualche anno: ci abbiamo messo 150 anni per arrivare alla sacralizzazione del tricolore, ce ne metteremo altri 150 per arrivare alla sacralizzazione, ammesso che ci si debba arrivare, dell’italicità. Importante è passare gradualmente, senza mettere le due cose in contrapposizione: non è che il Risorgimento vada messo in contrapposizione al Rinascimento. Non c’è dubbio che l’italicizzazione del nostro sistema comunitario non ha bisogno di essere posta in contrapposizione a quel tipo di aggregazione – sostanzialmente geografico – che abbiamo realizzato quando ci siamo chiusi dentro i confini dello Stivale: è chiaro che uscirne non è così facile come chiudercisi.
Quindi sono convinto che si debbano assumere i tempi giusti, che non sono solo quelli delle pandemie (i tempi dell’ecologia per esempio non sono i tempi delle pandemie). Il tempo della trasformazione del mondo, da un mondo di beghe fra nazioni a uno riorganizzato su grandi civilizzazioni, non può che essere lungo. L’altra condizione è l’accettazione che il problema non è quello di garantirsi una sopravvivenza purché sia. Se vogliamo, questa è una delle sfide del coronavirus: il vero rischio è che noi non sappiamo risolvere i problemi di cui abbiamo discusso e ci chiudiamo in una decadenza che non sarebbe poi un’esperienza così nuova. Nella storia dell’umanità, pestilenze precedenti hanno in molti casi determinato decadenze irreversibili. Quindi, voglio dire, il valore della proposta, se ne ha uno (e io sono convinto che l’abbia) è una prospettiva all’orizzonte indispensabile per navigare nella storia, e la consapevolezza che l’abbandono di un ordine contiene sempre il rischio di cadere meramente nel disordine, che non è un altro ordine ma, diciamo, un’involuzione della situazione precedente.
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