(In questa pagina dopo il testo: video, podcast e fotografie)
Il 21 febbraio 2020, alla vigilia della comparsa di Covid-19 in Lombardia, Confcooperative, impegnata nell’elezione dei dirigenti regionali, mi ha invitato a intervenire a Morbegno, in Valtellina; era fresca l’esperienza di Politikè, scuola politica che ha rafforzato i legami tra la nostra Fondazione e il movimento cooperativo. Per il mio discorso (di cui trovate in questa pagina anche il video, il podcast e le fotografie) ho scelto un titolo pericolosamente enfatico: «La svolta dei nostri anni Venti. Innovare cooperando». Eppure oggi, con tutto ciò che la pandemia sta significando per (almeno) metà del pianeta, le parole «svolta», «innovazione» e «cooperazione» circolano più di prima nel dibattito pubblico.
In Fondazione Bassetti abbiamo affermato spesso che se il XIX è stato il secolo della cooperazione e il XX quello della competizione, nel XXI secolo è obbligato a cooperare chi non voglia soccombere alla competizione. Sfogliando gli articoli messi da parte di recente, ecco il concetto ribadito dal fisico teorico Carlo Rovelli – «La storia dell’umanità è la storia del successo della collaborazione» – e dall’astronauta Luca Parmitano: «il vero progresso vi è solo quando gli uomini agiscono secondo un’idea di cooperazione e condivisione, quando ogni loro sforzo è compiuto per il beneficio di tutti».
Molte autorevoli voci caricano il piatto della bilancia del cooperare e scaricano quello del competere. La ricerca scientifica, emblematicamente, ha saputo criticare se stessa: quando nel 2005, a Legnaro, Ilaria Capua isolò il virus dell’aviaria, innescò una contesa con l’Organizzazione mondiale della sanità (vincendola) rifiutando di accedere al ristretto club di quindici laboratori al mondo autorizzati a svolgere le successive ricerche: «Volete la nostra sequenza? L’impronta digitale del virus? Io la metto in un database pubblico a cui hanno accesso tutti i laboratori del mondo e, se la volete, la andate a prendere lì» (dal libro «Io, trafficante di Virus»). Da allora è passata acqua sotto i ponti e le linee guida globali sono fondate sulla condivisione dei dati. Una breve rassegna delle iniziative di innovazione collaborativa per affrontare Covid-19 l’abbiamo proposta, sull’onda dell’emergenza, anche nel nostro sito.
Colpisce però che a finire preventivamente sotto processo, in vista del dopo-Covid, sia invece la parola sharing, chiave dell’economia collaborativa: si legga per esempio il Requiem di Massimo Sideri sul Corriere della Sera del 15 aprile 2020, che però prudentemente, in chiusura, si limita a un «arrivederci».
Il tempo è un lusso che non possiamo permetterci, diceva Nikita Chruščëv al commissario politico Danilov durante l’assedio di Stalingrado (così nel film «Il nemico alle porte» di Jean-Jacques Annaud), però qualche spazio alla riflessione dovremo concederlo, nei mesi a venire, per non uscire irrimediabilmente spaesati da un panorama nuovamente mutato dalla pandemia.
A mio avviso non è un caso che la dialettica tra cooperazione e competizione avvenga sulle faglie delle principali tensioni della nostra società: il de-giovanimento (termine storicamente inedito coniato dai demografi per descrivere i fenomeni della nostra epoca), la fragilità nella salute, la mobilità negata o conquistata. Per stare a quest’ultima, lo sharing e la condivisione dei mezzi di trasporto sono l’equivalente del collaborare versus il competere (l’auto privata) ma simboleggiano anche la risposta di una società innovata alla «vendetta dei luoghi che non contano» (Rodriguez-Pose), i territori tagliati fuori dalla concentrazione di sapere e investimenti delle grandi metropoli: vedi i gilets jaunes che si rivoltano contro la capitale perché una tassa ecologica mette a rischio, secondo loro, la possibilità di spostarsi e lavorare a Parigi. Sull’esperienza di mobilità negata che stiamo vivendo globalmente nel tempo della pandemia non occorre aggiungere altro.
Confondere le parole, a cominciare da cooperazione e collaborazione, che ovviamente non significano esattamente la stessa cosa, non è utile. Ma nemmeno lo è dimenticarne le matrici comuni. Storicamente, l’impresa cooperativa – che è insieme impresa e movimento sociale – ha avuto caratteristiche di democrazia, principio della porta aperta, distribuzione della ricchezza, centralità di soci e comunità. Come hanno notato, tra gli altri, gli amici Paolo Venturi e Samuele Bozzoni, nel contesto della sharing economy divenuta economia di piattaforma, l’ambizione è comprendere se le tecnologie digitali possano o meno favorire gli stessi valori: collaborazione tra soci, produzione di scambio mutualistico, creazione di valore economico nel coinvolgimento delle comunità. La cooperazione è una forma di impresa che agisce sul mercato e nasce per disintermediare, organizzando la domanda e l’offerta a vantaggio dei suoi membri; a maggior ragione, può allargare il proprio campo d’azione approcciandosi al modello platformista.
Ma soprattutto, in questi anni Venti figli della crisi economica e sconvolti da un terremoto sanitario globale, i nuovi cooperatori possono mettere il proprio patrimonio di valori e prassi a disposizione di chi intenda cercare i modi di una più responsabile e meno ingiusta convivenza.
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