I.
Il dibattito sull’innovazione tecnoscientifica è vissuto e vive ancora della tensione tra il piano del discorso pubblico (la doxa, cioè «l’opinione») e il piano delle conoscenze incarnate nella prassi. Sul primo si confrontano le opinioni e gli interessi, circola l’informazione veicolata dai media, si organizza la domanda politica. Sul secondo si attestano gli avanzamenti della ricerca, si brevettano le innovazioni, si producono i fatti nei quali siamo costretti a vivere. Gli strumenti della scienza, a cominciare dallo «sguardo molecolare» descritto da Helga Nowotny e Giuseppe Testa in Naked Genes: Reinventing the Human in the Molecular Age, manipolano la vita ai livelli più profondi, spalancando possibilità enormi (le ipotesi di Yuval Noah Harari, un uomo che da Sapiens ambisce a farsi Deus) e depositando altrettanto grandi responsabilità. Quale decision making può comporre il conflitto tra le esigenze della democrazia, che si nutre di doxa, e le esigenze della prassi, che si nutre di competenza, cioè del sapere?
Questo probabilmente è il dramma della nostra epoca, il dipendere dalla doxa e dalla prassi. È un combinato cognitivo inadeguato a configurare forme di governo efficaci, e sta spingendoci verso una spirale degenerativa di cui non vediamo la fine.
L’analfabetismo di ritorno, dovuto in parte a specialismi centrati sulle prassi, combinati con la perdita di una cultura critica (competenze senza conoscenza, istruzione senza educazione), trova in media potenti facili e veloci il supporto per organizzarsi in una domanda politica di qualità infima, cui risponde un’offerta politica parimenti infima. Mi sembra ce ne sia abbastanza per processare la democrazia attuale, e forse superarla.
Il tema è il riconoscimento che il sapere non sta solo nelle prassi, e neppure in un combinato teoria-prassi. Questo è il paradigma da cui dobbiamo uscire, basato peraltro su una visione obsoleta della realtà, riconosciuta come oggettiva e universale (visione su cui peraltro poggia anche l’idea che vi possa essere una dichiarazione dei diritti universali). La realtà che dovremmo riconoscere invece non è né oggettiva né universale, ma è un fenomeno emergente e situato, cioè mutante al variare dello spazio e del tempo; anzi non appartenente allo spazio-tempo dei moderni. Occorre quindi rifondare il pensiero critico su un processo di teoresi continua, che preceda teoria e prassi.
Solo così l’innovazione può essere responsabile e i rischi avvistati prima; alla coppia doxa-episteme dovremmo sostituire la coppia techne-aletheia. Le reti glocal più responsabili e più attrezzate dovrebbero lavorare su un salto in avanti nella relazione tra viventi e conoscenza, perché il ciclo iniziato nel Rinascimento e consolidato con l’Illuminismo è nella sua fase terminale.
II.
Come in tutte le rivoluzioni moderne, nell’attuale, dettata dalla tecnoscienza, la persona cambia insieme al suo sistema di relazioni. Quale maggiore evidenza che la pandemia? La sfida del virus è un acceleratore e ci accorgiamo della drammatica sfida di dover vivere in un intorno diverso. Al di là della salute e della sopravvivenza (reggeranno i nostri sistemi sanitari? Reagiranno meglio gli approcci comunitaristi o quelli individualisti?) potremo continuare a riferirci agli stessi modelli di organizzazione del lavoro e della produzione (più o meno forzatamente smart)? Modificate le funzioni (esplosione della domanda di rete, differenza tra disporre di infrastruttura digitale e esserne esclusi), dovremo rivisitare il rapporto con la formazione (servono medici, ma servono anche i saperi per condividere i dati globali in un mondo fattosi piccolo)? Basterà… laurearsi in remoto?
Le scelte emergenziali indotte dalla pandemia accelereranno trasformazioni già incipienti prima. I modelli del lavoro basati su orari e luoghi fissi erano da tempo superati, almeno nella maggioranza dei lavori e delle situazioni: un buon 80% delle persone che nelle ore di punta si incolonnavano con le auto, o riempivano mezzi pubblici e treni di pendolari, lo facevano in nome di un rito divenuto ormai inutile, e contribuivano non poco all’insostenibilità del sistema (inquinamento, sbilanciamento delle risorse, qualità della vita, ecc.). Se questa sosta forzata diventasse almeno in parte permanente, sarebbe, in mezzo a tante tragedie, un fatto positivo. Il restante 20% è riferito a personale la cui presenza è essenziale, ma anche questi lavori si prestano probabilmente alla sostituzione digitale, in tempi differenziati. Di sicuro, nel complesso l’occupazione diminuirà in modo sostanziale. La società si articolerà in attività definite in modo diverso rispetto all’attuale modello del lavoro. Potrebbe essere interessante lo studio del lavoro nelle società preindustriali, molte condizioni potrebbero tornare. Per quanto riguarda la formazione: oggi lo scibile è alla portata di tutti, la formazione intesa come trasferimento di conoscenza non è più essenziale. È essenziale imparare a pensare, liberarsi dei giudizi pregressi, esercitare la percezione, praticare l’ermeneutica, usare le congetture, dominare linguaggi multipli e diversi, in una parola recuperare la capacità di creare.
III.
L’innovazione è immersa nella potenza, ma orfana di potere; perché esso è la potenza strutturata, legittimata. La potenza senza potere è priva di consapevolezza, quindi irresponsabile. Incontriamo il potere, il modo in cui l’uomo si espande. Ma ora l’uomo non è impegnato nella lotta al contro-potere di altri uomini. In fondo è la prima volta che di fronte al nemico – il virus, e l’estinzione delle specie per effetto dei cambiamenti climatici, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande – l’umanità si presenta solidale. Come uscire dalla frustrazione dell’impotenza?
Evidentemente siamo ancora un po’ lontani dall’Homo Deus. La visione di Harari è a mio avviso ancora legata a una visione positivistica della realtà, su cui anche la comunità scientifica oggi non è unanime. In generale gli esseri umani (e molti animali) scambiano volentieri la libertà con la sicurezza, e questo è uno dei fattori che consolidano i sistemi di potere. Tuttavia, quando la risposta del potere a eventi straordinari è debole, si aprono scenari di cambiamento epocale. L’umanità esce dall’impotenza cambiando riferimenti.
IV.
Per effetto dell’innovazione, il bottom-up e la rete seppelliscono le certezze della gerarchia, della democrazia rappresentativa, del centralismo democratico, dell’assolutismo di mercato. Avanza indubbiamente il populismo, eppure sotto sotto si vedono i segni di una rinnovata domanda di spirito cooperativo, sintonizzato con le opportunità del tipo di innovazione che la situazione richiede: lo sharing come forma differente di uso dei beni (a cominciare dai letti della terapia intensiva), nuove piattaforme digitali come strumento per assumere decisioni collettive, la connessione per dotare di più potere chi è – anche geograficamente – alla periferia. Come governarci al tempo delle connessioni reticolari?
Oggi le grandi piattaforme sono l’alternativa emergente agli stati. Al loro fianco gli stati capaci di diventare imperi combinano le istituzioni tradizionali con le piattaforme digitali. Lo stato cinese per esempio sembra in grado di sommare alla sua funzione storica quella di grande piattaforma digitale, tale da coinvolgere gli abitanti della Cina. È però difficile credere che siano gli stati a essere gli attori principali: troppo implicati nel vecchio ordine, troppo dipendenti dal consenso delle masse (anche quelli definiti “non democratici”), troppo imbevuti di concetti obsoleti. Il nuovo rapporto tra potere e biopolitica, che sta emergendo in contemporanea alla crisi degli intermediari storici, al momento non è compreso, né siamo in grado di capire quale genere di guida eventualmente serva. Si affacciano realtà di multi-appartenenze (appartenenze a multiple comunità di tipo tribale, unite da valori e stili di vita simili), di peer-to-peer (gruppi che si governano senza centri di riferimento, come i possessori di valute virtuali), di data management (soprattutto da parte di grandi piattaforme cui attengono milioni/miliardi di persone dalle quali assorbire i dati relativi alla loro vita, potendone quindi rinforzare, modificare, sfruttare i valori, i saperi, le attività). È tuttavia difficile immaginare l’evoluzione di questi sviluppi, né prevedere se possano generare un nuovo “ordine”.
V.
Se il virus pandemico accelera il crepuscolo dello stato-nazione, quale identità comunitaria, quale polis, potrà trascenderla? Saranno le grandi civilizzazioni dell’immanentismo o della trascendenza a scrivere il futuro?
Un nuovo ordine, una nuova polis, difficilmente si instaurerà in modo rapido al posto di quello esistente, per quanto questo possa essere scosso. È più probabile che un nuovo paradigma culturale sia adottato da minoranze qualificate e influenti in vari iperluoghi, territori e reti globali, per creare dei sistemi pilota che lentamente si connettano tra loro e creino un nuovo tessuto economico e politico. Degli esempi possono essere i monasteri dell’Alto Medioevo, che tra il VI e il X secolo costruirono una rete alternativa a quella sconvolta delle città romane; o le società culturali, segrete e non, che si articolarono in Europa tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XIX. Sicuramente oggi l’Europa è in gravissimo declino, in ritardo nell’innovazione, in profonda crisi politica. È la prima regione del mondo per potenziale, ma è istituzionalmente inetta, completamente da riconfigurare.
Per quanto riguarda le civilizzazioni: ritengo la trascendenza e i trascendentali delle vie di fuga quando non si vuole riconoscere che la realtà immanente, il Deus sive Natura, è molto più complessa e invisibile di quanto percepibile empiricamente. Il meso-mondo connesso alla nostra biologia corrisponde alla realtà comunemente percepita, ma è lontanissimo dal rappresentare ciò in cui siamo immersi. L’indagine dell’Oltre – che per me è comunque immanente, non trascendente – è la fonte prima del sapere e anche del potere legittimo. È un’antica tattica, di un potere che voglia prescindere dalla propria legittimità, spostare l’Oltre nella trascendenza, rinunciando all’esplorazione e all’emersione dell’aletheia, riducendo tutto a dottrina, a testo, a dogma. Un potere così fondato ha successo perché si fonda su una dottrina “facile” da capire e da condividere dalla comunità che lo segue. Tuttavia è suscettibile di una fragilità crescente: quando la tattica è scoperta, il re è nudo, e chi prima era fanaticamente fedele, si ribella con violenza, in genere senza ottenere alcunché, perché non sa che cosa vuole, cerca solo nuovi padroni, e purtroppo spesso li trova. L’uomo eudaimonico invece non si rifugia nelle zone di comfort dell’uomo comune, mantiene attiva la sua scholè, sa che il cambiamento non si ottiene con la violenza. I grandi cambiamenti nella storia sono sempre stati creati da reti di uomini eudaimonici. Possibili nelle nostre democrazie? E conciliabili con esse?
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