Gabriele Giacomini indaga sul tema del rapporto tra democrazia e digitalizzazione della comunicazione, con una serie di interviste.
Se non c’è una discussione informata che precede la decisione, secondo Pasquino, è meglio astenersi. Ma su Internet prevalgono le immagini, è difficile riuscire a comunicare ragionamenti complessi, spesso si preferiscono le battute più o meno sagaci. Con gli strumenti digitali, quindi, possiamo al massimo dire se chiudere una strada alle automobili, cioè prendere decisioni elementari. Si potrebbe stare un attimo a decidere sulla pena di morte, ma se prima non si è strutturato un discorso sulla decisione, gli esiti che emergono dalla rete possono essere drammatici. La democrazia che ha in mente Pasquino è l’agorà: quel luogo dove i cittadini si incontrano, si scambiano le idee, si confrontano anche con chi ne sa di più. Per questo serve più cultura e più pensiero. Ad esempio, le élite sono tali nella misura in cui sono in grado di elaborare idee. Molto spesso non sono particolarmente ricche, ma hanno una cultura. Il problema è che le élite culturali sono una minoranza che ha ormai molte difficoltà ad influenzare la maggioranza, in più coloro che ne fanno parte sono restii ad impegnarsi in politica per paura di farsi etichettare come casta.
“La tecnologia non salverà la democrazia, servono più cultura e più pensiero”
Intervista a Gianfranco Pasquino, 21 giugno 2017.
Gianfranco Pasquino è Professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna e membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Attualmente è James Anderson Senior Adjunct Professor alla SAIS-Europe. È editorialista dell’Agenzia Giornali Locali del gruppo L’Espresso.
D. Come stanno i partiti italiani?
R. Purtroppo la crisi dei partiti italiani è una realtà oramai accertata, assodata e anche sostanzialmente irreversibile. Oggi in questo paese è rimasto un unico partito, che non sta molto bene in salute, che si chiama Partito Democratico. Tutti gli altri non si chiamano neanche più partiti, non sono organizzazioni partitiche, ma sono perlopiù dei comitati elettorali o delle reti di utenti del web che si scambiano qualche informazione, qualche polemica, si espellono a vicenda e così via. Nessuno di questi gruppi si chiama partito, sia giustamente perché partiti non sono, sia per evitare il discredito – uso questo termine – di cui godono i partiti definiti tali.
D. C’è chi parla di partiti personali.
R. Infatti, la maggior parte delle organizzazioni che ci sono attualmente possono essere definite personalistiche. Quindi abbiamo il movimento di Grillo, Forza Italia di Berlusconi, la Lega di Salvini, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e poi ci sono gli Alfaniani, i Verdiniani. Tutto ruota attorno ai nomi. Dietro i nomi, però, non c’è granché dal punto di vista dell’elaborazione programmatica. Ci sono ambizioni personali che si mettono insieme e che qualche volta ottengono un po’di soddisfazioni e qualche seggio in parlamento.
D. Che ruolo hanno avuto i media, prima la televisione e poi Internet, nella crisi dei partiti?
R. La televisione ha un po’ di responsabilità. Internet parecchia perché chi comunica su Internet spesso non ha la capacità di comunicare ragionamenti complessi, altre volte non lo vuole fare deliberatamente e si limita alle battute più o meno spiritose e sagaci. Ma credo sia stata soprattutto la stampa, quotidiana e settimanale, per intenderci testate come La Repubblica e Il Corriere, L’Espresso e Panorama, a diffondere ampiamente discredito nei confronti dei partiti. Se dovessi indicare il maggior responsabile per la crisi dei partiti in questi ultimi dieci, quindici anni, direi che è il libro di Stella e Rizzo, La Casta che ha colpito profondamente l’immaginazione di un milione di lettori e che ha diffuso il discredito, lasciando intendere che gli uomini e le donne dei partiti di questo paese sarebbero tutti o quasi esponenti di una casta.
D. Prima accennava al fatto che manca elaborazione programmatica.
R. Questo dipende sostanzialmente dal crollo dei partiti tradizionali che in passato avevano governato il paese, certamente qualche volta anche nella forma peggiore, la partitocrazia. Quando il Partito comunista nell’89 va in difficoltà, giustamente perché non si era rinnovato durante gli anni precedenti, gli elettori sentono che non hanno nemmeno più bisogno di votare Democrazia cristiana, nel senso che non c’è necessità di una diga contro un partito comunista che non pone più nessun tipo di sfida e di minaccia. Nel frattempo, altri partiti avevano avuto dei problemi anche maggiori con Mani Pulite: molti segretari dei partiti politici vengono indagati e a quel punto c’è il crollo. Però il crollo in realtà era già nelle cose, perché era scomparso il fondamento culturale, erano scomparse le culture politiche. Non c’era più una cultura politica socialista, comunista, democratico cattolica. Di marxismo non si parlava più. Di tanto in tanto i comunisti recuperavano Gramsci. Una cultura socialista sopravviveva in parte nella rivista “Mondoperaio”, ma fu rapidamente normalizzata da Craxi. Era scomparsa anche la cultura cattolico democratica, il cui ultimo grande esponente è stato Pietro Scoppola. Senza culture politiche è difficile far vivere o rivivere i partiti politici.
D. Nella globalizzazione la democrazia ha ancora il potere sufficiente per incidere sulla vita dei cittadini? Forse i cittadini percepiscono che la politica ha un potere limitato.
R. I tedeschi risponderebbero che sono convinti della capacità della politica di incidere e che la cancelliera Merkel e il ministro Schaeuble fanno delle scelte politiche rilevanti. Ma prendiamo un altro esempio. I grandi operatori economici internazionali, le agenzie di rating, la banca Goldman Sachs attaccano la Danimarca? No. Si potrebbe dire perché il trofeo è troppo piccolo. Ma potrebbe essere che non l’attaccano perché il paese è governato bene, perché i cittadini hanno fiducia nelle loro istituzioni e nel loro stato, perché le banche non hanno fatto pasticci. E quindi in realtà la politica, se fatta bene, è in grado di resistere, di scoraggiare qualsiasi vento della globalizzazione. I paesi governati bene non vengono attaccati dalla globalizzazione finanziaria, non vengono messi in crisi dalla globalizzazione delle comunicazioni. Se fossimo ben governati anche noi non verremmo attaccati. Veniamo attaccati perché siamo deboli, vulnerabili, ma questo è appunto un problema legato alle carenze della politica.
D. Umberto Eco era molto critico nei confronti di Internet. Sosteneva che Internet da risalto a voci che non meriterebbero questa possibilità. Lei è d’accordo?
R. Sono molto d’accordo. Aggiungerei che noi naturalmente possiamo difenderci da Internet, nel senso che dovremmo sapere selezionare le persone e le fonti con le quali vogliamo parlare, interagire, delle quali leggiamo i tweet o cose del genere. Però, nel frattempo, sta emergendo un cambiamento culturale che Sartori aveva preveggentemente colto nel suo libro Homo Videns: subiamo una grande esposizione alle immagini e non siamo più in grado di elaborare ragionamenti. Si passa dall’uomo cartesiano “cogito ergo sum” all’uomo insipiens “video ergo sum”. Questo ostacola i ragionamenti, quando invece la politica è un mondo dove le persone si scambiano opinioni che hanno costruito magari attraverso letture e lo studio, è un mondo dove c’è un confronto razionale che però richiede appunto un pensiero. Se invece ci limitiamo a scambiare delle immagini allora entriamo in una situazione che rende difficile la vita della e nella democrazia.
D. I nuovi media favoriscono risposte populiste?
R. I nuovi media vengono usati dai populisti nella misura in cui è facile fare affermazioni brevi, fare un tweet, farne tanti. Questo naturalmente favorisce il discorso populista che per definizione non è un discorso particolarmente articolato. Basta dirsi contro, insultare, ripetere le stesse parole, schierarsi con il popolo, spesso la parte peggiore (che c’è, eccome se c’è) del popolo.
D. Come è possibile creare le condizioni per un confronto politico di qualità migliore?
R. La risposta standard è insegnare e diffondere cultura. Però, i ragazzini guardano le immagini prima ancora di iniziare ad andare a scuola. E a scuola addirittura si pensa che usando Internet si riesca a offrire un insegnamento migliore. Le élite sono tali nella misura in cui hanno fatto un percorso culturale, si dimostrano in grado di elaborare idee. Molto spesso le élite non sono particolarmente ricche, ma hanno una cultura. Ovviamente ci sono anche élite di tipo economico, ma, ad esempio, Trump non è certamente una élite culturale. Il problema è che le élite culturali sono una minoranza che non riesce più ad influenzare la maggioranza, perché quella maggioranza è raramente in grado di capire che cosa dice l’élite. Anche se le élite sminuzzano il loro pensiero, lo semplificano, quella maggioranza che è andata male a scuola, che ha seguito corsi fatti male, che non legge praticamente mai un libro, non riesce a seguire.
D. Qual è il ruolo delle élite in democrazia?
R. Come noto Aristotele non aveva grande fiducia nella democrazia, però sperava che mettendo insieme diverse modalità di governo si formasse quella che lui chiamava politeia, cioè il buon governo. Sartori sosteneva che il compito della democrazia è di selezionare una pluralità di élites, e che chi ci rappresenta deve essere migliore di noi. Altrimenti perché lo votiamo? Deve essere migliore di noi, naturalmente. Quando sento Grillo che dice che uno vale uno penso che non abbia capito niente e che stia distruggendo la democrazia rappresentativa. Uno non vale uno. Un parlamentare deve valere di più di un cittadino. Se qualcuno entra in parlamento pensando che gli possono essere sufficienti le conoscenze e le competenze da cittadino ha sbagliato il luogo da frequentare. Non vedo bene il futuro della democrazia perché le élite non vengono selezionate adeguatamente, e in più coloro che fanno parte delle élite politiche non vogliono esporsi al ludibrio di sentirsi chiamare casta. Mentre magari stanno facendo un lavoro davvero importante, anche per i loro cittadini, e parecchi di loro ci rimettono in termini di denaro, di tempo libero, di energie, di attività che stavano compiendo prima. Se non ci rendiamo conto che fare politica non è un gratuito servizio, ma è un compito importante, non riusciremo ad avere il contributo delle élite e tante altre cose.
D. Che cosa ne pensa dell’utilizzo del digitale per prendere decisioni politiche?
R. La democrazia che ho in mente io si chiama agorà: quel luogo dove i cittadini si incontrano, si scambiano le idee, parlano anche con qualcuno che ne sa di più. È chiaro che Socrate non lo troveremo più tanto facilmente nel mondo, Ci sono però persone che hanno intelligenze, conoscenze e disponibilità a dialogare. La rete e gli strumenti digitali possono servire qualche volta per prendere delle decisioni, su punti molto semplici, ma se prima non si è stati in grado di strutturare il discorso sulla decisione, gli esiti che vengono fuori dalla rete possono essere drammatici. Faccio un esempio: la reintroduzione della pena di morte. È facile dire sì o no. Ma è opportuno fare prima un dibattito su che cosa significhi tutto questo. Un dibattito di questa complessità non può essere fatto nella rete, certamente non solo. Al massimo. sulla rete possiamo dire se chiudere una strada alle automobili, cioè prendere decisioni elementari. Ma anche in questo caso probabilmente le persone che abitano in quella strada e che hanno l’automobile potrebbero spiegare perché quella strada non deve essere chiusa. Se non c’è una discussione informata che precede la decisione è meglio astenersi.
D. Quali nuove forme di impegno e partecipazione politica vede all’orizzonte?
R. Naturalmente ci sono dei movimenti che si attivano. Ad esempio, qualcuno potrebbe dire che i No Tav sono una nuova forma di partecipazione. L’azione di questi movimenti deve però essere valutata nella sua complessità, ad esempio, chiedendosi se è giusto che siano solo gli abitanti della Valle di Susa a decidere sulla Tav, anche per coloro che trarrebbero enormi benefici dalla rete ad ‘alta velocità. Altri potrebbero sostenere che le varie associazioni No Profit sono luoghi importanti di partecipazione, purché, aggiungo io, siano davvero indipendenti. In generale, senza una struttura fondamentalmente partitica, organizzata, che duri nel tempo, questi movimenti e queste organizzazioni sono transeunti, nascono e muoiono. Quelli che reggono sono, ad esempio, quelli vicini alla Chiesa, perché la Chiesa è una struttura molto potente, radicata e che dura nel corso del tempo, una struttura dalla quale una serie di organizzazioni traggono alimento, sostegno, appoggio e qualche volta anche denaro. Tutti gli altri movimenti non organizzati sono molto fragili e traballanti. Possono svolgere un compito importante in democrazia, ma non possono essere loro il fondamento della democrazia.
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