Gabriele Giacomini indaga sul tema del rapporto tra democrazia e digitalizzazione della comunicazione, con una serie di interviste.
Intervista a Sara Bentivegna, 20 giugno 2017.
Quando affrontiamo il tema del digital divide, e quindi della possibilità di cogliere le opportunità offerte dal digitale, il problema dell’infrastruttura si può mettere a margine, mentre è centrale il problema di avere le capacità per individuare le potenzialità della rete. Dal punto di vista politico non bisogna pensare che la rete possa automaticamente far conquistare milioni di voti: il web è una risorsa fondamentale ma solo se si coniuga con una forte ed innovativa proposta politica. Quando la proposta politica è convincente i soggetti, grazie alla rete, possono mettere in pratica una partecipazione più light rispetto al passato e quindi anche più diffusa. Inoltre è attraverso i social che certi temi possono essere sostenuti e si può evitare che scompaiano dall’agenda pubblica. Oltre alle potenzialità però ci sono anche rischi: ad esempio non riusciamo a capire le logiche dell’intermediazione apparentemente meccanica delle grandi piattaforme, perdendo così potere e consapevolezza.
Sara Bentivegna
Sara Bentivegna è professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, insegna Teorie delle comunicazioni di massa, Media research e Comunicazione Politica presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma. Il suo ultimo libro è A colpi di tweet. La politica in prima persona (Il Mulino, 2015).
D. Che cosa si intende per digital divide?
R. Questo concetto può essere compreso facendo riferimento al fatto che il digital divide è una sorta di moving target. Ciò significa che il contraltare del digital divide, ovvero l’inclusione digitale, è qualcosa che cambia nel tempo, nel senso che ciò che ieri era sufficiente a garantire inclusione digitale oggi non lo è più. Riflettere intorno al digital divide significa quindi riflettere attorno ad un tema che cambia in continuazione. Un tempo il digital divide era inteso come l’impossibilità per alcuni soggetti di poter accedere alla rete. Questa definizione di digital divide, che poi è stata contestata anche fortemente, deriva da un primo approccio che affrontava il problema in questi termini: “hai il telefono o non hai il telefono?”, “hai il computer o non hai il computer?”, “hai l’accesso o non hai l’accesso?”. La questione così posta era molto semplice. Per quanto riguarda questo problema del mero accesso alla rete, la prima risposta in termini di intervento pubblico è stata quella di “lasciar fare al mercato”, si pensava infatti che sarebbe stato sicuramente un problema che si sarebbe risolto, che hardware, computer, telefonini si sarebbero diffusi sempre più, che per quanto riguarda le tariffe il mercato si sarebbe autoregolamentato, e che quindi l’accesso poco a poco sarebbe stato garantito a molti. Questa interpretazione ha retto per i primi dieci anni. Oggi ha lasciato spazio a interpretazioni un po’ più raffinate, nel senso che il digital divide non è più inteso semplicemente come la possibilità o meno di accedere alla rete, ma come la possibilità di utilizzare la rete per quello che riguarda l’empowerment individuale. Le questioni centrali quindi diventano: “accedere alla rete consente di poter realizzare alcune attività che altrimenti non sarebbero realizzabili?”, “permette di diminuire i costi di altre attività?”, “quanti soggetti sono effettivamente in condizioni di poter fare questo?”. In Italia abbiamo una rete che viene spacciata per essere a banda larga, per avere una grande potenza, ma in realtà non è così e siamo in una condizione un po’ a macchia di leopardo: in alcune zone sono possibili dell’attività che sono impossibili altrove. Si capisce quindi che il digital divide è un problema molto più complesso di quello che inizialmente si potrebbe intuire e che, a mio avviso, richiede sempre delle specificazioni a riguardo delle dimensioni a cui si sta facendo riferimento.
D. C’è un tema di infrastrutture ma anche di competenze, quindi.
R. Infatti possiamo dire che il problema dell’infrastruttura è un problema che possiamo mettere un po’ a margine. C’è un problema di competenze e soprattutto c’è anche un problema di capacità di individuare le potenzialità della rete. Da questo punto di vista il fatto che ci sia una maggioranza molto forte in questo paese, di milioni e milioni di persone, che si connettono a Facebook non basta certamente a darci l’idea di un paese che è integrato dal punto di vista digitale. Se l’uso della rete è per finalità prevalentemente ludiche di quel tipo, e non ha a che fare con la possibilità di avere accesso per studio, lavoro, sanità pubblica è evidente che ci riduciamo semplicemente ad un accesso legato al loisir e non ad altre potenzialità.
D. Internet favorisce la partecipazione di tutti oppure rischia di perpetuare disuguaglianze già presenti?
R. È evidente che nel momento in cui la rete si colloca in alcuni contesti, dove già esistono squilibri di natura sociale, economica, culturale questi squilibri vengono accentuati. Su questo non c’è dubbio. Non a caso si dice che la rete accentua ed enfatizza i tratti di esclusione sociale che precedono l’accesso alla rete stessa.
D. In questo periodo qual è il media più utilizzato, quale ha maggior influenza sul pubblico?
R. Credo che oggi non sia possibile individuare un unico mezzo. Siamo di fronte ad una trasformazione profonda dell’ecosistema mediale e quindi dobbiamo considerare l’interazione (o l’ibridazione, se vogliamo usare un termine à la Chadwick) che si realizza tra diversi media. Possiamo immaginare che in Italia la televisione sia il punto terminale dell’informazione, che raggiunga un numero significativo di soggetti. Ma dobbiamo anche tener conto del fatto che ciò che viene trasmesso dalla televisione nasce, si sviluppa e si alimenta in altri contesti, come ad esempio quelli dei social.
D. Televisione e web. Quali le analogie e quali le differenze?
R. Tempo fa si sarebbe detto che fra i due universi c’è una profonda diversità che riguarda il modello comunicativo: nell’ambito televisivo siamo stati abituati a parlare di un modello broadcast (qualcuno che comunica a tanti, da uno a tanti), in Internet invece si è sempre parlato di un modello che non è più broadcast ma che è many-to-many (molti che comunicano a molti, da tanti a tanti). Questo era il modello iniziale che ci aiuta a capire sia le caratteristiche di base sia come in realtà questi due modelli si sono intrecciati nel corso del tempo. Partiamo appunto dal modello comunicativo della rete, che vede tanti punti collegarsi tra di loro. Noi sappiamo dalla nostra esperienza di utenti che in realtà ci sono alcuni utenti che riescono a raggiungere più persone rispetto ad altri. Quindi non è completamente vero che la comunicazione è da tanti a tanti, alcuni in realtà comunicano da pochi a pochi, altri sono pochi che comunicano a tanti. Da questo punto di vista quella prima differenziazione a livello di modello comunicativo già si indebolisce. Inoltre anche il modello comunicativo della televisione, che era il modello del broadcast, è cambiato. Una caratteristica importante della televisione, perlomeno classica, era che vincolava la fruizione dei prodotti a tempi e luoghi. I cultural studies hanno studiato la family television proprio perché la televisione si guardava a casa, in famiglia. Oggi invece la televisione si guarda sul telefonino, sul computer, si guarda ovunque e in qualsiasi momento. Ad esempio non è detto che io guardi il telegiornale mentre va in onda, potrebbe essere che me lo riguardi dopo, on demand. Per non parlare delle innovazioni introdotte per agganciare un tipo di pubblico particolare, come quello delle fandom community, per cui la televisione diventa un prodotto aperto al contributo degli utenti. Oppure pensiamo al caso di Gazebo, trasmissione di grande successo che ha davvero ufficializzato il commento su Twitter inteso come momento di spettacolo all’interno del programma televisivo.
Anche la televisione ha perso alcuni tratti costitutivi che l’hanno accompagnata per molto tempo, e tutto questo rimanda a modelli che sono cambiati e si sono ibridati.
D. Qual è invece la differenza fra i social più utilizzati in questo momento, Facebook e Twitter?
R. Twitter continua ad essere un ambiente, una piattaforma comunicativa che è frequentata soprattutto da politici, giornalisti, opinion leader o comunque da addetti ai lavori. Da chi ha interesse per la politica o per alcune questioni anche legate al mondo delle celebrities e così via. Quindi è una piattaforma dove le élites si esibiscono e talvolta interagiscono. Facebook invece è il contrario. É la piattaforma dove tutti sono presenti, dove convivono dinamiche relazionali legate a situazioni che vanno dalla scuola d’infanzia fino al mondo del lavoro, oltre che all’affinità, all’appartenenza a comunità ideali. Da questo punto di vista hanno caratteristiche profondamente diverse e continuano a mantenerle.
D. Quanto conta Internet per la politica? Come cambiano le campagne elettorali?
R. Ogni campagna elettorale è un po’ un caso a sé, una sorta di scommessa perché dipende da tante circostanze. Si pensi agli Stati Uniti e all’ultima campagna di Clinton contro Trump. Hillary Clinton ha messo in campo la stessa organizzazione della campagna elettorale di Obama con un risultato però completamente diverso perché Obama costituiva una novità in un panorama politico tale per cui ha mobilitato ad esempio i giovani. La Clinton invece non è riuscita a fare altrettanto, pure usando le stesse modalità, le stesse strategie comunicative nonché gli stessi consulenti. Da questo punto di vista, quindi, anche per quanto riguarda il contesto italiano, quando si legge che il Partito Democratico sbarca sul web perché è lì che farà concorrenza agli altri partiti io penso che sia una idea un po’ ingenua. Certamente Internet è un territorio che va presidiato ma non è semplicemente con una campagna sul web che si ha la certezza di essere convincenti. È un investimento che può essere fatto ma non è detto che poi porti i risultati sperati. Anche alla luce delle recenti elezioni inglesi, con il parziale successo di Corbyn, direi che il web, la rete, i social sono fondamentali ma solo quando si coniugano con una forte ed innovativa proposta politica. Da soli i social non fanno assolutamente nulla. Questa è una precisazione importante perché sennò continuiamo a vivere di equivoci: così come una volta si è sbagliando ad associare alla televisione la capacità di conquistare milioni di voti (pensiamo a quanto si sosteneva in Italia circa Berlusconi), adesso mi piacerebbe che si evitasse di pensare che i social fanno conquistare automaticamente milioni di voti. Non c’è alcun automatismo. Ho letto analisi molto interessanti che sono uscite in Inghilterra e che sottolineavano la presenza di una grande mobilitazione per Corbyn, ma questa mobilitazione c’è stata perché gli individui erano convinti della proposta politica di Corbyn, e poi hanno messo in atto delle pratiche comunicative di mobilitazione e hanno dato vita sui social ad una forte pressione.
D. Quindi si potrebbe dire che esistono ancora i militanti che, convinti di una certa linea politica, si impegnano a comunicarla?
R. La vera differenza rispetto al passato è che la figura di militante non è più quella di un tempo. Una volta quella di partito era un’identificazione e anche una sorta di vocazione al sacrificio. Oggi invece la militanza, il sostegno ad un partito, ad un progetto, ad un’idea sono una cosa completamente diversa. Sono delle forme più light di engagement e sono anche molto più diversificate perché appunto non si traducono semplicemente nella partecipazione alle riunioni e ai dibattiti ma si traducono anche nella creazione di un video, nella creazione di un gruppo sul web e così via. Da questo punto di vista sicuramente le possibilità di appoggiare un partito politico sono diventate più accessibili e proprio per questo sono diventate più diffuse. Infatti i soggetti possono mettere in pratica questa partecipazione light più facilmente, senza pagare prezzi troppo alti che peraltro non sarebbero disposti a pagare.
D. Come si struttura lo stile comunicativo dei leader su Internet?
R. Nel caso di Trump c’è un uso del tutto particolare dei social e probabilmente non è neanche uno stile esportabile, anche se l’uso che fa di lui di Twitter in qualche modo lo ha fatto anche Renzi: si tratta di un uso molto personalizzato, molto disintermediato, che serve appunto a stabilire un contatto diretto tra il leader e i cittadini. Da questo punto di vista è evidente che c’è una strada che ormai è stata imboccata e che difficilmente verrà poi abbandonata. Nello stesso tempo però c’è anche un’altra tendenza, si potrebbe dire opposta, rappresentata dal caso Macron. Macron non si esibisce, non si mette in pubblico così vistosamente, ha assunto una linea completamente diversa. Ad esempio la difesa della privacy nel caso di Macron è molto forte, cosa che non accade in altri contesti quando invece il leader fa di tutto per andare verso il cittadino sacrificando anche degli aspetti della propria privacy. Anche in questo caso siamo di fronte ad una interpretazione della comunicazione da parte dei leader che attinge dal nuovo ma mantiene anche molto del vecchio.
D. Come cambia con il digitale la formazione dell’agenda pubblica?
R. Questo è un tema molto complesso che richiederebbe studi, riflessioni, analisi empiriche approfondite. Un tempo noi eravamo abituati a pensare alla sfera pubblica, e quindi anche all’agenda pubblica che in quel contesto veniva discussa, come il frutto dell’interazione fra sistema politico e sistema mediale, con i cittadini che poi, nel classico meccanismo di agenda setting, raccoglievano e rielaboravano alcune tematiche che inserivano poi nell’agenda personale. Anche questo modello non regge più. Nei social (Twitter, Facebook o altro) troviamo una forma di interazione, di confronto, di dialogo diretto tra i diversi soggetti, anche nella formazione delle tematiche. Ed è interessante andare a vedere come in alcuni casi è proprio sui social e sulla rete che certi temi vengono sostenuti e si evita che escano o scompaiano dall’agenda. Si tratta quindi di un’alterazione degli equilibri tradizionali: la stampa tradizionale è sicuramente ancora in grado di inserire nell’agenda alcuni temi ed argomenti, ma è meno in grado di eliminarne altri o di imporli se non c’è poi una sorta di triangolazione che vede i cittadini coinvolti in un ruolo diverso rispetto a quello del passato.
D. Cosa ne pensa della comunicazione istituzionale sul web? Come contribuisce alla formazione della pubblica opinione?
A me ha colpito molto un caso di comunicazione istituzionale di un soggetto che non è un’istituzione politica classica. Sto facendo riferimento al caso dell’Eni, quando il programma televisivo Report ha trasmesso un’inchiesta su alcune operazioni dell’azienda e l’Eni ha ribattuto sui social durante la diretta della puntata. C’era una sorta di risposta in tempo reale a ciò che ci si chiedeva in televisione. Inoltre gli esperti di comunicazione dell’azienda non hanno reagito solo sui social ma hanno anche aperto un sito web apposito in cui si fornivano i materiali relativi alle domande sollevate dal programma. Questo è stato un caso molto interessante perché la rete è riuscita a porsi quasi allo stesso piano di un mezzo tradizionale come la televisione, dando vita ad una sorta di interazione continua che peraltro è stata giudicata di grande successo dello stesso ente – l’Eni – che l’ha ideata. Bisogna anche ricordare, però, che questo caso fu gestito con grandissima professionalità e non con improvvisazione come si potrebbe pensare. A me sembra invece che molto spesso, per quanto riguarda la comunicazione istituzionale, ci si muova con una certa improvvisazione. Anche da cittadina non mi sembra ci sia un grande investimento a riguardo.
D. Da un lato sembra che la rete promuova una comunicazione emotiva, banalizzante, dall’altro lato ci sono casi in cui la rete porta nuovi argomenti all’opinione pubblica, come nel caso dell’Eni.
R. Convivono entrambe le dinamiche. È anche chiaro che ormai, per molte ragioni come la trasformazione profonda del sistema d’informazione, prevale una propensione alla semplificazione, all’emozionalizzazione. È evidente invece che il caso dell’Eni abbia richiesto professionalità, investimenti che chiaramente materiali in più. A parità di ritorno di click o altro, però, un prodotto che costa di meno ma che suscita il maggior numero di attenzione, di engagement, rischia di avere la meglio sul prodotto che invece richiede costi. Il prodotto di qualità infatti deve essere lavorato e richiede anche una sorta di appropriazione diversa da parte del fruitore, perché è evidente che quello è un materiale su cui riflettere ed eventualmente da riutilizzare. In generale direi che la tendenza generalizzata sia quella di preferire la prima modalità. Onestamente credo sia sufficiente guardare l’home page dei nostri giornali tradizionali e notare che nella famosa colonna a sinistra si trova davvero di tutto e il contrario di tutto: non c’è un intento informativo, c’è un intento di intrattenimento. Il problema è che si tratta di un’offerta che poco a poco cambia le aspettative e i tempi di consumo dell’informazione da parte degli utenti.
D. Cosa ne pensa del concetto di disintermediazione? Le nuove piattaforme come Facebook e Twitter possono essere considerati dei nuovi mediatori, seppur diversi da quelli passati?
R. Sicuramente sì. Con un elemento di novità molto importante. Un tempo la figura del soggetto che intermediava era visibile, riconoscibile, aveva tratti ben specifici. Peraltro molto spesso il soggetto sceglieva il mediatore: pensiamo alla scelta della testata del giornale da leggere, del telegiornale, del giornalista che ci piaceva. Gli si attribuivano alcune caratteristiche, gli si riconoscevano anche competenze e capacità. Oggi invece noi non vediamo l’intermediazione apparentemente di tipo meccanico degli algoritmi delle piattaforme, non l’apprezziamo, non siamo in grado di capirne le caratteristiche, eventualmente di scegliere. Ci troviamo in una situazione in cui apparentemente siamo in un contesto disintermediato, ma nella realtà è un contesto molto più intermediato rispetto al passato e nel quale noi abbiamo perso molto potere. Rispetto al potere dei famosi algoritmi cosa possiamo fare? Fare ogni tanto delle ricerche finte? Abbiamo un’offerta che ci viene costituita senza che noi si possa in alcun modo intervenire. Questa è una forma di intermediazione per certi versi molto più forte rispetto al passato. Ovviamente non controllavano il sistema dell’informazione neanche prima, questo è evidente, ma nel momento in cui sceglievano una lettura di un giornale piuttosto che un altro lo facevamo in maniera consapevole, oggi è molto più difficile agire con consapevolezza, a meno di non avere certe competenze. I soggetti spesso non si pongono questo problema, neanche lo colgono, e questo è ancora più grave. Tutto ciò oltretutto si lega ad un discorso di natura economica. Perché questa offerta? Questa selezione? Ci sono dei meccanismi economici alla base del fatto di indirizzarci su alcuni prodotti piuttosto che su altri.
D. La frammentazione e la polarizzazione stanno aumentando con Internet?
R. Si tratta di fenomeni che ormai si riscontrano nelle maggiori democrazie. Non c’è paese che non sia polarizzato: vediamo ad esempio l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’Italia e non solo. Io penso che la polarizzazione con la rete ha avuto modo di diventare visibile, mentre invece un tempo lo era molto meno, nel senso che la si poteva trovare nelle conversazioni, fra gruppi di associazioni, adesso invece la polarizzazione emerge non appena si fa un giro sui social, si guardano i commenti ad esempio agli articoli dei giornali. La sociologia parlava già negli anni ’50 delle cosiddette reti omofiliche, nel senso che le reti erano costituite tra soggetti che avevano le stesse caratteristiche. Se questo era stato riscontrato negli anni ’50 è qualcosa che ha anche a che fare con la natura umana.
In molti contesti, anche nel passato, se un soggetto era simpatizzante per un certo partito non andava a fare due chiacchiere con un capannello di soggetti che erano di un altro partito. A volte si interagiva perché erano persone conosciute o perché si voleva interagire, ma normalmente c’erano delle separazioni di universi discorsivi. Nella rete si riproduce questo, solo che è evidente e quindi è come se mettesse più paura. Quello che invece mi stupisce e mi preoccupa è il fatto che non ci sia consapevolezza del fatto che si frequentano soltanto alcune persone, e quindi è come se ci fossero fette di mondo che rimangono completamente estranee, nascoste. In più con la rete stiamo mettendo in atto un meccanismo inverso rispetto al passato: i media tradizionali ci portavano laddove non potevamo andare, ci raccontavano pacchetti di mondo che non potevamo vivere in prima persona. Oggi invece si sta verificando il meccanismo opposto, per cui la rete ci porta sempre più a vivere nel piccolo mondo nel quale già siamo. Quindi gli altri mondi tendiamo ad ignorarli, a lasciarli fuori, a dimenticarli.
D. Che ne pensa del web come strumento per promuovere la trasparenza in democrazia?
R. Da un lato penso che il web contribuisca all’affermazione della trasparenza e anche ad una domanda di trasparenza. Contribuisce sicuramente a rafforzare il meccanismo dell’accountability, cioè mette il soggetto nella condizione di verificare che ciò che il politico dice venga poi fatto. Il web semplifica l’azione dei soggetti: nessuno andrebbe a leggersi i resoconti di Montecitorio per sapere che cosa ha votato quel partito, quel politico. In Internet invece questa operazione può essere molto più semplice. Allo stesso tempo però penso che la rete rischi di simulare la trasparenza, perché in realtà il soggetto non ha elementi per verificare se è “vera” trasparenza o se è architettata affinché sembri tale. Pensiamo anche alle dirette streaming: io vedo ciò che viene ripreso e viene proposto. Ho la sensazione di essere presente, però non so cosa accade un metro più in là. La trasparenza intesa in questi termini a mio avviso aumenta l’opacità, perché oltre al momento reso trasparente ci sono così tanti retroscena che non vengono mostrati che l’opacità non scompare affatto. Anzi, prima l’opacità era “visibile” perché la immaginavamo, adesso in qualche modo viene nascosta di fronte a questo “mostrare tutto” per poi nascondere qualcos’altro. Da questo punto di vista quindi si rischia di coltivare una falsa illusione.
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