Gabriele Giacomini indaga sul tema del rapporto tra democrazia e digitalizzazione della comunicazione, con una serie di interviste.
Le trasformazioni della democrazia ci impongono di uscire dal vecchio paradigma della partecipazione di tipo partitocentrico. Oggi esistono molte forme di partecipazione: pensiamo al clicktivism, all’organizzazione di eventi attraverso la rete, alla firma di petizioni on line o all’utilizzo di strumenti normati come le e-petition dell’ordinamento britannico. È molto difficile definire l’intensità di queste forme: la mobilitazione è considerata tradizionalmente come l’esempio più impegnativo di partecipazione, ma questo non vuol dire che il clicktivism sia una forma minore, dato che molto spesso funziona come elemento di attivazione delle stesse forme di mobilitazione. Il web migliora o peggiora la qualità del confronto pubblico? Secondo Sorice in rete coesistono due diverse modalità di discussione. Da una parte c’è quella tipica dei social media, dove l’istantaneità è l’elemento dominante: chi arriva prima, chi lo fa in maniera più dirompente, magari anche violenta, sembra più efficace. Dall’altra parte c’è l’opportunità di prendere parte attraverso le piattaforme di partecipazione democratica, dove la logica dell’interlocuzione e del dialogo diventa premiante.
“Il digitale offre un’occasione per migliorare i processi deliberativi”
Intervista a Michele Sorice, 21 giugno 2017.
Michele Sorice è Professore ordinario di Innovazione Democratica e di Political Sociology al Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS “Guido Carli”, dove dirige il Centre for Media and Democratic Innovations “Massimo Baldini”. È Honorary Professor alla University of Stirling nel Regno Unito.
D. Come cambia la partecipazione politica con il digitale?
R. Innanzitutto direi che è difficile distinguere tra partecipazione politica on line e partecipazione politica off line. Nel senso che oggi viviamo in un mondo interconnesso, quindi siamo costantemente cittadini sia on line sia off line. La vecchia distinzione tra la vita della rete e la vita fuori dalla rete è una distinzione che aveva senso nell’epoca del web 1.0. Oggi la distinzione fra una partecipazione off line, che si intende sul territorio, e una on line, cioè nella rete, è difficile da utilizzare in maniera precisa ed efficace perché a mio avviso noi siamo soggetti che partecipano costantemente dentro questo insieme di spazi pubblici connessi. La partecipazione off line, la partecipazione sul territorio, nell’associazionismo, nei movimenti civici, nei partiti politici, o almeno ciò che ne rimane, è connessa alla partecipazione on line nelle forme consentite dai social network da una parte e dalle comunità della partecipazione democratica on line dall’altro.
Il secondo elemento importante da considerare è che dovremmo uscire dal vecchio paradigma della partecipazione. Nei manuali di scienza politica la partecipazione viene definita a partire da alcune categorie e anche da alcune modalità di intervento. Tutte queste modalità avevano un senso all’interno di una concezione partitocentrica della politica e della società. Non è un caso che, se andiamo a rileggere quelle forme della partecipazione, ritroviamo attività come iscriversi ad un partito, partecipare a una campagna, essere candidato e così via. Tutto è in qualche modo legato alla dimensione del partito. Oggi invece abbiamo tante forme diverse della partecipazione ed è difficile distinguere, come si faceva una volta, tra partecipazione latente ed effettiva. Se andiamo a vedere i dati e le ricerche che vengono compiute sul territorio europeo e non solo (si pensi ad esempio ai lavori di Russell Dalton o di Pippa Norris) scopriamo che a fronte di un’apatia di fondo nei confronti della politica – intesa come partecipazione all’interno dei partiti – abbiamo una crescita di interesse da parte dei giovani per la democrazia e per i movimenti della società civile, qui intesa in senso ampio, come tutta quell’area che va dal movimentismo anti sistema e dai movimenti anti establishment fino alle forme di cittadinanza attiva.
Tutta quella vasta area che una volta veniva definita parapolitica o prepolitica oggi è una delle modalità della politica. La partecipazione politica diventa quindi l’insieme di tutte queste attività, e la partecipazione on line è una delle modalità attraverso cui queste forme di partecipazione si realizzano.
D. Quali sono le nuove forme di partecipazione politica rese possibili dalla rete? Esiste una classificazione?
R. Normalmente rispetto alle forme della partecipazione on line si fa riferimento a quattro diverse forme di impegno e di engagement. La prima è la creazione di comunità, più o meno auto referenziali. Una delle distorsioni delle comunità on line è infatti quella che viene definita “effetto echo chambers”, l’effetto d’eco in cui le persone sostanzialmente attivano rapporti omofilici, attivando legami fra simili e tendendo ad escludere ciò che è diverso. La seconda forma importante è l’uso della rete come strumento di fundraising, tradizionalmente connesso anche alle forme di richiesta di intervento (dalla petizione che molto spesso sfocia nella richiesta di fondi fino alle campagne per cause specifiche).
Altre due forme sono quelle della creazione di connessione, sia non funzionale alla mobilitazione (terza forma) sia funzionale alla mobilitazione (quarta forma). Quindi sono questi i quattro elementi (comunità, fundraising, connessione e mobilitazione) in cui si organizza la partecipazione on line. Il punto che dobbiamo sottolineare, però, è che a fronte di questa sistematizzazione teorica (studiata tuttavia empiricamente sul campo) abbiamo anche molte altre forme che si posizionano in una sorta di continiuum della partecipazione. Abbiamo quindi le forme più disparate: il clicktivism, l’organizzazione di eventi attraverso la rete, la firma di petizioni on line. In qualche caso abbiamo addirittura attività strutturate, strumenti innovativi anche dentro un quadro normativo preesistente: ricordiamo ad esempio l’ordinamento britannico che prevede le e-petition come modalità attraverso cui i cittadini possono creare l’agenda della Camera dei Comuni, che è semplicemente la riproposizione in chiave moderna del vecchio istituto settecentesco delle petition, quello che è stato efficacemente definito come l’inizio di una “società partecipativa e rappresentativa pre-democratica”.
È molto difficile definire l’intensità di queste forme. La tradizione di studio considera la mobilitazione come l’esempio più radicale della partecipazione on line, come la possibilità più impegnativa. Però questo non vuol dire che il clicktivism, per esempio, sia una forma minore, dato che molto spesso funziona come elemento di attivazione delle forme di mobilitazione. La difficoltà di definire in maniera univoca il peso delle diverse forme di partecipazione on line dipende proprio dal fatto che sono fra loro interconnesse: non esiste mobilitazione se non c’è connessione e la connessione molto spesso è attivata del semplice clicktivism.
D. Quali sono le caratteristiche delle community on line? C’è chi parla di crescente frammentazione e di crescente polarizzazione. La convince questa descrizione?
R. È una questione molto complessa e mi convince in parte. Sicuramente le evidenze ci dicono che l’effetto echo chambers, di cui parlavamo prima, e gli effetti di omofilia comunicativa sono molto presenti nella rete, sebbene non sempre facilmente dimostrabili empiricamente. Soprattutto in alcuni social media, come Twitter, la logica del confronto da stadio in cui tutti seguono soltanto quelli a sé vicini per poi scagliarsi contro quelli a sé distanti mi sembra sia dominante. È difficile che i soggetti seguano personaggi a loro distanti. Magari lo facciamo noi studiosi, per motivi professionali, per cui seguiamo il politico di destra, di sinistra, di estrema destra, di estrema sinistra e così via, ma normalmente questo non accade, a parte ovviamente i fenomeni del “trolling”. Propenderei quindi verso l’idea che prevalgano gli effetti di polarizzazione e quindi quelli di frammentazione che ne sono in qualche modo la conseguenza. Se si lavora per gruppi polarizzati è evidente che questi sono armati di tastiere, le quali possono anche essere pericolose. Al tempo stesso però molti dei comportamenti on line sono difficilmente interpretabili da algoritmi specializzati. Tant’è vero che a volte non ci riescono neanche le grandi media company.
Il fatto che non sia così facile prevedere il comportamento vuol dire poi non è sempre scontato che ciascuno rimanga vicino soltanto a coloro che ritiene essere vicini. Non sempre si verifica questa dinamica caratterizzata dall’effetto eco.
D. Che ne pensa del concetto di disintermediazione? Il concetto di media dal punto di vista etimologico significa “in mezzo”, questo porta a chiedersi se una qualche forma di intermediazione non sia comunque presente anche nei media digitali.
R. Io non penso che esista la disintermediazione nei cosiddetti media digitali. Penso che la disintermediazione di cui si parla sia semplicemente una forma di reintermediazione ad un livello diverso, in cui la tecnologia gioca un ruolo nei meccanismi di nuova intermediazione. Ad esempio alcune ricerche hanno analizzato come gli algoritmi di Twitter hanno condizionato gli effetti della comunicazione del movimento Occupy Wall Street. I manifestanti cercavano di posizionare le notizie sul movimento nei trend di Twitter ma non ci riuscivano, infatti sembra che gli algoritmi non premino flussi di tweet localizzati in un territorio limitato e prodotti da un gruppo di utenti socialmente omogeneo. Negli ultimi anni anche le università hanno scelto di entrare su Twitter, e talvolta si sforzano di fare il live tweeting, cercano di entrare nei trending topics, soprattutto quando organizzano convegni magari molto specializzati. Naturalmente è un’impresa vana, non perché c’è una conventio ad excludendum contro le università che organizzano convegni, ma perché naturalmente si tratta di attività scientifiche magari bellissime ma molto settoriali e localizzate. Sono assolutamente dell’idea che in realtà i social media favoriscano delle forme di reintermediazione, magari più eleganti, tecnologicamente più efficienti, ma pur sempre di forme di reintermediazione si tratta.
D. I politici sono presenti su Internet? Come?
R. Su Internet ormai ci sono tutti. Non è più come nel passato in cui c’erano soltanto i politici più avveduti o più giovani. La dinamica di presenza su Internet è sostanzialmente quella della rappresentazione, cioè quella dell’autopresentazione, di carattere pubblicitario: “sono presente e dal momento che ci sono segnalo anche la mia attività politica”. A questo punto la rete diventa vetrina, né più né meno dei vecchi manifesti elettorali con i faccioni dei politici che tappezzavano le nostre strade. In genere sfugge, anche se ci sono delle eccezioni, la logica della interlocuzione, cioè l’uso della rete come strumento di dialogo con i cittadini e come possibilità anche di ascolto. Se penso alle forme più partecipative di democrazia mi viene in mente subito che la rete potrebbe rappresentare un ottimo strumento per favorire queste forme di dialogo fra cittadini e istituzioni, fra politici eletti e i loro elettori, fra rappresentanti e rappresentati.
La rete potrebbe rappresentare uno strumento straordinario per la creazione del legame sociale. Mi sembra normale che un politico dialoghi con la propria constituency, che viva dove incontra i cittadini, e la rete potrebbe rappresentare uno strumento di creazione di dialogo costante. I politici potrebbero provare ad utilizzare la rete per fare delle discussioni on line, dei dibattiti. Penso a tante piattaforme che vengono utilizzate dalle associazioni, dai movimenti, molte delle quali open source, per stabilire forme di dialogo e di contatto con i propri elettori e magari per discutere punti del programma o proposte concrete. Questa mi sembra una possibilità che la rete oggi consente: ad esempio Podemos lo ha fatto in maniera molto attiva in Spagna. In Italia invece predomina ancora l’idea della vetrina mediatica.
D. Secondo Lei il web che tipo di discussione pubblica promuove? Prevalgano le semplificazioni oppure c’è anche spazio per discussione più informate e razionali?
R. Tornando alle origini della comunicazione di massa, prima del web, possiamo dire che quella comunicazione si muoveva seguendo sostanzialmente l’asse della velocità. L’esplosione dei nuovi media elettrici, la radio, il cinema, fino all’arrivo della televisione alla fine degli anni trenta in Gran Bretagna: la velocità è uno degli elementi importanti, anche se non è l’unico, segnalati spesso negli studi di storia dei media a partire dall’inizio del Novecento. Il web segue questa linea, accelera ulteriormente la velocità. Sostanzialmente trasformando la diffusione delle informazioni in istantaneità. Il problema è che l’istantaneità può portare alla banalizzazione: nel tentativo di tenere il tempo, di essere sempre attivi, di essere sempre pronti a dare la risposta più efficace e più efficiente si rischia la banalizzazione. Questo però era un rischio che preoccupava gli studiosi già negli anni ’60: ad esempio a quei tempi la velocizzazione aveva portato ai titoli ad effetto e aveva favorito la banalizzazione degli articoli di giornale. Da questo punto di vista c’è già una sorta di tradizione. Naturalmente con il web questo fenomeno diventa parossistico. La velocizzazione è talmente rapida da andare talvolta oltre la capacità umana di reggere questa velocità e dunque l’istantaneità diventa banalizzante: questa mi sembra una caratteristica fondativa, oltre che fondamentale, del web.
Aggiungerei però che nel web coesistono due diverse modalità di discussione pubblica. Da una parte c’è quella tipica dei social media, in cui dominano grammatiche predefinite, quelle che gli stessi social media hanno definito nella loro organizzazione semantica, oltre che nelle loro modalità informatiche. Dall’altro lato c’è la possibilità di partecipazione attraverso le piattaforme di partecipazione democratica, le piattaforme sul web di discussione e dibattito pubblico. Si tratta di due cose diverse. Nel primo caso l’istantaneità è l’elemento dominante: in un social network, e nei social media in generale, l’elemento dell’istantaneità è l’elemento pregnante. Chi arriva prima, chi lo fa in maniera più dirompente, magari rischiando anche di diventare ossessivo, compulsivo, violento, sembra più efficace.
La logica del social media è la logica dello stadio: pensiamo ai meccanismi di legittimazione attraverso i followers su Twitter o i likes su Facebook, che assomigliano molto in termini moderni all’applausometro della televisione italiana degli anni ’60 in cui la quantità di rumore dovuta all’applauso faceva vincere un cantante alla competizione canora. Quella vecchia logica televisiva si è riproposta nei social media. Nel caso invece delle piattaforme di partecipazione la logica dell’interlocuzione e del dialogo diventa premiante. In questo caso – uso una parola forzando il suo significato – la dimensione deliberativa delle piattaforme democratiche è sicuramente più favorevole ad una creazione di dibattito pubblico basato sulla conoscenza, sull’informazione diffusa e sul rispetto delle diverse posizioni.
D. Che cosa si intende per Open Government? Quanto rischia di limitarsi a legittimare coloro che possiedono già delle posizioni di potere?
R. L’open government è una delle possibilità che oggi le tecnologie consentono per creare una forma di governo aperto, di governo partecipato in cui i cittadini possono diventare attori attivi anche nella costruzione di decisioni riguardanti la cosa pubblica. La triade della trasparenza, della partecipazione e della collaborazione costituisce l’ossatura concettuale e operativa dell’open government e alla sua filosofia: la trasparenza nello scambio e nella diffusione delle informazioni, la partecipazione attiva dei cittadini (intesi quindi non più soltanto come soggetti passivi a cui viene erogato un servizio), e naturalmente la collaborazione. Esistono però almeno tre modelli diversi di open government. Il primo viene definito modello manageriale. Si basa su flussi di comunicazione fondamentalmente top-down: l’amministrazione pubblica eroga un servizio e lo offre ai cittadini. Gli strumenti di informazione e comunicazione sono utilizzati esclusivamente dal punto di vista funzionale e permane la logica dell’amministrazione centrale che detiene il controllo e il potere sulle informazioni.
Un secondo modello viene definito dalla letteratura scientifica come consultivo. Fa riferimento all’esistenza di una bidirezionalitá di flussi comunicativi fra amministrazione e cittadini e molto spesso è la punta più avanzata di molte amministrazioni anche qui in Italia. Il terzo è quello che invece viene chiamato modello partecipativo, e che rappresenta l’ideale dell’open government. Non si tratta solo di flussi di tipo bidirezionale ma addirittura di tipo orizzontale, capaci di attivare una comunicazione di tipo dialogico e di permettere ai cittadini di collaborare in maniera attiva non soltanto all’estensione dei progetti ma anche alla loro applicazione e alla loro implementazione nel tempo. Quest’ultimo modello è naturalmente il più complicato da realizzarsi, sia per motivi tecnologici sia perché richiede l’esistenza di un gruppo ampio di cittadini disponibili ad investire il proprio tempo, a ricevere informazioni e a essere animati o comunque orientati da facilitatori nel processo di comunicazione. Di solito ci si ferma al secondo livello, però, non solo perché c’è bisogno di soggetti con tempo disponibile e con una volontà anche intellettuale, ma anche per una motivazione, per così dire, ideologica: molto spesso l’open government è uno strumento di legittimazione di chi ha già il potere e che usa strumenti più raffinati di apparente partecipazione.
Nella logica del management aziendale lo stato è moderno ed efficiente se fornisce ai cittadini una serie di strumenti a patto che i cittadini “non rompano le scatole”. La logica del modello consultivo prevede dei cittadini un po’ più attenti ma non necessariamente attivi. La logica della partecipazione prevede non soltanto dei cittadini attenti e attivi ma addirittura capaci di collaborare e che hanno voglia di mettersi in gioco. Questa terza visione ha bisogno di un’idea di stato che è precedente all’open government di tipo orizzontale, un’idea di stato inteso come macchina comunicante, come elemento che consente la connessione dei cittadini, come luogo in cui tutti i cittadini si sentono attori dei processi decisionali. Per questo l’open government funziona laddove è più matura l’idea di una democrazia egualitaria e funziona meno laddove viene utilizzato come strumento di legittimazione e potenziamento di forme più o meno democratiche in cui la logica dell’uguaglianza è considerata in subordine.
D. Cosa ne pensa della cosiddetta democrazia diretta? È possibile oppure si tratta di un’ingenuità?
R. La democrazia digitale diretta è possibile ed è facilissima. Il problema è che non garantisce affatto la partecipazione. La democrazia digitale diretta è come la democrazia diretta con la sola differenza che usa strumenti digitali. È la logica del referendum. È la logica dell’aggregazione delle preferenze, per scegliere chi ha un voto in più. Semplifica e facilita magari il conteggio delle preferenze ma non necessariamente garantisce una maggiore partecipazione.
La logica della democrazia partecipativa on line, cioè la democrazia digitale di carattere partecipativo, invece, è basata sul meccanismo della deliberazione che vede i soggetti dialogare intorno alle proposte. Preciso che utilizzo la parola deliberazione in senso anglosassone. In italiano, infatti, la parola deliberazione viene utilizzata quasi sempre come sinonimo di decisione, complice anche il potere degli studi giuridici nel nostro paese per cui deliberare vuol dire decidere. In inglese, invece, la parola deliberazione indica non la decisione ma il processo che conduce alla decisione. Non è una differenza soltanto terminologica: un conto è infatti stabilire le regole per la decisione, un altro è stabilire i meccanismi attraverso cui i soggetti dialogano e creano consenso magari modificando le proprie posizioni iniziale. Per deliberazione quindi non intendo che si vota la posizione A e la posizione B e poi si aggregano i consensi sulla A o sulla B, ma che ci si confronta sulle posizioni A e B e poi magari ci si accorge che c’è una soluzione C che forse è la soluzione migliore. Il processo deliberativo è questo secondo aspetto.
La democrazia partecipativa on line è una democrazia che dà forma alla partecipazione democratica e che ha come elemento fondativo la logica della deliberazione. La democrazia digitale diretta, invece, ha come suo elemento fondativo l’aggregazione di consenso e quindi è la riproposizione del referendum a cui siamo abituati. Da questo punto di vista ci terrei a sottolineare il fatto che la democrazia digitale diretta è possibile, ma che non aggiunge niente alla partecipazione.
D. Approfondirei la distinzione della differenza fra democrazia digitale diretta e democrazia partecipativa on line. La democrazia digitale diretta può avere dei rischi di involuzione totalitaria?
R. Tutte le forme di democrazia digitale diretta presentano inevitabilmente questo rischio perché le forme di democrazia diretta possono scivolare dentro forme di plebiscitarismo e il plebiscitarismo è l’anticamera di qualunque forma di totalitarismo e di dittatura. È un rischio strutturale del meccanismo di decisione tipico delle logiche di aggregazione del consenso. Questo è uno dei motivi per cui penso che il “nuovo” non dovrebbe essere la democrazia diretta. Nel caso della democrazia partecipativa on line questo rischio è scongiurato dal fatto che esistono posizioni diverse che si confrontano per essere poi giudicate. Dove, dunque, non emerge una posizione magari con un voto in più o lasciando il 49,9 % di scontenti, ma in cui gli scontenti seppur fisiologici sono ridotti al minimo e dove la soluzione che viene trovata è potenzialmente la migliore. Non è un caso se i movimenti più avanzati dal punto di vista dall’elaborazione del pensiero, ad esempio i tanti movimenti contro la globalizzazione, i gruppi di cittadinanza attiva e così via facciano riferimento, nelle loro modalità di autorganizzazione, alla democrazia partecipativa e non alla democrazia diretta, che invece spesso guardano con sospetto.
D. Come è possibile concretizzare l’ideale di democrazia partecipativa con il fine di ottenere un dialogo pubblico il più possibile razionale? Il digitale è sufficiente?
R. Questi metodi funzionano quando innanzitutto c’è un processo di istituzionalizzazione, cioè quando le amministrazioni pubbliche istituzionalizzano il processo deliberativo. E poi quando questo processo viene anticipato da una grande e massiccia attività di approfondimento e di informazione. Un elemento che è molto importante è quello dell’informazione e l’informazione deve essere il più possibile multipartisan, plurale, competente, orientata al raggiungimento del risultato e non alla vittoria di una parte sull’altra. Per questo c’è bisogno di facilitatori neutri o comunque plurali, che appartengano a diverse aree di pensiero. Che vengano riconosciuti dalle comunità o dalle micro comunità come legittimi portatori di un sapere, come facilitatori e non come demagoghi o manipolatori. È un processo difficile, è più facile da realizzare in ambito locale per ovvi motivi di scala, anche se poi anche in realtà molto ampie questo processo è almeno in parte possibile. Penso al grande esperimento del budget partecipativo di Parigi, che coinvolge milioni di persone. Sono esperimenti che funzionano anche se si tratta naturalmente di studiare le caratteristiche e di utilizzare questi strumenti nel modo più opportuno possibile. Non c’è una ricetta di immediata utilizzabilità ma se dovessi indicare tre priorità direi che sono: un’informazione più ampia, libera e plurale; la presenza di strumenti che consentano effettivamente la partecipazione di tutti e quindi che siano di facile utilizzabilità; infine l’ibridazione.
Quindi non basta la rete. Da una parte la rete, dall’altra parte deve essere possibile un incontro in presenza, un incontro off line. Infatti abbiamo nel territorio soggetti che non usano la rete. Magari possiamo fare delle bellissime piattaforme di partecipazione democratica, ma abbiamo persone che per età, per difficoltà nell’uso degli strumenti digitali o per marginalità geografica non utilizzeranno questi strumenti. Allora se noi riuscissimo a mettere insieme una dimensione ibrida, la dimensione on line con la dimensione sul territorio, forse potremmo riuscire ad avere un beneficio dal punto di vista della partecipazione collettiva.
D. Le variabili della trasformazione della democrazia negli ultimi anni si possono limitare alle innovazioni tecnologiche dei media o bisogna considerarne altre?
R. È indubbio che i media hanno giocato un ruolo molto importante nella trasformazione delle democrazie e dei sistemi di rappresentanza, però è evidente che una prospettiva mediacentrica non ci porta da nessuna parte. I media rappresentano soltanto una variabile all’interno di questo processo di trasformazione che è molto più ampio, che era iniziato anche prima. A mio avviso esistono anche altri elementi che dobbiamo considerare. Il primo è la crisi della rappresentanza. Preferisco chiamarla così, e non crisi della democrazia come viene normalmente chiamata, perché non credo che esista la crisi della democrazia. Credo che esista invece la crisi del sistema di rappresentanza e dei suoi meccanismi. Sono in crisi i partiti. Sono in crisi le logiche di rappresentanza basate sui corpi intermedi. I cittadini quindi sono sempre di più alla ricerca di nuove forme di organizzazione. Si sono sviluppati nel corso del tempo sempre di più “claim for representation”, forme che sono più voce che rappresentanza, che hanno trovato nella rete uno strumento di pressione. Questo risultato però non è merito della rete o della comunicazione, ma conseguenza dell’arretramento della politica istituzionale, dei partiti, dell’associazionismo, dei corpi intermedi, dei sindacati, di tutto ciò che veniva considerato “intermediazione”.
Il secondo elemento che mi vorrei sottolineare è la crisi economica. Crisi economiche ricorrenti, e soprattutto quella particolarmente drammatica da Lehman Brothers nel 2007 in poi, hanno completamente cambiato in occidente e in Europa il quadro delle relazioni tra politica e cittadini. È cresciuta ancora di più la sfiducia dei cittadini per i partiti. I processi di apatia nei confronti dei partiti sono stati già studiati negli anni ’60 ma la crisi economica accentua questo processo. Un terzo elemento è la cosiddetta morte delle narrazioni ideologiche del tardo Ottocento e inizio Novecento, a fronte della quale si è affermata a mio avviso una nuova ideologia, quella del neoliberismo.
Questa nuova ideologia ha raggiunto un livello di egemonizzazione della vita pubblica attraverso il quarto elemento che voglio sottolineare, che è quello della commercializzazione della cittadinanza, di cui parlava efficacemente Colin Crouch in un libro, all’epoca per certi versi profetico, dal titolo Postdemocrazia. Crouch faceva riferimento ad un’evoluzione drammatica delle democrazie occidentali in forme post democratiche in cui dominano i meccanismi di plebiscitarismo, in cui il modello dello stato-impresa diventa prevalente anche nella narrazione sociale fino a cancellare completamente alcune istanze che erano state tipiche del Novecento: penso al welfare, al concetto della distribuzione e redistribuzione, ad un certo tipo di uguaglianza, al supporto per i soggetti più deboli e così via. Ora siamo in un’epoca in cui il neoliberismo, oltre ad essere anche causa dell’ultima crisi economica, è diventato l’elemento quadro dentro al quale sono state costruite le nuove narrazioni politiche che hanno in qualche modo ulteriormente accentuato la crisi della rappresentanza. Torniamo quindi al punto di partenza, in una logica circolare: crisi della rappresentanza, delegittimazione dei corpi intermedi, morte delle narrazioni ideologiche, commercializzazione della cittadinanza e neoliberismo che determina nuovamente la crisi della rappresentanza.
I partiti avevano già fatto del proprio per perdere credibilità, a ciò si aggiunge una narrazione della nuova ideologia dominante in cui i partiti vengono rappresentati come inutili, inefficienti, come una perdita di tempo. Questa narrazione conduce inevitabilmente a cascata verso un’affermazione a mio avviso ancora più grave, che è quella dell’inutilità delle assemblee elettive, della presunta perdita di tempo che si ha nei processi di discussione e di deliberazione parlamentare. Non solo alcuni politici ma anche alcuni studiosi avevano teorizzato la necessità del superamento (in termini di efficientismo) della lentezza della burocrazia parlamentare, dimenticando la deliberazione di cui parlavamo prima, ovvero un processo decisionale che ha bisogno di tempi perché ha bisogno di informazioni, di creazione del consenso, di costruire un terreno fertile nel contesto attuale, di far crescere idee nuove e progetti condivisi. La deriva del ragionamento efficientista è quello dell’azzeramento dei tempi fra istanza decisionale e realizzazione di questa istanza.
La progettazione delle policy corrisponde alla realizzazione delle policy. Nel momento in cui si azzera questo tempo, secondo i teorici dell’efficientismo democratico, si ha l’efficienza perfetta. Questi sistemi esistono: sono il totalitarismo assoluto in cui c’è uno solo che comanda, che ha un’idea per la testa e che decide come in Nord Corea. Appena viene in mente una cosa al capo la si realizza. Efficienza perfetta? Assolutamente no, naturalmente. La vera efficienza è invece la capacità di mettere in gioco diversi attori, di farli contribuire e collaborare a un processo di decisione collettiva che vada nella direzione dell’interesse della maggioranza dei cittadini e che tuteli i diritti e le scelte delle minoranze. Purtroppo questa concezione sta entrando in conflitto sempre di più con la dominante ideologia neoliberista. Si può sicuramente affermare che il nostro paese non è un luogo di neoliberismo spinto, ma il problema non è se il mercato è più o meno neoliberista bensì quanto pesa l’ideologia che lo sorregge. Mi sembra che al momento sia quella neoliberista l’ideologia dominante e che questa ideologia stia distruggendo le potenzialità della democrazia almeno così come l’abbiamo sognata.
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