Calestous Juma, Innovation and its enemies. Why people resist the new technologies, Oxford University Press, Oxford (UK), 2016, 416 pp.
INDICE dell’articolo:
- Il tema
- L’autore e il suo approccio al tema
- Il titolo
- L’articolazione degli argomenti
- Le lezioni da apprendere
IL TEMA
Questo libro, che illustra il proprio oggetto sin dal titolo e già nelle prime righe, esplora le dinamiche dell’opposizione all’innovazione: in particolare l’opposizione sociale legata alla tecnologia, ma anche all’evoluzione socioeconomica e istituzionale che all’innovazione si associa.
Il saggio abbraccia una prospettiva non-darwiniana e non-lineare, legata piuttosto al concetto di co-evoluzione e di auto-organizzazione presa dallo studio dei sistemi dinamici: “this view grants greater agency to the mutant, which in its own right shapes the environment to suit its needs” (p. 6). E una prospettiva che riconosce da subito la mutua convivenza di istituzioni e tecnologie: “there is no institution without an element of technology, and the reverse is equally true” (ibidem).
Lo fa ambiziosamente, lungo un arco di tempo di circa 600 anni, mettendo a fuoco 9 casi esemplari, presentati in ordine cronologico, casi di innovazioni che hanno tutti conosciuto una forte opposizione/resistenza prima di essere accettate: l’affermazione del caffè, della stampa a caratteri mobili, della margarina, della meccanizzazione agricola, dell’elettricità, dei sistemi di refrigerazione meccanici, della registrazione del suono, delle sementi geneticamente modificate e infine del primo animale transgenico destinato a essere venduto sul mercato e destinato alla tavola dei consumatori, un particolare tipo di salmone che si sviluppa in metà tempo e consumando meno mangime rispetto ai suoi simili.
Attraverso l’analisi dei casi, il libro offre un’ampia panoramica delle forme che tale opposizione/resistenza può prendere: da quelle nazionali a quelle globali, da quelle più concrete come proibizioni e bandi, restrizioni commerciali, dilazioni negli interventi regolativi (che sono comunque già in sé una manifestazione di resistenza), a quelle più soffici ma di non minor effetto che hanno a che fare con la confezione retorica degli argomenti (framing), come demonizzazione retorica, scetticismo, denigrazione, calunnie e insinuazioni, tattiche allarmistiche, campagne di sistematica disinformazione fino alle teorie cospirative.
Lo fa sottolineando che la selezione di questi specifici casi nulla toglie alle legittime preoccupazioni che derivano da nuovi prodotti e processi che si dimostrano seriamente e universalmente dannosi e pericolosi; oppure che producono effetti negativi in termini di disparità di genere, divaricazioni generazionali, o disuguaglianze per livelli di reddito o di titolo di studio, con conseguenti marginalizzazioni di alcuni segmenti sociali.
Ma il libro cerca anche di rendere consapevole il lettore del fatto che, non solo tendiamo a celebrare le innovazioni di successo senza studiare quelle che sono cadute nell’oblio, ma abbiamo soprattutto scarsa conoscenza delle tensioni sociali che hanno accompagnato successi e fallimenti. Eppure “between successes and failures lies a large territory of contestation that deserves deeper exploration” (p. 2).
L’autore propone dunque un libro che è sì divulgativo e di facile lettura, ma che soprattutto addita alla ricerca accademica uno spazio vuoto che attualmente non è colmato né dalle scienze dure, né dai social studies of science and technology e neppure dalle ricerche di marketing più attente a ciò che il mercato rifiuta. E si posiziona in questa medesima direzione: “given the significance of the tensions between innovation and incumbency, the time has come to develop this field as a distinctive area of scholarly endeavour […] At the very least this book has sought to map the contours of such research programs” (p. 291).
L’AUTORE E IL SUO APPROCCIO AL TEMA
L’autore insegna Practice of International Development all’università di Harvard, dove dirige il progetto Science, Technology and Globalization presso il Belfer Center for Science and International Affairs della Kennedy School. Calestous Juma è dunque uno studioso di technology and innovation policy. Nell’introduzione afferma che la prima idea di questo libro risale all’apertura degli anni ’90 quando fu personalmente coinvolto nella redazione della Convenzione delle Nazioni Unite dedicata alla diversità biologica e poi nella supervisione dei negoziati che seguirono l’adozione del protocollo di Cartagena sulla biosicurezza, un trattato internazionale molto discusso, messo a punto per regolare il commercio delle biotecnologie per l’agricoltura. Da quella duplice esperienza, gliene derivò sia l’occasione di osservare come e quanto divergessero percezioni e posizioni dei diversi paesi rispetto a rischi e benefici delle nuove tecnologie, sia il convincimento che i caratteri di quel dibattito meritassero un’analisi ravvicinata, sia la spinta a mettersi personalmente su questo sentiero di ricerca. Tra le molte pubblicazioni di Juma si staglia del resto anche un altro importante libro a tesi sull’agricoltura del continente africano vista come attività imprenditoriale basata sulla conoscenza (1). E l’approccio di innovation policy resta comunque al centro anche di questo suo ultimo e ulteriore volume, o meglio, al centro, vi resta la sfida posta alle policies dalle controversie legate alle nuove tecnologie e dalle tensioni che sorgono tra bisogno di innovazione e pressioni per mantenere continuità, ordine sociale e stabilità.
Il TITOLO
Lo studio della correlazione tra innovazione, crescita e sviluppo è certamente un tema classico del pensiero economico. Il titolo Innovation and Its Enemies, oltre a rivelare un’eco popperiana, è soprattutto una esplicita citazione, da parte dell’autore, di un saggio pubblicato nel 2000 dallo storico economico della Nothwestern Universitity Joel Mokyr, saggio a sua volta dedicato alle radici economiche e politiche dell’inerzia tecnologica (2). Juma condivide con Mokyr l’idea di fondo che il progresso tecnologico – e per estensione quello legato all’innovazione – sia un processo squisitamente politico che vale la pena di essere indagato nella lunga durata (3). Ma Juma allinea anche i caratteri di novità che esso manifesta nel presente: il passo accelerato preso dall’innovazione e l’intensità inedita dell’ansia sociale che accompagna questa accelerazione; la natura globale delle tendenze della tecnologia e delle più pronunciate disuguaglianze che essa genera tra i paesi e dentro i confini nazionali; la trasformazione parimenti globale dei modelli di business; la concomitante caduta della fiducia nei saperi esperti e nelle istituzioni pubbliche e private registrata dalla nostra epoca, con il suo corrispettivo scetticismo nella possibilità concreta di trovare soluzione ai principali problemi del mondo attuale a cominciare da quello posto dal cambiamento climatico e nella loro capacità di promuovere uno sviluppo inclusivo.
L’ARTICOLAZIONE DEGLI ARGOMENTI
Gli obiettivi dichiarati dal libro sono quindi molti, a cominciare dell’intento di esaminare le principali risposte sociali alla innovazione, le radici di queste risposte: da un lato i caratteri dei conflitti che sorgono tra i proponenti delle innovazioni da un lato e dall’altro le incumbent industries e più in generale gli interessi costituititi oggettivamente e/o soggettivamente danneggiati dal cambiamento.
L’indagine è portata sulle cornici di apprensione attorno ai rischi posti dall’innovazione ai valori morali, alla salute umana e alla sicurezza ambientale, e sulle ecologie istituzionali che emergono dalle tensioni innescate dall’innovazione.
Juma parte dallo stilizzare alcune premesse: ogni adozione di nuova tecnologia, per quanto salutata con favore da alcuni, innesca sempre una qualche risposta sociale di freno da parte di altri; molte delle controversie che ne derivano sono espresse nella forma della percezione e la maggior parte dei dibattiti che vi si sviluppano attorno non sono necessariamente guidati da valutazioni empiriche di tali rischi, ma dalle loro percezioni pubbliche, in particolare dalle forme materiali e intellettuali che prendono i sentimenti di paura che vi sono collegati, dai bias che influenzano gli atteggiamenti e le disposizioni verso l’innovazione.
Il libro inquadra quindi la divaricazione tra percezioni ed evidenza nella cornice più generale dei processi di apprendimento sociale, in cui le forme della leadership e quelle della comunicazione rivestono un ruolo importante e in cui quelle del public engagement e degli scientific advisory boards possono svolgerlo diventando aspetti fondanti della governance democratica (oppure possono mancarlo mettendola a repentaglio).
Per spiegare le radici della resistenza all’innovazione, il libro chiama in causa fattori e dinamiche non specifiche del cambiamento tecnologico ma più generalmente attinenti al cambiamento culturale e alla storia ed epistemologia della scienza.
Rifacendosi alla teoria culturale del rischio e agli studi sulla diade “purezza e pericolo” portati avanti dall’antropologa Mary Douglas a partire dagli anni ’60, Juma li mette in dialogo con le più recenti ricerche epidemiologiche sulla presa delle pseudoscienze e sui meccanismi di rinforzo che ne alimentano i processi di diffusione. Insiste quindi sulla forza dispiegata da quelle credenze umane che sono più sfidate da determinate innovazioni; credenze che a loro volta innescano risposte e comportanti automatici legati a paure e fobie radicati nella storia della evoluzione; credenze che attingono a intuizioni cognitive profonde in modo immediato, un modo che è invece precluso alle affermazioni basate sull’evidenza e sull’oggettività. E ne conclude: “the real discrepancies between acceptable scientific risks and the adoption of new products cannot be addressed by providing additional information or logical reasoning […]. Trying to counter myths or use scientific evidence on a community that is relying on such psychological or cultural responses only helps to entrench prior beliefs” (p. 25).
Come ulteriore elemento di spiegazione della resistenza all’innovazione, Juma mette però in gioco i fattori su cui si è concentrato il paradigma di teoria comportamentale delle decisioni aperto dalla prospect theory di Kahneman e Tversky: la riluttanza degli individui a rompere con abitudini e routines consolidate (molto più difficili da cambiare rispetto agli atteggiamenti, che possono essere socialmente contagiosi); le forme dell’avversione al rischio e in particolare la tendenza ad attribuire più peso alle perdite potenziali rispetto ai potenziali guadagni, tendenza che genera due bias molto comuni: la sottovalutazione dei rischi dell’inazione, l’assunto in altre parole, che lo status quo sia libero da rischi e che l’omissione sia la scelta migliore; gli effetti di framing, ossia di influenza selettiva sulla percezione dei significati, che incoraggiano alcune interpretazioni e ne scoraggiano altre.
LE LEZIONI DA APPRENDERE
Questo libro è attento anche alla costruzione della political empathy correlata all’innovazione, a come i movimenti sociali riescono a confezionare versioni strategiche della realtà con l’obiettivo di mobilitare le proprie platee attorno a determinati significati che includono cause e soluzioni, a orientare il dibattito rovesciando l’onere della prova sull’innovazione attraverso l’appello al principio di precauzione, e spesso a mascherare dietro preoccupazioni relative all’ambiente, alla salute e alla sicurezza umana, a condivisi valori etici, quelli che sono anche squisiti interessi commerciali. Con il risultato che questi interessi costituiti vengono ad essere protetti da parte di aree sociali molto più ampie di quelle che sarebbero altrimenti direttamente coinvolte da considerazioni esclusivamente economiche.
Calestous Juma aspira a offrire indicazioni di policy. In particolare indicazioni focalizzate sul public engagement legato alle controversie tecnologiche. Una di queste concerne il come l’educazione pubblica possa essere resa più adeguata a studiare e a comprendere quali sono le fonti della resistenza all’innovazione e quali dinamiche esse alimentano. Juma riporta i risultati di alcune survey per metter in guardia sul fatto che molti progetti pubblici di educazione all’innovazione falliscono perché implicitamente assumono che la propria udienza vada emendata in primo luogo dall’ignoranza. E e che sia quindi l’ignoranza (e/o la cattiva informazione) il principale ostacolo all’adozione delle nuove tecnologie, trascurando che in realtà sono spesso proprio segmenti molto alfabetizzati delle società a esprimere le avversioni più nette (si stagliano gli esempi dei prodotti alimentari transgenici e l’ambito delle vaccinazioni). Quindi raccomanda: “Public education should therefore have higher aims of enhancing the legitimacy and quality of risk assessment processes. Ultimately, the goal should be to manage risk perception and foster trust. Such efforts should be science-based and many include working with national regulators in institutionalizing trust” (p. 307).
Se c’è una parte debole in questo interessante saggio è proprio la formulazione ottativa di queste raccomandazioni, una formulazione che resta vaga, che non entra nel disegno delle policy stesse. Questo vale anche per le “lezioni da apprendere” che sono sintetizzate nell’ultima sezione del volume e che riguardano il multiplo fronte delle innovate responsabilità e funzioni della leadership e della technological governance di fronte a processi di innovazione che oggi procedono su scala globale e a passo sempre più rapido. Tre sono le aree dove è più facile congetturare la cogenza di un intervento: il procedere dell’automazione e robotizzazione dei lavori più ripetitivi; il campo della biologia sintetica e quello della trasformazione tecnologica della medicina e della cura della persona. E proprio l’accelerazione esponenziale di questi processi e il gap che si è aperto da pochi decenni tra il depositarsi degli effetti delle nuove tecnologie e la capacità di supervisione e controllo intellettuale, etica e legale di questi effetti (il cosiddetto pacing problem) a indicare, secondo l’autore, l’insufficienza di ogni approccio che rimanga ancorato a visioni lineari del mondo. Juma afferma la necessità che i nuovi processi regolativi si sviluppino in modo “adattivo e flessibile” da solide basi empiriche e prevedano analisi sistematiche in fase preparatoria e rigorosi sistemi di monitoraggio e sanzionamento ex post. Ma il lettore resta a chiedersi come non possano invece profilarsi scenari di ondate cicliche di disinformazione e tecnopanico (4)e come le proposte del libro possano collocarsi tra democrazia e autocrazia, nuove derive populiste e ruolo dei social media.
NOTE
1. Calestous Juma, The New Harvest, Agricultural innovation in Africa, Oxford-NewYork, Oxford University Press 2011 (torna al testo).
2. Joel Mokyr, Innovation and Its Enemies. The Economic and Political Roots of Technological Inertia, in Mancur Olson, Satu Kähköhnen eds., A Not-so-dismal Science: A Broader View of Economies and Societies, Oxford-NewYork, Oxford University Press 2000 (torna al testo).
3. Si veda la recensione di Joel Mokyr a Innovation and Its enemies, disponibile sul sito EH.net (torna al testo).
4. Si veda, anche per le molte indicazioni di approfondimento bibliografico dei temi di innovation policy, il commento dedicato a questo libro da Adam Thierer, ricercatore del Mercatus Centre della George Mason University, apparso sul sito Techliberation.com (torna al testo).
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