Gabriele Giacomini intervista Paolo Mancini. Perugia, 2 maggio 2017.
“I nuovi media aumentano la frammentazione e la polarizzazione. Oggi una piazza in cui incontrarsi tutti non esiste più”
La possibilità di parlare direttamente agli elettori, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, incentiva i politici a sincronizzarsi sempre più con le idee, con il linguaggio, con i valori già condivisi dai cittadini. Il rischio? Che i partiti non costituiscano più sedi di elaborazione, indebolendo la funzione educativa della politica.
I nuovi media hanno anche altre importanti conseguenze: aumentano la frammentazione e la polarizzazione dell’opinione pubblica. Per frammentazione si intende la crescita del numero di fonti di informazione, ognuna della quali si indirizza ad un proprio specifico segmento di pubblico. Da un lato ciò offre la possibilità di parlare alle diverse culture. Dall’altro lato il pubblico finisce per suddividersi in molte nicchie, in “camere dell’eco”, polarizzando quindi le opinioni.
Una volta, nella piazza, cittadini di sinistra e di destra si incontravano e discutevano, anche aspramente. Ma oggi questa piazza non esiste più, esistono tante piazzette dove i cittadini si radunano, separati fra loro.
Questa è la seconda di quattro interviste di Gabriele Giacomini sul rapporto tra democrazia e digitalizzazione della comunicazione.
1. Viviamo in una democrazia ibrida. Intervista a Ilvo Diamanti.
2. Oggi una piazza in cui incontrarsi tutti non esiste più. Intervista a Paolo Mancini.
3. La democrazia ha bisogno di élite. Intervista a Angelo Panebianco.
4. Internet è un nuovo strumento di partecipazione alla politica. Intervista a Gianpiero Mazzoleni.
Trascrizione
Gabriele Giacomini:
Negli ultimi anni si parla molto di populismo. Che ne pensa?
Paolo Mancini:
Oggi tutti parlano di populismo, di attaccare il populismo, di battere il populismo. Io non penso che questo rischio sia così diffuso. Il fatto è che oggi la possibilità di parlare direttamente all’elettore, al cittadino, fa sì che non si parli più alla comunità degli addetti, che non si parli più ad un pubblico già socializzato alla politica, ma che si parli al cittadino seduto sul divano. È questo populismo? Non necessariamente, secondo me. Può essere uno stile che sta prendendo piede, però definire gran parte degli attori politici come populisti ritengo che sia sbagliato.
Oggi il rapporto diretto, quello che io ho chiamato l’appello diretto al cittadino, fa sì che ci si debba sintonizzare sulle idee, sul linguaggio, sui valori già condivisi dal cittadino. E non può non essere così. Mény ha scritto un libro sul populismo in cui diceva che saremo costretti a convivere con il populismo. Secondo me questo sarà sempre più vero.
GG.
Qual è il ruolo dei media digitali in questo appello diretto al cittadino?
PM.
Oggi i media digitali sono tali in quanto sono caratterizzati da quello che tutti conosciamo: la disintermediazione, cioè un rapporto diretto tra fonte e cittadino che fa meno dell’intermediazione di qualsiasi altra agenzia. Le agenzie di stampa, per esempio. Oggi delle agenzie di stampa non c’è più bisogno perché il politico che vuole far arrivare un messaggio lo fa arrivare tramite Facebook. Poi lo riprende anche l’agenzia di stampa, ma Facebook raggiunge subito il cittadino, Facebook raggiunge subito il giornalista. Allora l’assenza di intermediazione fa sì che ci sia questo rapporto diretto sempre più frequente tra cittadino e fonte. Questo non può che favorire quello che noi oggi vogliamo chiamare populismo, nel senso che non ci si muove più all’interno di agenzie di intermediazione.
È come quando organizzo un viaggio. Io viaggio molto e continuo ad usare un’agenzia di viaggio per fare i biglietti. Ma penso che il ruolo delle agenzie di viaggio vada scomparendo perché quasi tutti, salvo me, fanno i biglietti dell’aereo direttamente in rete. Non c’è necessità di andare all’agenzia di viaggio. La stessa cosa succede con il discorso della politica. C’è questo rapporto diretto tra fonte e fruitore, tra fonte e consumatore, tra fonte e cittadino. E questo ovviamente cambia il linguaggio e in parte cambia anche i valori.
Il rischio è certamente che la politica perda quella funzione educativa che ha in un certo senso, la sua caratteristica di innalzare il livello di maturità del cittadino. Perché corre questo rischio? Perché è ovvio che l’appello diretto significa mettere in sintonia chi parla e chi ascolta, e probabilmente chi parla tende ad adattarsi sempre di più ai valori diffusi. È quello che sta succedendo con Trump. Non so se Trump sia populista, perché dietro Trump ci sono delle idee forti sull’economia, sul ruolo degli imprenditori. Questo è populismo? Non necessariamente. Però che Trump decida di fare un comizio mentre i giornalisti sono radunati a Washington nel loro pranzo annuale è sintomatico. È l’esempio evidente di come si possa scavalcare l’intermediazione. Trump sembra dire: “dei giornalisti che me ne faccio? Ne faccio anche a meno. Preferisco stare qui, tra la gente, e non mescolarmi ai giornalisti che in smoking si sono radunati al circolo della stampa a Washington o a qualche hotel”. Trump sa benissimo che non ha più bisogno della mediazione dei giornalisti, e la società del futuro avrà sempre di più questa caratteristica.
Allora il rischio qual è? Certamente la perdita di una funzione educativa, di maturazione. Che le strutture di mediazione quali erano i partiti politici non costituiscano più sedi di elaborazione. Non è un caso che anche in Italia accanto ai partiti politici ci sia stato uno sviluppo drammatico, strumentale delle Fondazioni, dei think tank. A queste strutture spetta oggi, in una società differenziata, il compito di elaborare delle politiche.
GG.
I giornalisti quindi non servono più?
PM.
È una domanda da cento milioni. Io penso che le tante opportunità di comunicazione alla fine rendano necessaria un’attività di selezione, perché qualsiasi cittadino non è più in grado di poter gestire l’enorme mole di informazione che circola in rete. C’è bisogno di qualcuno che la selezioni per noi e probabilmente questo qualcuno non può che essere il giornalista, un nuovo giornalista.
Io non penso che il mestiere del giornalista sia finito, ma che debba cambiare radicalmente. Ancora non riesco a vedere in che modo, quale sarà la direzione.
GG.
E i partiti? Estinti in favore a leader e think thank?
PM.
No, io ho scritto che sono necessari. Strutture organizzate sono necessarie per due motivi. Primo, per l’elaborazione delle politiche. Le fondazioni, i think tank producono idee rispetto alle politiche da intraprendere ma poi spetta al partito far diventare queste idee progetti legislativi. Secondo, sono necessari per l’organizzazione del conflitto della competizione politica. Una competizione politica basata su un’estrema frammentazione al livello degli singoli individui non è gestibile.
Non ci facciamo illusioni, c’è bisogno di forme di aggregazione. E forse anche di forme di rappresentanza degli interessi. La democrazia diretta non è possibile, c’è poco da fare. Ci sono assolutamente delle necessità di aggregazione degli interessi, dei punti di vista.
Servono organizzazioni impegnate nella ricerca del consenso e nella ricerca della negoziazione. La democrazia non può che essere negoziazione di interessi, e perché ci sia negoziazione alcune strutture organizzative sono assolutamente necessarie. Non è pensabile una frammentazione degli interessi e che ognuno negozi il proprio punto di vista, il proprio interesse singolo.
GG.
In un suo libro parla di post-partito. Che cos’è?
PM.
È quella forma di organizzazione che travalica i partiti di massa che abbiamo conosciuto. I partiti di massa dell’Ottocento e del Novecento sono finiti – questo è il mio punto di vista – perché appunto i media, insieme ad altre trasformazioni, hanno messo i competitori politici in grado di lanciare il proprio appello diretto ai cittadini. Indipendentemente da strutture di mediazione. È questa la novità, nata prima dalla televisione e poi esasperata da internet. È questa la grossa rivoluzione che cambia radicalmente l’ambiente della politica.
Il post-partito è qualcosa che ci dobbiamo inventare tenendo conto che l’ambiente della comunicazione, e quindi necessariamente l’ambiente della competizione politica, sono cambiati rispetto all’ambiente politico dell’Ottocento e del Novecento, nel quale circoli più o meno chiusi elaboravano idee che poi venivano trasmesse. Oggi l’appello diretto rende queste strutture superflue.
GG.
In questo contesto, le élite che spazio trovano?
PM.
Il nuovo sistema dei media è caratterizzato da un’alto livello di frammentazione, su questo non c’è dubbio. Che cosa significa frammentazione? Aumento incredibile delle numeri delle fonti di informazione e segmentazione del mercato, nel senso che ciascuna fonte di informazione oggi si indirizza ad un segmento, ad una nicchia di pubblico. All’interno di questa frammentazione i circuiti dell’opinione pubblica si segmentino. Allora c’è certamente un segmento di pubblico elitario e c’è un segmento di pubblico più popolare. Non si può dire che il popolare prevalga sull’elitario o che l’elitario prevalga sul popolare, ci sono tante nicchie differenziate.
Certamente il compito delle élite è quello di elaborare idee, non necessariamente all’interno delle agenzie tradizionali della socializzazione. Non più all’interno dei partiti politici, per esempio. Ci sono luoghi che sono deputati all’elaborazione delle policy, all’elaborazione da parte delle élite. E queste appunto sono le nicchie, le fondazioni o altre organizzazioni che non hanno il compito di costruzione del consenso, o meglio che c’è l’hanno ma è secondario rispetto alle elaborazioni delle idee nell’ambito di un mercato dell’opinione pubblica frammentato. Dove frammentato significa anche un livello elevato di polarizzazione. Perché in un sistema di media frammentato, in un sistema di pubblico segmentato, ogni pubblico si riferisce ad un proprio segmento di mercato a cui cerca di parlare, esasperando sempre di più le idee già condivise e quindi polarizzandosi sempre di più.
GG.
Ci fa un esempio di frammentazione?
PM.
L’esempio che faccio sempre è quello di Walter Kronkite, grande anchorman di Cbs. Molti dicono che sia stato Kronkite a far perdere agli americani la guerra in Vietnam, perché quando ha cominciato a diffondere la propria idea che l’America stava perdendo la guerra in Vietnam questa idea è diventata egemone. Ma perché è riuscito a fare ciò? Perché il sistema non era così frammentato come lo era oggi, e Cbs raggiungeva un’audience di massa. Perché quello che diceva New York Times era la Bibbia. Oggi questa possibilità non c’è più perché accanto al New York Times esistono tanti altri media.
Accanto alla Cbs esiste Fox News che ha un punto di vista diverso. Fox News da questo punto di vista esemplifica la frammentazione e la polarizzazione. Frammentazione nel senso che c’è un’alto numero di fonti di informazione, c’è un alto numero di televisioni, e ogni televisione si indirizza ad un proprio segmento di pubblico. Il segmento di pubblico che Fox News ha individuato, forse non dal punto di vista politico ma dal punto di vista di mercato, è particolare. Fox News ha inteso parlare agli americani colpiti dall’11 settembre, agli americani che non vedevano di buon occhio un nero alla Casa Bianca, agli americani che non volevano accettare la Health Care Reform. Ha parlato a questo pubblico, non perché Fox News avesse una posizione politica, ma perché quello era il pubblico che Cnn aveva lasciato libero. Allora Fox News ha scelto il pubblico che appunto voleva chiudere le frontiere all’Islam, che pensava Obama fosse mussulmano, che accusava la riforma della sanità di introdurre elementi di socialismo. Si trattava del pubblico al quale Cnn non aveva parlato, a cui non poteva parlare.
Questa dinamica ha esasperato il livello della polarizzazione della società americana. Come l’ha esasperata ancora di più poi il sistema di media digitali.
GG.
Vecchi e nuovi media, televisioni ed internet. Che rapporto hanno tra di loro?
PM.
Una delle idee chiave per capire quello che sta succedendo è quella di Andrew Chadwick, il sistema ibrido. Viviamo in un sistema ibrido in cui accanto ai media tradizionali ci sono i nuovi media. Gli uni e gli altri non possono più esistere separatamente. Da un lato i nuovi media riescono ad esistere perché ci sono i media tradizionali che danno spazio e che ne ampliano la voce.
Grillo e il Movimento Cinque Stelle non hanno successo perché sono basati sulla comunicazione su internet. Hanno successo perché una comunicazione fatta quasi esclusivamente su internet è diventata storia nei media tradizionali. Dall’altro lato i media tradizionali non possono più vivere oggi senza i nuovi media. Nel senso che i nuovi media, Facebook, i blog, Twitter sono diventati la fonte delle storie dei media tradizionali.
Questo è il sistema ibrido: gli uni e gli altri si danno da mangiare reciprocamente. Quali sono le somiglianze e quali sono le differenze fra vecchi e nuovi media? Nei nuovi media la capacità di segmentazione del mercato, quindi di parlare a nicchie di pubblico, è molto più elevata che non nei media tradizionali. Ma stiamo assistendo ad un processo simile anche nei media tradizionali, che sempre di più si legano ai nuovi media.
Ad esempio, vediamo élite che parlano di élite nei nuovi media ma anche nei media tradizionali. Da questo punto di vista non avrei paura a fare il caso di La7. La7 ha un pubblico elitario, non c’è ombra di dubbio, il pubblico di coloro che sono già socializzati alla politica. Tant’è vero che fa due telegiornali, il telegiornale per coloro che sono socializzati alla politica e poi Tg cronache che è per coloro che non sono socializzati alla politica, che ha però un’importanza minore. La7 ha individuato un suo pubblico, certamene elitario rispetto a quello delle altre televisioni italiane. Quindi anche nei media italiani esiste questo processo della segmentazione, ed è sempre più forte e marcato. Lo è sia nel bene che nel male. Da un lato non ho un atteggiamento negativo verso il cambiamento che sta avvenendo nei sistema dei media: la frammentazione mi piace, è importante, offre possibilità di parlare a tutti, alle diverse culture. Da un altro lato il rischio che vedo è quello della polarizzazione, sia per l’incremento delle fonti di informazione sia perché i nuovi media costituiscono l’echo chamber, le camere dell’eco.
Questo vuol dire sentire la propria voce, sentire la voce di tutti quelli che la pensano come la penso io, e questo aumenta il livello della polarizzazione. Un volta con un mio amico discutevamo la piazza. La televisione degli anni ’60, ’70, ’80 rappresentava la piazza. Che significa la piazza? Ci si incontrava e si discuteva. In piazza cittadini di sinistra e cittadini di destra si incontravano e discutevano.
Oggi questa piazza non esiste più. Esistono tante piazzette dove si radunano quelli di sinistra e quelli di destra, dove si radunano i Trumpiani e i Clintoniani. E questo mette a rischio la convivenza, mette a rischio la negoziazione. Ciò è importante: in piazza si discuteva, si litigava, magari si faceva pure a cazzotti, però alla fine un accordo emergeva, c’era un punto di mediazione. Oggi se ognuno parla nella propria echo chamber non ha più la possibilità di dialogare con gli altri. È quello che è successo con Trump: due americhe hanno finito per non parlarsi. E poi ha vinto una delle due americhe. Non c’è la negoziazione, tant’è vero che Trump dice di non andare alla festa, al pranzo degli altri. Si fa il comizio per conto suo, dice di non aver bisogno di parlare con gli altri.
Significa che una piazza comune dove ritrovarsi, mediare, discutere le proprie posizioni, con il sistema frammentato non esiste più.
GG.
Come cambia quindi la partecipazione politica con i nuovi media?
PM.
Io non vorrei esagerare però certamente le possibilità di partecipazione crescono a dismisura. Non c’è ombra di dubbio che la possibilità di partecipare con le proprie idee, di essere presente in voce, esponendo il proprio punto di vista, sia enormemente aumentata. Questo lo si notava da tanti anni. Non vorrei esagerare perché poi è anche vero che su internet circolano le fake news o il gossip, quello che si potrebbe chiamare – uso una parola che forse non si dovrebbe utilizzare – il cazzeggio. Nel senso che, su internet, più che partecipazione attiva nella vita politica c’è molto spesso il cazzeggio. Giocare con le parole a proposito della politica, del sesso o di qualsiasi altra cosa.
Quindi più opportunità di partecipazione, ma anche certamente più opportunità di cazzeggio, di fuggire, di usare la rete come il luogo del pettegolezzo, del divertimento gratuito o anche dell’insulto. Quello che la Presidente della Camera Boldrini lamenta è certamente vero, quando dichiara di voler fare i nomi di tutti quelli che la hanno insultata.
C’è tanta partecipazione ma c’è anche tanto altro, e questo è certamente un rischio: il rischio che le grandi opportunità offerte dalla rete vengano utilizzate, uso un termine forse troppo generico, impropriamente per obiettivi che non vanno nella direzione di una più compiuta democrazia.
GG.
Cosa ne pensa della trasparenza politica?
PM.
È essenziale. Mi sto interessando molto di media e di politica nei paesi dell’Europa centro-orientale, di diffusione della corruzione, di minacce ai giornalisti, di limitazione alla libertà dei giornalisti.
Quale è il problema principale? È che non si sa di chi sono i media. Alla fine il giornale appartiene ad un portiere, ad una casalinga dietro ai quali si nascondono altre persone, quindi non si sa quali sono gli interessi in gioco e questo è un problema gigantesco. Allora certamente la rete non fa che aumentare le possibilità di trasparenza.
GG.
Come cambia la trasparenza con le rete? È sempre utile e positiva?
PM.
Non c’è ombra di dubbio che un elevato livello di trasparenza limiti le possibilità di contrattazione. Qui dobbiamo essere pragmatici. Non perché si facciano degli scambi impropri, ma perché la contrattazione è necessaria. È la questione del mandato non vincolante: per raggiungere il miglior obbiettivo ho bisogno di negoziare, se tu mi stai a controllare ogni momento, questa capacità di negoziazione viene meno.
È anche vero che io non vedo tutta questa grande volontà o grande possibilità di assistere a tutte le assemblee pubbliche, come le giunte. Chi lo fa? Chi lo deve fare? È populismo dire “rendo la giunta aperta perché tutti possono controllare”. Ma chi sono questi tutti? Di solito a controllare è un pubblico ristretto, oppure un pubblico di mediatori che lo fa per conto di altri. Quindi non so se sia un falso problema. […]
Tu, politico, su questa legge che sancisce questo e quest’altro, come hai votato? Quanti lo sanno? È questo il problema reale della trasparenza. Non che la giunta diventi aperta, ma sapere cosa il rappresentante ha fatto, cosa ha votato. Da questo punto di vista ci sono alcune istituzioni che svolgono un lavoro esemplare. Le assenze o le presenze dei deputati alle sedute in rete: questo è un elemento di trasparenza in cui credo.
Brevi profili biografici:
Paolo Mancini è Professore ordinario di Sociologia delle comunicazioni presso l’Università degli Studi di Perugia. È autore di numerosi saggi in lingua italiana ed inglese, prevalentemente incentrati sul rapporto tra sistema della comunicazione di massa e sistema della politica e sullo studio delle campagne elettorali. Suoi articoli sono apparsi in “Theory and Society”, “European Journal of Communication”, “Communication”, “Journal of Communication”. Con il libro “Comparing Media Systems” (Cambridge University Press, 2004) ha vinto autorevoli premi internazionali.
Gabriele Giacomini è Dottore di ricerca in filosofia della mente presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e l’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Collabora con il Centro studi di Etica e politica del San Raffaele e con il Laboratorio di Ricerca sui Nuovi media dell’Università di Udine. La sua ultima pubblicazione è “Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico” (Mimesis 2016).
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