La cosiddetta ricerca traslazionale ha assunto, nel corso degli ultimi anni, una sempre maggiore centralità nei paesi che fanno della conoscenza e dell’innovazione fattori strategici di crescita e sviluppo.
Comunemente definita come interfaccia tra la ricerca di laboratorio e quella clinica, o come momento sinergico, quando non di vera e propria sintesi, tra ricerca di base e applicata, la ricerca traslazionale prende originariamente le mosse nell’ambito della ricerca sul cancro nel corso degli anni ’90, per poi diffondersi in molteplici ambiti di ricerca nel corso del decennio successivo, costituendosi – allo stesso tempo – tanto come disciplina autonoma dotata di un proprio impianto metodologico e peculiari oggetti di indagine (prodotto quindi di uno specifico processo di professionalizzazione), quanto come paradigma strategico-politico in grado di informare la concettualizzazione e l’organizzazione delle politiche scientifiche nelle società tardo-capitalistiche (1).
Interi campi di ricerca, infatti, sono intrinsecamente caratterizzati da un approccio traslazionale, nel momento in cui la conoscenza sempre più estesa di complessi processi biologici è resa immediatamentefunzionale allo sviluppo di tecnologie innovative per lo sviluppo di nuovi farmaci (è il caso dell’utilizzo di cellule staminali paziente-specifiche nello screening di nuovi composti, o in fase I dei trial clinici) o per interventi terapeutici di nuova generazione (quali ad esempio la terapia cellulare o tissutale, che prevedono l’utilizzo di cellule staminali per ottenere un effetto terapeutico, diagnostico o preventivo, e/o per "riparare" tessuti danneggiati o sottoposti a precoci processi degenerativi).
A uno sguardo analitico, gran parte delle politiche dell’innovazione biomedica contemporanee, che qui sotto brevemente richiamiamo, risultano caratterizzate da un elemento comune, e cioè dall’idea, ad esse soggiacente, che allo sviluppo esponenziale delle conoscenze inerenti meccanismi e processi biologici, non corrisponda un parallelo incremento dello sviluppo e della commercializzazione di nuove terapie.
Definiamo questa rappresentazione dell’innovazione biomedica "narrativa del gap traslazionale".
Tale narrativa presenta tratti marcatamente normativi nel prescrivere, contestualmente a tale rappresentazione, l’accelerazione della traslazione clinica come imperativo etico e sociale – e quindi come priorità politica. Ciò è tanto più rilevante e foriero di conseguenze in quanto si configura come vero e proprio immaginario sociotecnico (2): rappresentazione collettiva diffusa, condivisa da scienziati, policy-makers e pazienti, in grado di allinearne gli interessi e le aspettative reciproci e di orientare in accordo con essi lo sviluppo dell’innovazione biomedica.
Negli ultimi anni, infatti, sia nelle più avanzate bio-economie degli Stati Uniti, dell’Europa o del Giappone, sia, con sempre maggior frequenza, in quelle emergenti dell’Asia, ingenti risorse cognitive e materiali sono state impiegate nella riorganizzazione della ricerca, pubblica e privata, in direzione traslazionale.
A tale scopo, negli Stati Uniti, a partire dai primi anni 2000, il National Institutes of Health (il più grande ente pubblico di finanziamento della ricerca biomedica a livello mondiale), ha attuato una decisa svolta traslazionale (3,4), culminata nel 2011 con la creazione del Centro Nazionale per l’Avanzamento delle Scienze Traslazionali (NCATS – National Center for the Advancement of Translational Sciences) finanziato con circa 600 milioni di dollari ogni anno.
In Europa, accanto agli espliciti obiettivi traslazionali all’interno dei programmi comunitari di finanziamento alla ricerca e all’innovazione (FP7 e Horizon2020), spicca la creazione, nel 2008, del più grande consorzio pubblico-privato al mondo nel campo delle life sciences, l’Innovative Medicines Initiative (IMI), finanziato congiuntamente dalla Commissione Europea e dalla Federazione Europea delle Industrie Farmaceutiche (EFPIA). Tale iniziativa ha assunto un ruolo fondamentale nel finanziamento e nell’orientamento della ricerca farmaceutica a livello comunitario.
Tra gli obiettivi focali di tali processi riorganizzativi vi è la creazione di sinergie tra attori pubblici e privati – vale a dire, tra il momento upstream della ricerca accademica di base, volta a elucidare i meccanismi biologici soggiacenti la malattia, e quello downstream della ricerca applicata, finalizzata allo sviluppo di terapie e alla loro immissione nel mercato.
Tali sinergie hanno il duplice scopo dichiarato, da un lato, di rendere accessibile alla ricerca accademica il know how delle case farmaceutiche e, dall’altro, di avvicinare quest’ultime al luogo di concepimento dell’innovazione biomedica, al fine di contrastare il pluridecennale – e perdurante – declino della produttività della ricerca e sviluppo in campo farmacologico e delle applicazioni biomediche più in generale.
A tali sforzi finanziari e organizzativi corrisponde un cambiamento nel ruolo e nelle funzioni dello Stato che, sempre più frequentemente, assume il compito di rimuovere gli ostacoli regolativi allo sviluppo di nuovi farmaci e tecnologie biomediche. In particolare, se guardiamo ad esempio alle controversie sulla liceità morale della ricerca su materiale di origine embrionale umana, o alle discussioni in merito alla regolazione della sperimentazione clinica dei farmaci, una parte cospicua del dibattito ruota attorno all’impatto negativo che politiche restrittive in ambiti chiave della ricerca possono avere sulla rapidità con cui la scienza produce innovazione potenzialmente utile ai pazienti e alla comunità nel suo complesso.
Questo genere di preoccupazione è senza dubbio giustificata, sia sul piano politico che su quello etico, dalla necessità di dare risposta alle esigenze di salute della popolazione.
Tuttavia, non può passare inosservato che un’enfasi eccessivamente pronunciata sul potenziale terapeutico della conoscenza scientifica possa produrre effetti indesiderati. Ne richiamiamo brevemente due: in primo luogo obiettivi spiccatamente politici o commerciali possono compromettere l’indipendenza della comunità scientifica (e del mondo accademico più in generale) – principio sul quale si fonda gran parte dell’ethos della scienza moderna; in secondo luogo, ridurre – come alcuni propongono – le tutele nei confronti dei partecipanti alla ricerca clinica in nome dell’accelerazione traslazionale può significare un passo indietro rispetto agli standard etici faticosamente acquisiti a partire dal primo dopoguerra (in reazione alle atrocità commesse dalla medicina nazista e agli scandali di cui, ancora nei tardi anni ’60, si rese protagonista una parte della comunità scientifica anche in paesi di chiara cultura politica liberale come gli Stati Uniti).
In particolare, i codici e le convenzioni sviluppate nella seconda metà del Novecento per conferire alla ricerca clinica un orientamento etico prevedono che la valutazione del rapporto tra rischi e benefici relativi alla partecipazione ad uno studio clinico faccia capo a comitati etici indipendenti, e per questo il più possibile neutrali rispetto agli interessi legati allo sviluppo di un farmaco. Tuttavia, negli ultimi anni, si fa largo da più parti l’idea che la valutazione dei suddetti rischi spetti invece al paziente-partecipante e che dunque si debba tener conto della propensione al rischio dei soggetti interessati a partecipare alla sperimentazione.
Si configura in tal modo una redistribuzione in senso individualistico dell’onere della valutazione del rischio, la quale, nelle intenzioni di chi la sostiene, permetterebbe di ridurre il peso delle incombenze regolative e accelerare così la traslazione.
È dunque opportuno rimarcare che l’accelerazione della ricerca e della pratica traslazionale solleva questioni cruciali, in particolare riguardo all’innovazione responsabile (5), all’equa allocazione di risorse pubbliche, alle possibilità di accesso al servizio sanitario, e alla valutazione etica dei nuovi rischi per i partecipanti a innovative ricerche cliniche.
Ad esempio, poco sappiamo dell’impatto che terapie innovative potranno avere sui sistemi sanitari pubblici, e sulle possibilità di accesso dei cittadini alle cure, sebbene l’evidenza empirica suggerisca che tali nuovi terapie risultino per lo più estremamente costose, e accessibili solamente a una ristretta minoranza di pazienti. Allo stesso tempo, ad ingenti investimenti pubblici nel quadro di innovativi modelli di governance, quali ad esempio i partenariati pubblico-privato (PPP), non sempre corrisponde un’adeguata capacità di indirizzo e controllo da parte dei soggetti pubblici.
D’altro canto, quale sfondo di senso che definisce le coordinate all’interno delle quali l’innovazione viene concepita e attuata, il framework normativo del gap traslazionale risulta, in se stesso e nelle sue implicazioni, per lo più inesplorato, specialmente là dove esso mette capo a profonde riconfigurazioni del sapere e della pratica biomedica che, per via della centralità che essi mantengono nelle società contemporanee, svolgono un ruolo "costituzionale" nel definire l’essenza del nostro vivere associato. In tale contesto, infatti, le conseguenze benefiche dell’accelerazione della traslazione clinica appaiono per lo più auto-evidenti, non bisognose perciò di giustificazione e attenzione critica.
Ad oggi, le questioni poc’anzi evidenziate e la loro relazione causale con l’idea di gap traslazionale sono rimaste, tanto nella ricerca accademica quanto nel dibattito pubblico, largamente inevase. Di conseguenza, contestualmente ai summenzionati cambiamenti regolativi e organizzativi, messi in atto per far fruttare al meglio il potenziale traslazionale della ricerca biomedica (in campi quali la medicina personalizzata, la genomica, la medicina rigenerativa), una maggiore attenzione critica deve essere dedicata alle sfide etiche, sociali e politiche poste dall’impresa traslazionale, e dunque all’analisi degli assunti normativi che sostengono la narrativa e l’immaginario sociotecnico del gap traslazionale.
Proprio dal riconoscimento di tali problematiche prenderà avvio un workshop, organizzato in collaborazione da un gruppo di studiosi provenienti dall’Istituto Nazionale Francese di Sanità (Inserm), dal gruppo di ricerca in Biomedical Humanities dell’Università di Milano e dell’Istituto europeo di oncologia (IEO), dall’Università di Harvard e dall’Università di Vienna. L’evento, che avrà luogo grazie al sostegno della Fondation Brocher, e al supporto della Fondazione Giannino Bassetti, si svolgerà a Ginevra il prossimo 18 e 19 maggio.
Servendosi degli strumenti teorici sviluppati nell’ambito dei Science, Technology & Society Studies (ST&S), e attraverso un confronto interdisciplinare che coinvolgerà tanto ricercatori accademici quanto esperti di svariati settori (decisori pubblici europei e statunitensi, scienziati, bioeticisti), tale convegno prenderà le mosse dal riconoscimento che un dibattito sulle questioni poste dalla svolta traslazionale in biomedicina non può essere ulteriormente rimandato, e che tali questioni debbano essere poste al vaglio della critica, divenendo oggetto di un’analisi accurata e di un dibattito pubblico il più ampio possibile.
Note:
1. Keating, P., & Cambrosio, A. (2003). Biomedical platforms: realigning the normal and the pathological in late-twentieth-century medicine. MIT Press. (torna al testo)
2. Jasanoff S, Kim S-H. Dreamscapes of Modernity: Sociotechnical Imaginaries and the Fabrication of Power. Chicago Univ. Press; Forthcoming. (Torna al testo)
3. Zerhouni E. The NIH Roadmap. Science. 10 marzo 2003;302(5642):63-72. (Torna al testo)
4. Zerhouni EA. Translational and Clinical Science — Time for a New Vision. N Engl J Med. 2005;353(15):1621-3. (Torna al testo)
5. Owen R, Bessant J, Heintz M, curatori (2013). Responsible Innovation: Managing the Responsible Emergence of Science and Innovation in Society. 1 edition. Chichester, West Sussex: Wiley-Blackwell. (Torna al testo)
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(immagine: Smoke art – Cubes to smoke di MattysFlicks da Flickr)
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