Il vaccino più promettente contro il virus di Ebola, attualmente sperimentato negli Stati Uniti, in Inghilterra, nel Gambia e nel Mali, è frutto di una tecnologia italiana. A metterlo a punto è stata la start-up Okairos, fondata nel 2007 come spin-off della Merck, da Riccardo Cortese, medico napoletano, specializzato a Berkeley e AD della società, Alfredo Nicosia, chimico e direttore scientifico, e dai biologi Stefano Colloca e Antonella Folgori, che svolgono un ruolo chiave nel coordinare le attività di ricerca. Acquisita lo scorso anno dalla GlaxoSmithKline, Okairos è il bell’esempio di un successo costruito attorno a un progetto innovativo in un settore, quello del biotech, che generalmente non trova terreno fertile in Italia.
Abbiamo chiesto a Riccardo Cortese di raccontarci la storia della sua azienda.
Riccardo Cortese
Qual è stata l’idea di partenza?
Lavorando in Merck eravamo stati capaci di produrre importanti farmaci soprattutto nel campo dell’Aids e dell’epatite C. Ci venne l’idea di iniziare lo sviluppo di un nuovo tipo di vaccino basato su vettori virali, capace di scatenare la risposta delle cellule del sistema immunitario, a complemento di quelli più tradizionali, che stimolano solo la produzione di anticorpi. La Merck non era interessata al progetto, ma noi sapevamo di avere il know-how per ottenere importanti risultati in quel settore e così decidemmo di proseguire con una nostra azienda. La Merck è stata generosa perché non ci ha imposto obblighi onerosi e ci ha concesso lo sfruttamento dei brevetti. In un secondo tempo questo è stato molto importante, perché un’azienda biotech che si lancia sul mercato con grossi obblighi nei confronti di altri non può operare agevolmente.
I quattro fondatori sono tutti scienziati. È stato difficile gestire la parte di pianificazione economica e di management?
Non c’è bisogno di professionisti del business per creare una start-up, basta avere qualche conoscenza economica di base, che noi avevamo perché provenivamo tutti dal mondo delle aziende. Non siamo un’eccezione in questo: in Italia il 90 per cento delle start-up che operano nelle biotecnologie nasce all’interno di aziende e solo il 10 per cento è rappresentato da spin-off universitari. In tutti i casi, all’inizio ciò che conta è avere una chiara percezione di quello che si vuole fare, mentre l’aspetto economico diventa importante dopo, quando si inizia a pensare a una exit strategy. Il 99 per cento delle aziende muore in questo secondo stadio, quando finiscono i soldi dei venture capitalist, proprio perché la pianificazione non è efficace.
I laboratori di Okairos sono a Napoli, il cuore produttivo è a Pomezia, ma la sede legale è in Svizzera. Perché?
A Basilea c’è la sede legale e decisionale, il consiglio di amministrazione e il consiglio scientifico. Abbiamo cercato capitali in Italia, ma senza successo. Il problema da noi è che ci sono pochi investitori, e pochissimi sono preparati sul biotech. La Svizzera invece è un terreno molto più fertile e per questo siamo andati lì. Abbiamo potuto avviare l’attività grazie a due venture capitalist svizzeri e a uno tedesco.
Nel vostro caso, quali sono stati gli elementi determinanti nella pianificazione?
Il nostro obiettivo era sviluppare una piattaforma tecnologica che potesse essere usata per molti vaccini. Ebola non è stata la prima idea, e negli anni abbiamo lavorato anche all’Aids, all’epatite C e ad altro, con risultati importanti. Fin dall’inizio, pensando al futuro, abbiamo instaurato collaborazioni con importanti istituzioni ed enti il cui valore scientifico è riconosciuto a livello internazionale, come gli NIH statunitensi, l’Università Johns Hopkins
e quella di San Francisco. La scelta di condividere i risultati era un rischio, perché ci esponeva a critiche e una bocciatura da parte di un importante istituto ci avrebbe molto penalizzato. Per questo, al contrario di noi, molte start-up che operano nel settore delle biotecnologie non si espongono. D’altro canto avere invece pareri positivi sul nostro lavoro da parte di enti riconosciuti e indipendenti poteva costituire un valore aggiunto. Anche in seguito, quando occorrerà far approvare i prodotti dagli enti regolatori (Fda per gli Usa ed Ema per l’Europa), il fatto di aver collaborato con gli NIH avrà certamente un peso. Infine, le sperimentazioni dei vaccini che volevamo sviluppare, e in particolare quello per Ebola, possono essere fatte in pochissimi laboratori al mondo, perché occorrono standard di sicurezza elevatissimi. La collaborazione con gli NIH è stata determinante anche per questo.
I risultati scientifici sono arrivati e lo scorso anno siete stati acquisiti dalla GlaxoSmithKline…
Sì. Il modello di business di una start-up nel settore delle biotecnologie prevede che ci si quoti in borsa, oppure che si venda il prodotto a qualcuno. Noi abbiamo scelto la seconda strada, forti anche dei risultati ottenuti sul piano scientifico e dei pareri positivi espressi su di noi da esperti indipendenti di fama internazionale. In questa fase si sono visti i frutti di tutta l’impostazione precedente. Abbiamo avuto contatti con diverse company e la GSK è stata quella che ci ha fatto l’offerta migliore.
Ovvero?
Abbiamo venduto i diritti commerciali e i brevetti per 260 milioni di euro cash. Inoltre, ci siamo impegnati a far lavorare le nostre strutture per conto della GSK per altri tre anni.
Progetti futuri?
Abbiamo fondato una nuova azienda con la quale vogliamo sviluppare terapie antitumorali basate sui vettori virali. Con l’esperienza maturata in questi anni, siamo certi di poter ottenere risultati ancora migliori.
Come funziona il vaccino contro Ebola
La piattaforma tecnologia sviluppata da Okairos è una via di mezzo fra un vaccino e una terapia genica. Come quest’ultima, usa il genoma di virus modificati per essere innocui, modificandolo con l’introduzione del Dna di alcune proteine dell’agente infettivo contro cui il vaccino deve agire. Una volta nell’organismo, queste proteine vengono effettivamente prodotte dalle nostre cellule, e sono in grado di scatenare la risposta del sistema immunitario. Più in particolare, il sistema immunitario inizia a produrre linfociti T, capaci di sconfiggere l’agente patogeno, qualora questo entrasse nell’organismo. Il vaccino contro Ebola, testato su macachi, ha protetto il 100 per cento degli animali per un mese con una sola inoculazione. Se alla prima iniezione si fa seguire un richiamo, la protezione totale arriva a 10 mesi.
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