Contesti e identità della ricerca in Europa.
La società contemporanea viene oramai definita “società della conoscenza” tout court. L’Europa stessa durante l’European Council tenutosi a Lisbona nel 2000 ha riconosciuto il ruolo fondativo della conoscenza come base e pilastro per la crescita economica. La conoscenza, dunque, si pone come protagonista indiscussa attorno cui ruotano non solo lo sviluppo economico ma anche politico e sociale contemporaneo. In questo sfondo diviene sempre più importante cercare di comprendere in maniera più approfondita e riflessiva le dinamiche che la generano e le figure che, attraverso il lavoro di ricerca, concorrono a costruirla. Questo può permetterci di comprendere più in profondità i mutamenti che oggi stanno avvenendo all’interno della nostra società e il ruolo cruciale che un’innovazione responsabile sta assumendo.
La scienza moderna occidentale, il cui sviluppo è cominciato a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento in Europa, si è sempre concepita in termini realisti, ossia, utilizzando una metafora, come un edificio maturo, che aveva già dietro di sé un metodo e contenuti consolidati sostanzialmente inscalfibili. Così, almeno per tutto l’Ottocento, ma anche in parte del Novecento e spesso ancora ai nostri giorni, la narrazione scientifica prevalente è stata quella secondo la quale il meccanismo profondo della conoscenza era stato compreso una volta per tutte. Conseguentemente, il ruolo della ricerca veniva concepito come quello di raffinare e di dettagliare qualcosa che a grandi linee era oramai del tutto incontestabile. Questo è stato possibile perché la scienza storicamente è nata come un’impresa di uomini di scienza “geniali” che, con i pochi mezzi tecnologici che avevano allora a disposizione, ma con un fortissimo strumento metodologico, erano riusciti a scoprire le leggi che regolano la natura.
Il modello fondamentale di scienziato caratteristico dell’epoca era quello elaborato dalla Royal Society: per fare scienza era necessario dedicare molto tempo alla descrizione dell’esperimento perché questo doveva essere replicabile, allo scopo ultimo di creare una conoscenza impersonale, alla portata di tutti e quindi universale. Se però teniamo presente la concezione elitaria dei membri di questa istituzione, comprendiamo come non sia un caso che potessero considerare uomo di scienza soltanto un gentleman dotato di una certa educazione e appartenente a un certo ceto sociale.
La Royal Society aveva un approccio all’esperimento scientifico teso a cercare risultati dalla valenza universale. Il messaggio scientifico era prodotto e diretto ad un pubblico privilegiato, ad una classe sociale ben precisa: quella aristocratica. L’oggettività a cui aspiravano gli scienziati fondatori, era un’intersoggettività estremamente limitata: un’intersoggettività di classe.
La situazione è cambiata radicalmente, nonostante il paradigma di riferimento della scienza non sia mutato, quando nel panorama politico europeo è emerso in due nazioni egemoni, Francia e Germania, un forte interesse ad investire in ricerca scientifica. La consapevolezza dell’importanza del potenziale tecnologico della scienza, ha reso la figura dello scienziato, una sorta di funzionario statale, stipendiato stabilmente e sottoponibile a controlli da parte dell’apparato. Cambia dunque radicalmente l’identità dello scienziato, che non deve più appartenere a una classe agiata o adoperarsi su vari fronti per finanziare la propria attività di ricerca.
Questa diventa una professione, le possibilità di accesso aumentano e si estendono a ceti diversi dalle élite tradizionali. Lo sviluppo scientifico, in questo contesto, si è quindi legato allo sviluppo delle Nazioni, e alla competizione fra esse: lo Stato si è assunto l’onere e l’onore di finanziare la ricerca e ciò gli ha dato diritto ad usufruirne liberamente, assumendosi in pieno la responsabilità degli effetti dei suoi risultati. Da qui all’uso bellico della scienza, infatti, il passo è stato molto breve.
L’universalità della scienza, dunque, lungi dall’essere qualcosa che si auto-impone per l’evidenza della sua forza e per volontà degli attori coinvolti, come si riteneva all’inizio dell’età moderna, è diventata un processo di sviluppo e di evoluzione reso possibile dai forti cambiamenti sociali e politici contestuali al suo sviluppo. In questo contesto, infatti la scienza ha delegato la parte relativa al suo finanziamento e alla responsabilità dei propri risultati allo Stato committente, potendosi concentrare su un tipo di sviluppo interno attraverso continui processi di differenziazione: da ciò che è “diverso da sé”, distinguendo tra cosa è scienza e cosa non lo è, e “in sé”, ossia al suo interno, demarcando in maniera sempre più articolata la suddivisione disciplinare.
Il ricercatore, in questo contesto, si è spesso percepito come una figura specialistica dedita a una sempre più profonda esplorazione della realtà ritenuta da molti svincolata sia dagli aspetti economici, sia da quelli della responsabilità etica e politica, delegati al committente.
Negli ultimi decenni del novecento il quadro è cambiato ancora radicalmente. Sulla scia dei forti cambiamenti avvenuti negli anni ’70 e ’80 negli Stati Uniti, anni in cui l’ammontare dei finanziamenti privati dedicati alla ricerca hanno superato gli investimenti federali, si è assistito anche in Europa ad un ulteriore cambiamento: gli Stati Nazionali non sono più stati gli attori esclusivi nel fare scienza. Prima di tutto, bisogna tenere presente che, mentre gli Stati Nazionali erano legati da un rapporto di competizione tra pari, nel senso che più o meno le loro istituzioni erano simmetriche, così come le responsabilità etiche e politiche sottese, la competizione fra pubblico e privato è stata invece caratterizzata da una sostanziale dissimmetria. Sono nate forti divergenze sui rispettivi valori e priorità dei vari committenti e quindi è emersa la diversità tra tipologie di condizionamenti alla produzione di conoscenza scientifica.
In conseguenza a questo mutamento sono ritornate in primo piano tutte le questioni economiche e sociali assopite durante il periodo precedente. In tale contesto, ad esempio, è emerso il dibattito sulla libertà di ricerca.
La comunità scientifica vissuta nel precedente periodo storico non considerava lo Stato come portatore di interessi e quindi come “committente condizionante” per il semplice motivo che la committenza era sostanzialmente monopolistica.
Dalla fine del ‘900 la situazione è mutata ed è divenuta fondamentalmente di concorrenza, qualche volta anche esasperata, fra molteplici committenti. Essendo nell’era della Big science, in cui la ricerca in certi ambiti ha bisogno di finanziamenti veramente ingenti, si sono sviluppati committenti, sia pubblici che privati, con maggiori possibilità di sorreggere lo sviluppo di nuova conoscenza scientifica. I vincoli economici sono diventati più forti e gli attori privati decisivi anche nello sviluppo delle scienze e delle tecnologie. La questione che si impone all’attenzione, dunque, diventa se e come questa “era post-accademica”, come è stata da più autori definita, abbia influenzato forme, contenuti e paradigmi delle conoscenze scientifiche.
In questo periodo la scienza, principalmente attraverso gli studi legati alla sociologia e all’antropologia della conoscenza scientifica, ha cominciato a riflettere e a reinterrogare se stessa e i suoi fondamenti.
Si è aperta ad esempio un’utile discussione sulla distinzione fra forme di conoscenza “pura” e “applicata”. La conoscenza pura, quella che la letteratura definisce “ricerca teorica” e che della sua autonomia ha sempre fatto un valore fondante, si è fatta risalire storicamente alla ricerca universitaria a finanziamento pubblico. La conoscenza applicata, definita in passato da molta letteratura come processo che parte da una fase di ricerca mirata per poi raggiungere una fase di sviluppo, è invece stata vista come caratteristica degli ambienti privati, aziendali. In genere è a quest’ultima che è stato attribuito il forte condizionamento del contesto in cui veniva elaborata. Ma questa distinzione dicotomica, certamente inizialmente assai utile, si è osservato come nasconda una dinamica molto più ricca e articolata di produzione e di diversificazione della conoscenza scientifica.
La sua emergenza, infatti, si è dimostrata sempre più fortemente influenzata dai diversi contesti in cui nasce e la presa di consapevolezza di questa dinamica ha agito profondamente sulla concezione della natura epistemologica della conoscenza stessa. Bisogna inoltre tenere presente che il termine “contesto” va interpretato come polisemico. Ci si può riferire a un luogo geografico, si pensi alla differenza che esiste tra conoscenze emerse da ricerche con una precisa localizzazione geografica e tendenzialmente poco permeabili come un laboratorio universitario, spesso di composizione monodisciplinare, e tipologie di conoscenza emerse in team di ricerca interdisciplinari o in clusters aziendali o al lavoro svolto da network internazionali.
Per “contesto”, poi, ci si può anche riferire a condizioni tecnologiche e cognitive, come quelle generate ad esempio dall’ampliamento delle facoltà percettive consentito da nuove tecnologie di visualizzazione, o, ancora, a condizioni più specificamente epistemologiche, quali un diverso approccio all’inquadramento teorico di uno stesso oggetto di studio.
Questa differenziazione, legata non più al solo ambito disciplinare, come era avvenuto in epoca moderna, ma soprattutto a quello contestuale, ha generato notevoli mutamenti non solo a livello identitario, per quanto concerne i ricercatori, ma anche a livello paradigmatico, ossia per quanto concerne i fondamenti epistemologici della scienza stessa.
I ricercatori, in questo nuovo contesto, si ritrovano a poter assumere diverse tipologie di identità: non si è più solo “ricercatori”, ma si è ricercatore universitario, aziendale, c’è chi lavora “in ricerca”, chi lavora “in sviluppo”, chi svolge funzioni di “planner“, chi si occupa di “profiling“, chi di “metodi” e così via. Questa differenziazione professionale comporta per il ricercatore un percorso interiore travagliato in cui si va alla difficile ricerca della tipologia di lavoro più adatta alle proprie competenze, attitudini e possibilità, anche in termini di mantenimento economico.
Parallelamente, poi, i ricercatori si devono porre anche sfide legate ai diversi (e nuovi) problemi di comunicazione che sono nati insieme ai mutamenti contestuali sopra descritti: quello legato alla necessità di generare un dialogo tra diverse discipline all’interno di grandi gruppi di ricerca interdisciplinari, necessari sempre più spesso all’avanzamento della ricerca e quello legato alla comunicazione con pubblici di non esperti che iniziano a diventare rilevanti, ad esempio, attraverso gli strumenti del referendum, ai fini del finanziamento di intere linee di ricerca.
Per quanto concerne l’assetto epistemologico della scienza, la diversità quantitativa e qualitativa delle conoscenze generate nella contemporaneità, ha portato la scienza stessa a mettere in discussione le sue basi realiste. Così studi epistemologici oggi mostrano come la conoscenza scientifica, pur riconoscendo la validità del metodo sperimentale come base per differenziarsi dalle altre tipologie di conoscenza, lungi dall’essere stata acquisita una volta per tutte, si sia dimostrata ben più ampia, variegata, fortemente dipendente da vincoli contestuali, personali, sociali, economici, etici e politici.
Ognuno di questi vincoli sta avendo il grande potere di aprire un ventaglio di nuove possibilità inedite per sviluppi scientifici futuri. Solo alcuni di essi, però, potranno svilupparsi all’interno del contesto contemporaneo al punto tale da poter essere dichiarate “scientifiche”.
La scienza quindi, oggi rivela in sé un gran numero di frontiere da esplorare, di nuclei di creatività e di conoscenze emergenti che possono essere amplificati, o al contrario smorzati, sia dalle pure contingenze storiche sia dagli “attrattori” politici economici e sociali che entrano in gioco.
All’interno di questo contesto si situa anche il cambiamento di prospettiva attuato dall’Unione Europea con l’ultimo programma quadro che ha emanato: Horizon 2020. Dal 1984 infatti anche l’UE, attraverso ambiziosi programmi quadro, ha unito alla forza delle sue politiche sempre più ingenti finanziamenti alla ricerca mirati a rafforzare lo sviluppo economico e sociale dell’eurozona. Fino al Settimo Programma Quadro (7FP) per la Ricerca e lo Sviluppo Tecnologico, che aveva come obiettivo quello di far diventare l’UE “l’economia più competitiva del mondo basata sulla conoscenza, capace di sostenere la crescita economica generando più lavoro e una maggiore coesione sociale“, i finanziamenti stanziati sono stati diretti su due grandi “contenitori” di conoscenza scientifica: la ricerca e lo sviluppo.
La crisi economica del 2008, però, ha reso la strategia di Lisbona e la struttura del 7FP inadeguate ad una ripresa dell’Eurozona, e ciò ha comportato la necessità di innescare grandi cambiamenti su vari livelli. Un segnale di cambiamento si ritrova nella riorganizzazione del Directoral General for Research and Innovation avvenuta tra il 2010 e il 2011 in concomitanza con l’insediamento della scorsa Commissione. Un altro segnale di cambiamento forte risale al 2010, anno in cui è stata varata la strategia Europa 2020 che pone come prima di tre nuove priorità per l’UE una “crescita intelligente” anche grazie all’obiettivo di investimento su ricerca e innovazione di ingenti somme, in particolare prefissandosi di raggiungere una cifra pari al 3% del PIL europeo (nel 2011 è stato del 2,03%).
Per riuscire ad attuare le tre priorità sopra citate, poi, sempre sulla linea di Europa 2020, sono state istituite sette iniziative faro, veri e propri motori per rilanciare la crescita e il lavoro. Una di queste è l’Innovation Union, che riguarda strettamente l’innovazione.
E’ proprio da questa iniziativa faro che nasce Horizon 2020, l’Ottavo programma quadro per finanziare ricerca e innovazione. Su più fronti quindi, l’Innovazione inizia ad assumere un ruolo decisivo all’interno del contesto europeo. Bisogna inoltre notare che per la prima volta l’UE ha unito all’interno del contesto della ricerca tutto un ventaglio di azioni mirate all’innovazione, fattore che fino al 7FP era stato finanziato con uno strumento diverso, il CIP (Competitivness and Innovation Framework Program) non ritenuto in diretta connessione con la ricerca e quindi con la produzione di nuova conoscenza scientifica. Per superare la crisi, quindi, l’Europa ha scelto di modificare radicalmente il focus del suo Framework Program, spostandolo verso l’innovazione, processo che va oltre le classiche fasi di ricerca e sviluppo, inserendo anche quella dell’applicazione, ultima fase della catena che precede l’ingresso di un prodotto nel mercato.
Questa nuova ratio va, di fatto, a modificare gli assetti dei temi di ricerca di interesse europeo, ridefinisce quale sarà “l’innovazione rilevante” per il suo sviluppo, e ciò, più o meno implicitamente, influirà sulla struttura dei network che potranno ottenere finanziamenti e quindi dello sviluppo di particolari filoni di ricerca a scapito di altri. Un tale posizionamento probabilmente avrà delle forti ripercussioni sia sulle future riflessioni legate al concetto di scienza, sia sulle professionalità che saranno coinvolte nei progetti di ricerca.
Il ricercatore, infatti, dovrà essere pronto a cogliere una nuova sfida e a costruirsi un’altra possibile identità che potremmo definire di “innovatore”. Un’identità che conterrà al suo interno multiple anime e sensibilità: quella di ricercatore, di comunicatore, di “progettista responsabile” della propria ricerca, di ricercatore di fondi ecc. Dovrà quindi essere in grado di adattare la propria ricerca e le modalità del fare ricerca al contesto in cui sarà immerso, sapendosi modulare di conseguenza. Dovrà essere inoltre, un innovatore “responsabile”. Horizon 2020, infatti, pone la questione della Ricerca e Innovazione Responsabile come tema trasversale ad ogni sua parte. RRI, infatti, secondo la definizione data dalla stessa UE, è “un processo in cui tutti gli attori sociali (ricercatori, cittadini, policy makers, imprese) lavorano insieme durante l’intero processo di ricerca e innovazione per allineare i suoi prodotti ai valori, bisogni e aspettative della società europea”.
La conoscenza in corso di elaborazione quindi dovrà essere strutturata in maniera tale da consentire di anticipare e valutare le potenziali implicazioni e le aspettative della società in materia di ricerca e innovazione prima ancora di essere finanziata e di poter quindi nascere e svilupparsi.
Assistiamo dunque a una modifica dell’epistemologia stessa sottesa al concetto di conoscenza scientifica, che dovrà porre sempre più attenzione agli aspetti legati alle sue forme di produzione, alle sue dinamiche e quindi necessariamente anche ai diversi contesti e istanze che orientano la sua evoluzione.
Ciò sarà sicuramente una sfida di notevole spessore, perchè la nostra forma mentis, la nostra formazione, il nostro linguaggio, i nostri schemi cognitivi sono stati storicamente ed educativamente strutturati attorno alla conoscenza del “cosa”, del know what.
La sfida della contemporaneità che si delinea sempre più chiaramente, invece, è quella di porre attenzione al “come”, al know how, alla dinamica sottesa al passaggio da una forma di non-conoscenza all’emergenza di nuova conoscenza e quindi alle istanze, tra cui oramai riveste un ruolo fondamentale l’innovazione responsabile, che portano alla sua realizzazione.
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Commissione Europea RESEARCH & INNOVATION: Science in Society
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European Commission: Options for Strengthening Responsible Research and Innovation
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(foto: European Court of Justice di Gwenaël Piaser da Flickr)
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