Negli ultimi trent’anni, i progressi scientifici e tecnologici hanno consentito alla medicina di comprendere e curare un numero sempre maggiore di malattie. Questi risultati sono stati ottenuti anche grazie a una specializzazione spinta, che tende tuttavia a considerare la malattia prima dell’individuo, trascurando quella relazione fra medico e paziente che è stata invece per molto tempo centrale, e che secondo un numero crescente di studi continua a influire sull’ottenimento del risultato terapeutico anche nell’era della medicina high-tech. Ne Il Caso di GL (edito da Carocci) Fabrizio Benedetti propone un approccio diverso, che, sulla scia delle tesi della medicina narrativa, integri la dimensione umanistica a quella meccanicistica, per migliorare nella comprensione della malattia e nella cura. Non è casuale che l’ambito del libro sia quello della psichiatria e della psicologia: infatti, a dispetto dell’innegabile efficacia dei farmaci per alcuni disturbi psichiatrici, questo resta certamente il settore in cui i limiti dell’approccio meccanicistico appaiono più evidenti. Inoltre, Benedetti, professore ordinario di fisiologia all’Università di Torino, è uno dei più importanti studiosi mondiali di effetto placebo, quel fenomeno in virtù del quale l’efficacia di un atto terapeutico è profondamente influenzata dalle modalità con cui questo viene somministrato, e dal vissuto dello stesso paziente.
A metà fra saggio e romanzo, Il caso di GL (nome in codice di un paziente realmente esistito) è il racconto del suicidio di un ventenne, che psicofarmaci e sedute di psicoterapia non hanno saputo aiutare, e la cui vicenda trova una spiegazione solo grazie alla narrazione. Nel testo, le Lettere scritte dal paziente e organizzate in ordine cronologico si alternano alle Note, che hanno invece il tono del saggio scientifico, centrato sui temi della psichiatria e della psicologia più pertinenti alla vicenda di GL.
Professor Benedetti, GL è un ragazzo apparentemente senza particolari problemi né familiari né personali, e il suo è uno di quei suicidi che comunemente si definirebbero “inspiegabili”. L’approccio per analizzarlo è quello della medicina narrativa. In che cosa consiste?
Nel libro, la medicina narrativa è usata per descrivere un caso che altrimenti sarebbe stato riferito a una generica forma di depressione. La narrazione, invece ci permette di scavare e tirare fuori esattamente che cosa c’è dietro il gesto di GL, che ha alla base un percorso perfettamente logico, non imputabile a un disturbo dell’umore come la depressione*. La vicenda segue una dinamica non frequente, in cui qualsiasi farmaco o terapia non sarebbero serviti assolutamente a nulla.
Peraltro, qui la medicina narrativa serve per trovare una spiegazione a posteriori, ma questa disciplina in sé ha obiettivi diversi. Nasce infatti 20-30 anni fa per volontà di alcuni psicologi, medici e psichiatri, che hanno ritenuto opportuno far raccontare al paziente le proprie esperienze di malato e di malattia, l’ambiente in cui vive, il vissuto emotivo, con lo scopo di curare.
È una modalità che si va affermando oppure incontra delle resistenze?
Come tutto ciò che è nuovo incontra delle resistenze. Inoltre, il fatto che la modalità proposta sia di tipo psicologico aumenta lo scetticismo, perché la nostra medicina è fondamentalmente biologia e le conoscenze si sono sviluppate a livello cellulare e molecolare.
Lei parla esplicitamente di approccio olistico…
Avere un approccio olistico significa saper osservare la situazione da diverse prospettive. Oggi il biologo vede la malattia dal punto di vista molecolare – ma spiegare tutto con molecole e cellule ha dei limiti chiari – mentre lo psicologo rifiuta la posizione positivista della scienza e considera solo l’aspetto mentale. Io penso invece la stessa persona dovrebbe avere la capacità di vedere ciò che ha di fronte da entrambi i punti di vista, integrando i due aspetti e abbattendo la barriera che li separa. Solo una piccolissima parte dei medici lo fa, ma questo è un messaggio importante del libro. Per questo alcuni capitoli hanno un approccio meccanicistico e potrebbero essere opera di un biologo, mentre altri hanno uno stile più letterario e potrebbero essere stati scritti da un umanista.
Negli ultimi anni le tecniche di imaging hanno permesso di fotografare in diretta l’attività di specifiche aree cerebrali, collegandola a emozioni e stati d’animo. Questo è un passo in avanti o un passo indietro?
È senz’altro un passo in avanti per la compressione di certi meccanismi. L’imaging sul dolore, per esempio, ha chiarito che in risposta a uno stimolo doloroso si attiva tutto il cervello e che non esiste un centro specifico per la percezione del dolore. Queste tecniche ci dicono quindi che il cervello funziona con una sua globalità e che l’emergere della coscienza, di un pensiero, di un’emozione positiva o negativa eccetera è dovuta a una connessione fra diverse aree cerebrali. Dal punto di vista terapeutico tuttavia questo non porta a un avanzamento.
*Per quanto strano possa sembrare, il suicidio di GL è la conclusione inevitabile di un percorso intellettuale che porta il paziente a voler verificare di persona che cosa c’è dopo la morte. Esistono pochissimi casi di suicidio imputabili a motivazioni di questo tipo, ma GL non è il solo.
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