Questo articolo prosegue il discorso da:
1. Come la cultura hacker cambia la biologia (di Margherita Fronte)
2. La condivisione è già fra gli scienziati (che devono imparare a gestirla) (di Nico Pitrelli)
Il progresso nelle scienze della vita ha radicalmente trasformato il rapporto dell’essere umano con la finitezza biologica, propria e del mondo che lo circonda. Con l’avvento del DNA ricombinante e dell’ingegneria genetica, ad esempio, la vita sembra diventare tecnicamente disponibile alla manipolazione umana. L’avanzamento tecnico in questo ambito, conosce da allora un cammino inarrestabile che va dal perfezionamento della reazione a catena della polimerasi alla continua evoluzione delle tecniche di sequenziamento del genoma.
Questa rivoluzione è soprattutto una rivoluzione dell’immaginario. Sebbene numerose zone d’ombra e considerevoli ostacoli tecnici persistano tuttora nel campo della manipolazione genetica della vita, ciò che da subito appare liberato una volta per tutte da ogni vincolo mondano è la possibilità di immaginare per il futuro scenari nuovi, radicalmente disancorati rispetto al passato: modi nuovi di conoscere, prevenire, guarire e riprodursi, modi nuovi di produrre cibo e di alimentarsi, nuove forme di energia.
Nessun condizionamento biologico può resistere a questa profonda corrente immaginativa: tutto lo spazio delle possibilità deve poter essere percorso, nulla può rimanere inesplorato. È una nuova «forma di vita» quella a cui l’ingegneria genetica ci mette di fronte: d’ora in avanti l’essere umano assume su di sé la responsabilità della costituzione biologica del mondo.
L’articolazione di tale «forma di vita» è un processo tuttora in corso di svolgimento, sia sul piano tecnico, che su quello dell’organizzazione sociale della scienza. Quest’ultima deve necessariamente modificarsi per fare fronte alle responsabilità che le nuove tecniche comportano.
In particolare, lo spazio dell’immaginario che caratterizza le odierne scienze della vita si apre per così dire riflessivamente sul modo stesso in cui la pratica scientifica è materialmente costituita, sulle relazioni di potere che ne costituiscono l’ossatura e, infine, sulle modalità di accesso e relazione tra la scienza e altre sfere della società.
Questa interrogazione trova concreta realizzazione nel proliferare di standard, sia tecnici che deontologici, relativi alla pratica scientifica. Si pensi ad esempio alla famosa conferenza di Asilomar (1975), nel corso della quale la comunità scientifica ha stabilito parametri tecnici per il contenimento dei rischi legati all’utilizzo del DNA ricombinante.
La comunità scientifica, in quella occasione, ascrisse a sé stessa la responsabilità connessa all’utilizzo dell’ingegneria e delegò a un consesso di suoi rappresentati l’elaborazione di criteri (tecnici) adeguati per standardizzare l’attività scientifica in questo settore.
Tale modello di governance squisitamente tecnico e verticistico ha subìto nel corso degli anni numerose riformulazioni che hanno via via contribuito a coinvolgere un numero sempre maggiore di attori – dai comitati nazionali di bioetica, alle confessioni religiose e alle associazioni professionali, ai rappresentanti di pazienti, ma anche, e in misura sempre maggiore, legislatori e corti di giustizia – nella gestione di responsabilità che derivano dal progresso tecnico in ambito biologico.
Esistono oggi molteplici forme e livelli di regolazione etica e legale dell’attività di ricerca. Questa forma di responsabilità scientifica è un fenomeno tipico delle odierne scienze della vita e dà luogo a disposizioni e pratiche ancora del tutto lontane da un definitivo assestamento.
Le transizioni necessarie alla creazione di forme pubblicamente credibili di responsabilità scientifica non sono sempre facili in quanto, frequentemente, sottendono conflitti di valori non facili da mediare o ricomporre.
In tale contesto, caratterizzato da un forte potenziale di tensione politica e da relazioni di potere in continua trasformazione, possono chiaramente emergere visioni diverse e contrapposte in merito all’organizzazione sociale della scienza. Fenomeni come Biohacking, Do-it-Yourself Biology e sebbene in forma meno radicale, il modello della scienza Open-Access, rappresentano in questo senso spinte controculturali emergenti in un contesto decisamente fluido e, non di rado, potenzialmente teso. Tali fenomeni si presentano sotto la spinta di idee in controtendenza rispetto all’ethos della comunità scientifica: in particolare, sembrano abbracciare un modello radicalmente distribuito di produzione della conoscenza.
Del resto, le tecniche di laboratorio delle scienze biologiche, un tempo appannaggio di pochi adepti, sono divenute ormai più facili da padroneggiare e sempre meno costose. Si pensi ad esempio che per il sequenziamento del primo intero genoma umano, iniziato nel 1990, furono necessari 2,7 miliardi di dollari e più di 10 anni di lavoro dello Human Genome Project. Attualmente la stessa operazione può essere compiuta per cifre che si stimano inferiori ai 4 mila dollari per genoma e in un tempo di poche ore.
Queste evoluzioni sono senz’altro positive, ma hanno come inevitabile (e a dire il vero auspicabile) conseguenza la proliferazione del numero di ricercatori che sono in grado di estrarre informazione genetica da materiale biologico.
Altra conseguenza alla quale si presta in genere poca attenzione è la progressiva parcellizzazione dei centri di responsabilità per l’utilizzo e la distribuzione di tale informazione. Bisogna ricordare che ai tempi dello Human Genome Project, circa il 5 per cento del budget annuale del progetto fu impiegato per finanziare il cosiddetto ELSI Program, direttamente collegato al Progetto Genoma e votato allo studio delle implicazioni etiche, legali e sociali del progetto. Il programma ELSI ha avuto lo scopo di esplorare quello spazio di immaginazione aperto dalla nuova frontiera del sequenziamento umano, alla ricerca di possibili fonti di controversia, conflitto, tensione, ma anche al tempo stesso alla ricerca di possibili soluzioni condivise.
Ancora oggi, infatti, quando si impiegano tecnologie all’avanguardia nell’ambito di progetti di ricerca biomedica, come ad esempio in progetti che richiedano l’utilizzo di tecnologie di sequenziamento del DNA umano, si fa sovente ricorso a partner accademici (spesso appartenenti per estrazione disciplinare all’ambito della bioetica) che svolgono una funzione di analisi teorica e di orientamento pratico simile a quella dello ELSI Program. In particolare, l’obiettivo di questa collaborazione è l’elaborazione di strutture di governance che rispondano a criteri e standard etici il più possibile condivisi.
In questo campo lo scopo è assicurare, ad esempio, che i dati genetici relativi a un individuo siano acquisiti, distribuiti, comunicati alla persona e conservati in modo tale da non ledere i fondamentali diritti del donatore. Questo richiede uno sforzo importante di armonizzazione tra istituzioni differenti, disposizioni legislative spesso incoerenti, o semplicemente visioni diverse in merito sfide etiche che si hanno di fronte.
L’elemento controculturale tipico di fenomeni come Biohacking, Do-It-Yourself-Biology e Open-access science, può senz’altro esercitare una positiva funzione critica rispetto alle assunzioni di fondo della comunità scientifica – e in particolare rispetto al non sempre trasparente rapporto tra conoscenza e interessi commerciali, militari e politici. In questo senso, l’intento del movimento Do-It-Yourself-Biology di “aprire le porte” della scienza ai cosiddetti citizen scientist, può dar luogo a effettive opportunità di appropriazione democratica del sapere scientifico. Bisogna tuttavia ricordare che ogni controcultura si fonda su un’immagine necessariamente semplificata e stilizzata della “cultura” rispetto alla quale si definisce e si autocomprende in maniera, per l’appunto, antagonistica.
Sorprende ad esempio che questi movimenti, molto interessati alla messa in comune degli strumenti di produzione della conoscenza, riflettano decisamente meno sui rischi legati all’uso di tali strumenti in uno scenario radicalmente distribuito. In particolare, questa tendenza può comportare una critica frettolosa degli attuali sistemi di regolazione e supervisione dell’attività scientifica – sistemi che, per quando imperfetti, riescono almeno a mettere in atto, per così dire, una filiera di responsabilità che rappresenta un pilastro fondamentale dell’accountability scientifica.
In che modo, ad esempio, l’idea della totale distribuibilità dei dati scientifici si rapporta alle esigenze di protezione dei dati personali? Quali filtri sarà possibile utilizzare per evitare che un individuo riceva informazioni genetiche di cui non vuole conoscere o che non è in grado interpretare? Come si argina, in un contesto del genere, il rischio di stigmatizzazione legato all’informazione genetica?
Rispondere a queste e a simili domande è una delle sfide maggiori per i fautori di un modello completamente distribuito di conoscenza scientifica. La credibilità sociale e politica di queste forme emergenti di appropriazione soggettiva dei mezzi di produzione della conoscenza è legata alla valutazione degli esiti possibili di un modello polverizzato della responsabilità scientifica. Tale modello non offre al momento sufficienti garanzie sul piano dell’accountalbilty e della tutela dei diritti.
Questo non esclude che passi importanti possano essere fatti in questa direzione, e che un modello di “distribuzione sostenibile” possa essere delineato. Tuttavia, questo comporta a mio avviso che gli elementi ideologici propri di certe forme di controcultura scientifica siano seriamente rimessi in discussione.
Il discorso prosegue con:
– I DIYBIO e il difficile passaggio dal piccolo al grande di Angela Simone
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(Foto: Biohackers di ooleg da Flickr)
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