Questo articolo prosegue il discorso da: Come la cultura hacker cambia la biologia.
«Tra cent’anni, quando gli storici si guarderanno indietro, tracceranno una linea di demarcazione tra due ere scientifiche: la scienza pre-rete e la scienza collaborativa in rete. Stiamo vivendo nell’epoca di transizione verso la seconda era scientifica». [1]
Così si esprimeva circa un anno fa lo scienziato americano Micheal Nielsen, esperto di quantum computing e grande sostenitore dell’open science, nel suo libro-manifesto, pubblicato in Italia da Einaudi col titolo Le nuove vie della scoperta scientifica.
Secondo Nielsen, lo straordinario impatto di Internet sulla scienza si manifesterebbe sia nell’accelerazione a dismisura del tasso di produzione delle scoperte, sia in un cambiamento profondo del rapporto tra scienza e società, dato che la rete consentirebbe forme di collaborazione e coproduzione culturale inedite fra scienziati, amatori, cittadini.
Inutile sottolineare che i toni dello scienziato americano sono ottimistici. La realtà è più articolata. L’entusiasmo o, viceversa, l’ostilità nei confronti delle opportunità di comunicazione offerte da Internet dipendono, ad esempio, dalla disciplina di appartenenza e la sensazione generale è che la comunità scientifica nel suo complesso sia abbastanza scettica rispetto alla possibilità di mettere a disposizione liberamente dati, contribuire a progetti wiki, commentare blog. Nonostante le promesse di essere più produttiva, più egualitaria, più democratica, i rischi di fallimento per la scienza aperta sono tuttora alti.
Esempi di cosiddetta networked science a dire il vero non mancano. Attualmente Wikipedia segnala una quarantina di progetti attivi solo nell’ambito della citizen science, la ricerca condotta interamente o in parte da amatori o non professionisti. Sono poi numerosi gli esempi di strumenti del web collaborativo che soddisfano bisogni e aspettative legate al lavoro quotidiano degli scienziati: dalla condivisione di dati, materiali e bozze di pre-pubblicazione a forme di collaborazione e monitoraggio del lavoro dei colleghi.
Più in generale, le caratteristiche della scienza aperta si manifestano in tre direzioni: nuove dinamiche di lavoro, nuove opportunità relazionali, nuove modalità di pubblicazione [2].
Nel primo gruppo ricadono i siti di social bookmarking, i wiki collaborativi e le iniziative di open notebook science, vale a dire la pratica di rendere disponibile in tempo reale quanto accade nel laboratorio. Tra gli usi più significativi di wiki va segnalato OpenWetWare, una piattaforma che abilita gruppi di lavoro geograficamente dispersi a collaborare nella creazione di documenti comuni, con obiettivi precisi e identificabili, attraverso una condivisione libera delle informazioni. Tra le novità più rilevanti nella stessa area di applicazioni, in ambito bio, si può menzionare Nextbio, impresa privata che ha realizzato un motore di ricerca con un archivio contenente ben 1,2 miliardi di dati messi liberamente a disposizione.
Gli scienziati stanno seguendo poi il mainstream dei social network con iniziative come ResearchGate per i ricercatori e Sermo per i medici, ambienti che hanno il potenziale di rendere il confronto tra esperti più immediato, efficiente ed aperto.
Nella terza area, quella che riguarda le modalità di pubblicazione alternative all’editoria cartacea, ricadono le iniziative di open acces, i preprint di pubblicazione o i science commons. Utilizzi rilevanti in quest’ambito si concentrano sulla modifica del tradizionale processo di peer-review verso meccanismi di valutazione e monitoraggio costanti (si vedano ad esempio i servizi offerti dal progetto Faculty of 1000).
L’apertura, la condivisione, la trasparenza, in altre parole i punti di forza dell’open science evidenziate in queste iniziative sono anche gli aspetti su cui si concentrano maggiormente le resistenze.
Come si fa, si chiedono ad esempio i critici, ad evitare usi fraudolenti o impropri di dati messi a disposizione di tutti? Come si stabilisce la paternità delle pubblicazioni? Come si fa, più in generale, a valutare il contributo di un ricercatore in progetti di scienza aperta? Quanto rischia per la sua carriera un giovane scienziato che esprime commenti su un blog? Il “laboratorio aperto” è sempre una buona idea? Non ci sono aspetti di una ricerca che dovrebbero rimanere riservati almeno fino a quando questa non viene pubblicata? Come si concilia la retorica open con le ricerche su temi eticamente e socialmente sensibili o dai risvolti politico-commerciali?
In più, non è affatto detto che le tecnologie connettive non favoriscano, diversamente dalle promesse di democratizzazione, un’influenza ancora più preponderante di poche istituzioni internazionali di ricerca. Né bisogna trascurare le conseguenze del possibile assottigliamento della linea di demarcazione fra produzione scientifica e altri tipi di produzione culturale o dell’adozione di sistemi più aperti nella gestione della reputazione dei ricercatori.
Le domande e i rischi presentati rappresentano problemi concreti, anche se probabilmente le barriere a un compiuto passaggio alla scienza aperta sono più di natura psicologica e culturale che tecnica.
Un motivo cruciale della resistenza all’adozione delle opportunità offerte dalla rete è legata al ruolo delle pubblicazioni tradizionali: l’unità di comunicazione più importante per la carriera degli scienziati rimane infatti l’articolo pubblicato su una rivista specialistica attraverso un processo di revisione tra pari modellato secondo i vincoli, le restrizioni e i modelli di pubblicazione imposti dall’editoria cartacea. Nonostante l’articolo scientifico restituisca solo un fotogramma del complesso processo che porta al risultato scientifico, non si sono attualmente affermate metriche alternative efficaci, allineate con le modalità comunicative del web e, soprattutto, universalmente accettate dalla comunità scientifica.
Probabilmente è una questione di tempo e sarà forse vero, come afferma David Weinberger, tecnologo della comunicazione americano, che la scienza in rete «è stato un tipo di pubblicazione e adesso sta diventando un network» [3], ma sarà difficile che la trasformazione si attui se le attività della scienza aperta non entrano a far parte a pieno titolo del “ciclo di credito” degli scienziati.
Nel frattempo è impossibile fare previsioni. Ci troviamo di fronte a un processo darwiniano e probabilmente il 99 per cento delle idee in circolazione è destinato a morire, ma qualcuna emergerà e si diffonderà e quando questo accadrà sarà il riflesso del fatto che è cambiato il modo di fare scienza.
Riferimenti bibliografici
[1] Nielsen, M. (2012), Le nuove vie della scoperta scientifica, Einaudi, p. 13; (torna al testo)
[2] Bennato, D. (2012), Comunità connesse. L’impatto dei social media sulla professione del ricercatore, in Avveduto, S. (a cura di), Scienza connessa. Rete, media e social network, Gangemi Editori, pp. 81-92; (torna al testo)
[3] Weinberger, D. (2012), Too big to know, Basic Books, p. 152.
Il discorso prosegue con:
– Scienza, controcultura e responsabilità di Alessandro Blasimme
– I DIYBIO e il difficile passaggio dal piccolo al grande di Angela Simone
——————–
(Foto: Biohackers di ooleg da Flickr)
——————-