Questo articolo prosegue il discorso da:
1. Come la cultura hacker cambia la biologia (di Margherita Fronte)
2. La condivisione è già fra gli scienziati (che devono imparare a gestirla) (di Nico Pitrelli)
3. Scienza, controcultura e responsabilità di Alessandro Blasimme
Do-It-Yourself-BIOlogy (DIYBIO). Biologia fai-da-te. Questo è il motto e il nome che sintetizza l’obiettivo di gruppi di cittadini, appassionati di biologia e delle scienze della vita, che si dedicano nel loro tempo libero a imparare a mettere in piedi esperimenti scientifici utilizzando pratiche e tecniche delle biotecnologie. E lo fanno con materiali dismessi da vecchi laboratori o acquistando (o addirittura progettando) macchinari low cost in luoghi ricavati da locali pubblici in disuso o mettendo a disposizione le proprie cantine e garage. Proprio per questo motivo, i media americani hanno iniziato a definire i DIY(BIO)ers fin dalla nascita del movimento come “garage scientists”.
Fondatori di questo gruppo amatoriale sulla condivisione delle pratiche delle biotecnologie, non sono state due persone a caso, ma proprio due biotecnologi, ricercatori ed esperti in biologia sintetica, residenti nell’area di Boston, dove hanno sede due delle università leader nel mondo in questo campo, cioè Harvard e MIT.
La biologia sintetica è l’ulteriore evoluzione delle biotecnologie, il cui scopo è creare ex novo o riprodurre sistemi biologici a partire dalla composizione di “biobrick”, mattoni biologici, ovvero sequenze standard di DNA che codificano per funzioni note. La relativa facilità di progettare e comporre sistemi viventi come fossero una costruzione fatta coi Lego ha dato lo spunto nel 2008 a Jason Bobe e Mackenzie Cowell (provenienti proprio da Harvard e MIT) di mettere in piedi il gruppo diybio.org per condividere mezzi e tecniche di una disciplina affascinante e dall’impatto sociale altissimo.
Usando la rete come mezzo di comunicazione, Bobe e Cowell partono col costruire una piccola comunità che si ritrova al bar per fare esperimenti semplici, come l’estrazione del DNA dalla frutta, ma dyibio.org diventa in poco tempo il punto di partenza e poi il riferimento per tutti i gruppi nati dopo l’esperienza bostoniana.
Prima estendendosi in altre città americane per poi diffondersi al resto del mondo (in Europa ci sono diversi hub, ma non in Italia per il momento), il movimento dei biologi amatoriali è ormai diventato un fenomeno consolidato nella comunità più estesa (e sempre più in espansione) della citizen science.
Fuori dagli schemi accademici e dai laboratori universitari, il cittadino-scienziato è una figura sempre più presente tra gli attori che partecipano al processo produttivo scientifico. Per progetti particolarmente time – and money – consuming (come per esempio, nel monitoraggio ambientale e marino, così come nelle osservazioni astronomiche), il sostegno dei cittadini amatori della scienza ai ricercatori veri e propri, è un dato di fatto. E la collaborazione in alcuni casi è addirittura sfociata in pubblicazioni con l’accreditamento del contributo dei cittadini-scienziati che hanno partecipato allo studio.
Ma la DIYBIO, a differenza delle altre categorie di citizen science, per sua natura desta molte preoccupazioni: l’utilizzo di materiale biologico con lo scopo di manipolarlo ha riaperto la discussione sui timori che in genere le biotecnologie si portano dietro, quali l’incapacità di gestire il rilascio accidentale o incontrollato di materiale biologico nocivo per ambiente, animali e esseri umani, soprattutto in un contesto in cui i “manipolatori” sono persone non esperte, o addirittura la manipolazione ad hoc per creare armi biologiche a scopo terroristico.
In realtà, come un recente studio sul movimento DIYBIO del Woodrow Wilson International Center for Scholars di Washington ha illustrato, la maggior parte delle persone che prendono parte a questo movimento sono studenti universitari o ricercatori in altre discipline, oltre che ovviamente gli stessi biotecnologi che “di giorno” lavorano in laboratorio con DNA, macchine sequenziatrici e biobricks, e nei lab DIYBIO agiscono come trainers. Quindi sono persone che conoscono il mondo della ricerca e le sue regole, anche di biosicurezza. Infatti, proprio da poco, sul sito diybio.org è disponibile un vero e proprio servizio di “consulenza on line” su problematiche di biosicurezza, in cui è possibile chiedere a un esperto come gestire alcuni protocolli o processi che implicano un potenziale problema di biosafety.
Sintomo questo del fatto che la gestione non è in mano a sprovveduti, ma a professionisti del campo che hanno ben presente il contesto in cui operano, anche quando gli esperimenti vengono fatti in un laboratorio amatoriale.
Inoltre, negli incontri molto spesso si riescono a mettere in pratica soltanto le tecniche base delle biotecnologie, come il clonaggio genico, o della biologia sintetica, come la sintesi di un singolo gene, senza arrivare a spingersi in esperimenti sofisticati.
Ma che il movimento abbia un problema “di immagine” è un dato di fatto, come è stato anche evidenziato in un editoriale su Nature a fine novembre dello scorso anno. Un’immagine che potrebbe nuocere a una comunità che è già capace di produrre risultati utili per la società (come la creazione di un processo low cost che sostituisce l’onerosa PCR, la macchina che amplifica brevi sequenze di DNA, il cui utilizzo è alla base delle tecniche della biologia molecolare). Ma ora, sempre secondo l’editoriale di Nature, il movimento è ormai così cresciuto da trovarsi di fronte al dilemma se prendere la consistenza di una vera e propria comunità scientifica strutturata che possa richiedere il sostegno economico da parte dello Stato per portare avanti specifici progetti, oppure rinunciare all'”ingerenza” di una regolamentazione dello stato in cambio della libertà di perseguire i propri obiettivi senza scendere a patti con le regole dei bandi di supporto alla ricerca.
Anche se una percentuale piuttosto consistente dei DIYers (il 43 per cento) interpellati nello studio del Wilson Center dichiara la volontà di avere in futuro una struttura più organizzata e regolamentata, la natura originaria degli amanti della biologia fai-da-te potrebbe prevalere, lasciando il movimento come un gruppo di persone auto-organizzate che si trovano semplicemente per “fare” biologia.
Infatti, a differenza di quanto molti credono, gli intenti del movimento non sono “educativi” in senso stretto, così come dichiarato nella homepage del sito diybio.org: i DIYers vogliono diffondere la cultura delle biotecnologie attraverso attività hands-on e grazie alla possibilità offerta dalla biologia sintetica che semplifica in passaggi in qualche modo standard la manipolazione delle componenti biologiche, ma nel puro spirito della condivisione e di produzione peer-to-peer, così come avviene nei cosiddetti hacker- e maker-space.
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(Foto: Biohackers di ooleg da Flickr)
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