Gli hacker che craccano i codici informatici e li rendono pubblici, e i biologi che nei laboratori sequenziano frammenti di DNA e poi li condividono online, hanno in comune molto più di quanto un primo sguardo farebbe pensare. Secondo Alessandro Delfanti, anzi, la cultura che muove i primi sta contaminando le scienze della vita degli anni Duemila, dando vita a nuovi modi di fare ricerca e a nuove figure di scienziati.
Il sociologo milanese tratteggia il fenomeno nel libro Biohacker (Elèuthera), e definisce questi nuovi ricercatori come «biologi le cui pratiche rappresentano un remix di culture che aggiorna l’ethos della scienza tradizionale, includendovi elementi provenienti da hacking e free software». Si tratta, dunque, di figure che incorporano alcune delle caratteristiche classiche dello scienziato, aggiornandole con valori e pratiche nuove, derivate dagli sviluppi più recenti delle tecnologie dell’informazione e dalla cultura hacker.
Non sempre i nuovi biologi sono consapevoli del processo di contaminazione di cui sono protagonisti. Tuttavia, gli elementi di comunanza sono forti, e includono il desiderio di condividere le informazioni, l’insofferenza verso le burocrazie e le gerarchie tradizionali, la denuncia della segretezza e il desiderio di una maggiore partecipazione. Delfanti mette però in guardia dai facili manicheismi: non ci sono due mondi contrapposti, dove la scienza “open”, opera nell’interesse generale, mentre quella “chiusa” dei brevetti e delle pubblicazioni scientifiche classiche persegue esclusivamente un interesse particolare, sia esso economico o di prestigio. Spesso, infatti, l’approccio aperto non esclude il profitto, ma apre la strada a nuovi modelli di business legati alle scienze della vita, come la vendita di servizi atti a interpretare l’enorme mole di informazioni disponibili nelle piattaforme di condivisione, o l’impiego di quei dati nella ricerca farmacologica.
Anche per questo, la scienza dei biohacker è tutt’altro che uniforme, e lontanissimi sono i anche i mondi in cui queste figure si muovono. Essi vanno dai centri di ricerca veri e propri, che si farebbe fatica a inquadrare nel mondo della controcultura, ai laboratori condivisi accessibili tutti i curiosi della biologia, e costruiti con strumenti riciclati o copiati dagli originali e resi disponibili a tutti, oggi anche grazie alle tecniche della stampa tridimensionale.
Per descrivere a tutto tondo il fenomeno, il saggio prende in esame quattro casi con caratteristiche molto diverse fra loro. Due riguardano ricercatori di altissimo livello, il cui valore scientifico è ben misurabile con i parametri tradizionali degli indici di citazione.
Il primo è Craig Venter, lo scienziato-imprenditore simbolo stesso del biocapitalismo, che ha scelto di condividere su una piattaforma open access tutti i dati derivati da un megaprogetto di sequenziamento dei microrganismi marini (la Global Ocean Sampling Expedition), con l’idea di vendere poi i servizi legati a quell’enorme database ed eventualmente utilizzare ciò che altri biologi produrranno sulla base di quei dati per progetti futuri (per esempio, la creazione in laboratorio di batteri che producano idrogeno da usare come fonte energetica).
La seconda è Ilaria Capua, la scienziata italiana che ha sfidato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, spingendola a rivedere la sua politica sulla condivisione delle sequenze genetiche degli agenti patogeni, che prima della sua ribellione erano disponibili solo a pochi scienziati.
Gli altri due casi sono invece esempi di scienza “dal basso” e fanno entrambi riferimento in modo più esplicito alla cultura hacker. Sono il gruppo statunitense DIYBIO (Do-it-yourself biology), un network di persone che creano ambienti e laboratori per la ricerca biomedica accessibili a tutti i curiosi della scienza, e l’artista hacker Salvatore Iaconesi, che dopo una diagnosi di tumore cerebrale ha craccato e messo online i dati della sua cartella clinica, dando vita a un sito (La Cura) al quale tutti possono contribuire con suggerimenti di tipo medico o con forme diverse di supporto.
Il discorso prosegue con:
– La condivisione è già fra gli scienziati (che devono imparare a gestirla) di Nico Pitrelli
– Scienza, controcultura e responsabilità di Alessandro Blasimme
– I DIYBIO e il difficile passaggio dal piccolo al grande di Angela Simone
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(Foto: Biohackers di ooleg da Flickr)
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