Introduzione
In occasione della presentazione della Fondazione Giannino Bassetti (FGB) all’Università Vita-Salute San Raffaele lo scorso 6 Marzo, Francesco Samorè e Virginia Sanchini, coadiuvati da Tommaso Correale Santacroce, hanno spiegato come FGB, essendo ispirata dal concetto di innovazione responsabile, non possa che sostenere premesse filosofiche; assumendo quindi, in ultimo, una posizione non neutrale all’interno del dibattito filosofico contemporaneo.
Proprio in seguito alla domanda di uno studente della facoltà di filosofia, interessato a comprendere in che senso FGB intendesse il concetto di responsabilità – se nel senso attribuito ad essa dal bioeticista contemporaneo Tristam Engelhardt o piuttosto nella veste cautelativa che assume all’interno dell’etica jonasiana – abbiamo pensato potesse essere utile estendere la riflessione anche alla cerchia più vasta di coloro che seguono l’attività della Fondazione, attraverso la pubblicazione di questo breve contributo.
Il nesso sapere-potere: perché il concetto di Innovazione “fa problema”.
Per comprendere quali questioni filosofiche si intreccino con lo sviluppo e i filoni di ricerca promossi da FGB, occorre fare un passo indietro nella comprensione di che cosa si presenti, agli occhi della Fondazione, come una questione problematica. Se è vero, infatti, che la filosofia parte da ciò che considera un problema per tentare di sciogliere tale criticità attraverso la sua sistematizzazione, comprendere che cosa costituisca qui il nodo problematico può aiutare nel disvelare gli assunti filosofici impliciti nelle idee di FGB.
Nella pagina di apertura del sito, veicolo privilegiato attraverso cui FGB esprime le proprie idee e rende pubblici i propri interventi, compare quanto segue: “Mission della Fondazione Giannino Bassetti è promuovere l’innovazione responsabile”, dove innovazione responsabile viene a sua volta definita come “la capacità di realizzare l’improbabile”. Il concetto di innovazione responsabile – nonché le due nozioni che lo compongono ‘innovazione’ e ‘responsabilità’ – sembra essere dunque ciò su cui e a partire da cui ‘il pensiero’ di FGB si costituisce, incarnando quindi il problema filosofico centrale di cui sopra.
In occasione della lezione tenutasi presso la London School of Economics il 14 Maggio 2003, Piero Bassetti, sulla linea di quanto affermato da Bruno Latour in From matters of facts to states of affairs. Which protocol for the new collective experiments,afferma che l’innovazione – concetto abusato ma difficilmente usato appropriatamente, e certamente mai indagato con la profondità che esso richiederebbe – non deve essere confusa né con la scoperta né con la novità: “L’innovazione – quella vera – non è infatti né una scoperta né una novità, ma è l’agente di una nuova situazione, storicamente realizzata come risultante di una nuova combinazione di sapere e potere, di conoscenza e capitale. È in sostanza un avvenimento mai verificatosi prima che si realizza per effetto di una "nuova" combinazione di sapere e potere: come tale è sempre cambiamento” (Innovazione, rischio sociale e responsabilità politica). L’innovazione, concetto centrale di FGB, è dunque un fenomeno complesso, che nasce dall’intersezione di più saperi e livelli della vita umana: da quello scientifico a quello tecnologico, da quello imprenditoriale a quello istituzionale, da quello sociale a quello politico. La peculiarità del fenomeno dell’innovazione risiede, più propriamente, nell’essere quella dimensione che si situa al crocevia tra sapere e potere, nell’essere quel “qualcosa che si ha solo quando all’accrescimento di “sapere” che è implicito in ogni scoperta si aggiunge e si combina un’aggiunta di tecnologia e di potere attuativo (capitale) che tale scoperta implementa” (Nuova scienza e nuova politica).
L’etica della responsabilità come risposta alla dimensione politica dell’innovazione
Se l’innovazione in quanto tale non costituisce mai una novità unicamente epistemica ma comporta, tra le altre, anche l’irruzione delle dimensioni tecnologica ed economica, ciò che sembra conseguirne è che il progresso non risulta più, come un tempo, confinato all’interno dell’ambito scientifico e dei suoi operatori, ma acquista sempre più una connotazione politica, in seguito alla quale decade tanto l’illusione che l’innovazione possa rimanere a livello di pura teoresi senza avere ricadute sulla prassi, quanto quella che essa incida nella scelta dei mezzi ma non su quella dei fini. Entrambe queste premesse che caratterizzavano la ‘vecchia scienza’, la scienza pre-innovazione, si dimostrano non più attuali. Soprattutto la seconda premessa, secondo la quale l’impresa scientifica si limiterebbe alla scelta dei mezzi, degli strumenti, ma non a quella dei fini.
Se la scienza contemporanea ha a che fare con l’innovazione, e se l’innovazione è, insieme, sapere (conoscenza) e potere (tecnologia), allora essa cessa di essere strumento nelle mani della politica e di avere un potere politico subalterno, per acquisire invece un ruolo paritario. Parallelamente a tale processo, si modifica anche il ruolo dell’autore di tale processo che “da fornitore dei mezzi” si scopre “co-decisore” ( vedi Interview with Bruno Latour, ma anche The Politics of Science and the re-definition of democracy).
È qui che diviene centrale la seconda parte del binomio che costituisce la missione della Fondazione: quella di responsabilità. La natura non unicamente scientifica del concetto di innovazione – tale proprio in quanto “essa si è integrata nell’organizzazione del potere moderno” (Ivi), cessando di essere neutrale rispetto ai fini – comporta che essa si faccia responsabile. La possibilità di scegliere, di legiferare in merito ai fini dell’innovazione e non più unicamente ai suoi strumenti, rende l’innovazione capace di responsabilità, e dunque soggetta ad un campo di indagine non più solo scientifico o politico (o scientifico e politico insieme), ma immediatamente etico. Al crocevia tra sapere e potere, irrompe l’interrogativo privilegiato dell’indagine bioetica, la quale, fin dalla sua origine, chiede e si chiede se sia lecito fare, da un punto di vista etico e morale, tutto ciò che è anche tecnicamente possibile compiere.
La possibilità dell’irrompere incontrollato di quello che Hans Jonas ne Il Principio Responsabilità definiva “Il Prometeo scatenato” – la tecnologia moderna – la cui portata risulta imprevedibile e le cui conseguenze visibili solo nel lungo periodo, richiede, da un lato, la necessità di una presa d’atto di tale cambiamento insieme con le implicazioni in termini di principi morali che ne conseguono, dall’altro la produzione di regolamentazioni che vadano a normare, ma non a frenare, tale processo e che siano in linea con la realtà politica e morale a partire dalla quale tale processo ha preso avvio. Al fine di soddisfare la prima di queste finalità, autore di riferimento è appunto Jonas, mentre per quanto riguarda lo spirito che deve guidare il secondo obiettivo concorrono da un lato la bioetica secolare di Tristam Engelhardt, dall’altro la teoria politica della democrazia deliberativa.
L’apporto fondamentale consegnato alla storia dell’etica da parte di Hans Jonas consiste nell’aver mostrato il ribaltamento che l’etica ha subito in seguito all’aggiunta della componente tecnologica alla conoscenza, in seguito al presentarsi del potere accanto al sapere, anzi della presa d’atto che nessun sapere sganciato da potere risulti ormai possibile. Rispetto all’ingenua tèchne, neutrale sotto il profilo etico, rispettosa nei confronti delle “forze generatrici” (Il principio responsabilità, Einaudi, p. 5) della natura, la tecnica, risultato dello smisurato potere manipolativo dell’uomo moderno, non può più dirsi eticamente “indifferente”: essa si è infatti tramutata in “illimitato impulso progressivo della specie” (Ivi, p. 13) ed è divenuta fine dell’uomo e non più suo “semplice mezzo”. Da qui la definizione di tecnologia come “vocazione dell’umanità” (Ibidem), la cui destinazione sembra essere il dominio sulle cose e sull’uomo. “La consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia” (Ivi, p. XXVII) esige quindi un cambiamento di paradigma etico e precisamente un superamento dell’etica tradizionale. In particolare occorre prendere atto, e di questo FGB si fa espressa e diretta promotrice, che l’imperativo che dominava l’etica tradizionale, identificato da Jonas con l’imperativo categorico kantiano non può essere utile nella regolamentazione dell’innovazione contemporanea. La ragione di ciò va rinvenuta nel fatto che, se l’imperativo kantiano giudicava l’atto morale individuale nella sua immediatezza – meglio l’azione morale del singolo soggetto, indipendentemente dalle conseguenze prodotte dall’atto medesimo, perché fondato sulla credenza che ci fossero azioni giuste e azioni sbagliate in quanto tali – l’imperativo che deve guidare l’epoca della tecnologia deve prendere in considerazione la natura collettiva delle azioni, i cui effetti non hanno precedenti e non possono che essere misurati in termini di conseguenze a lungo termine sulla natura in generale e sulla natura umana in particolare. Proprio la presa di coscienza della mutata natura dell’agire umano mostra dunque infine, per Jonas e per la FGB che attraverso di lui parla, l’inattualità e l’inutilità di un principio che per certi aspetti può apparire logico, e la necessità di un imperativo che sia etico. È proprio il concetto di responsabilità che sembra in grado, agli occhi di Jonas, di fondare la nuova etica e di fornire una risposta appropriata alla mutata natura dell’agire dominato dall’innovazione.
Tuttavia, “[s]e la sfera produttiva è penetrata nella sfera del dominio dell’agire che conta, allora la moralità deve penetrare nella sfera produttiva, dalla quale da un tempo si era tenuta lontana, e dovrà farlo sotto forma di politica pubblica” (Ivi, p. 14). È proprio attraverso le parole di Jonas che FGB si distanzia da Jonas stesso. Una volta mostrate le ragioni del perché ci troviamo di fronte ad un mutamento radicale rispetto alla modernità, una volta accettata e fatta propria la critica jonasiana all’etica tradizionale e ai suoi principi, FGB abbandona la veste etica del principio responsabilità per guardare ad un diverso tipo di responsabilità, in grado di avere un peso nell’ambito pubblico: la responsabilità politica.
Se infatti il potere si è infiltrato nel dominio del sapere e se il sapere deve permeare, a sua volta, l’ambito di pertinenza del potere, allora non è più l’etica a poter suggerire la via per una regolamentazione responsabile, ma la politica. La domanda diviene allora quella di come elaborare politiche pubbliche in merito all’innovazione che tengano in considerazione il concetto di responsabilità. È qui che entra in gioco Engelhardt prima e i teorici della democrazia deliberativa poi.
La prima constatazione da cui una regolamentazione politica che sia aperta al confronto pubblico deve partire è il fatto del pluralismo. La difficoltà di sostenere a livello metaetico la legittimità incontrovertibile di un’unica verità, e la presenza del disaccordo morale come fondante le società occidentali contemporanee non sembra essere ascrivibile ad una parzialità di vedute o alla mancanza di una visione d’intero, quanto piuttosto ad una condizione etica fondamentale: il fatto che esistono più verità morali egualmente legittime. Tale dato di fatto sancisce definitivamente il fallimento del progetto di matrice illuminista di edificare la moralità sulla ragione e mostra l’impossibilità di una normatività vera e propria così come intesa dalle precedenti etiche sostantive. L’unica bioetica possibile è, per Engelhardt, la bioetica secolare, che rispetto alle bioetiche precedenti, fondate sull’affermazione di norme o principi sostantivi, è in grado di accogliere il fatto del pluralismo e la deriva procedurale che da tale affermazione sembra derivarne. Tuttavia la deriva libertaria che sembra seguire dalla posizione teorica di Engelhardt (nonostante egli stesso neghi tale deriva), è esattamente ciò che FGB sembra escludere attraverso l’appello al concetto di responsabilità.
Se è vero che il pluralismo è un fatto e che il disaccordo morale e politico risulta fondativo della società contemporanea, è anche vero che un proceduralismo puro non sembra poter tutelare dagli abusi del progresso tecnologico e dunque salvaguardare da quella deriva per frenare la quale era necessario introdurre il concetto di responsabilità.
Se dunque il contributo dell’etica secolare risulta essenziale nel riconoscimento e nella consapevolezza del disaccordo e del pluralismo morale, la deriva libertaria non sembra poter essere in ultimo accettabile per l’impossibilità di regolamentazione che da essa sembra derivare.
Se infatti la governance dell’innovazione esige l’attuazione di politiche pubbliche, e se qualunque regolamentazione non può ignorare l’esistenza del pluralismo, occorre trovare delle strategie che indichino non quale posizione sia più legittima rispetto alle altre, ma quale sia la strategia (in termini di procedure) più giustificata per affrontare e contenere di volta in volta il disaccordo morale in politica. È qui che entra in gioco l’ultimo attore del quadro politico di riferimento: la democrazia deliberativa. Proprio perché i progressi delle scienze biomediche, dalle tematiche che riguardano l’innovazione scientifica in senso stretto come la genomica, a temi di sensibilità più pubblica come l’allocazione delle risorse o l’etica ambientale, sollevano conflitti di valore che a prima vista sembrano troppo radicali per essere poi ricomposti senza provocare lacerazioni insanabili nel tessuto sociale, diviene sempre più centrale la prassi del “fornire ragioni”. L’idea fondante della democrazia deliberativa è dunque che al centro di una società democratica ben ordinata l’unico modo legittimo per prendere delle decisioni pubbliche sia quello di giustificarne, in forma di argomentazione razionale, le ragioni e le implicazioni, così che ciascuno, anche coloro che, nei termini di Engelhardt, sono “stranieri morali”, possano comunque comprenderne le ragioni. Accettare come principio di decisione pubblica l’argomentazione razionale significa naturalmente sostenere un proceduralismo non assoluto, proprio perché la teoria dell’argomentazione razionale comporta una serie di principi senza i quali un’argomentazione non potrebbe dirsi realmente tale (il rispetto di leggi logiche, il rispetto di un principio di coerenza tra premesse e conclusione, etc). Pur tuttavia, le regole implicate dall’argomentazione razionale non sono principi sostantivi perché non comportano l’assunzione di affermazioni di valore prestabilite o univoche, e dunque non cadono nell’ingenuità di non riconoscere il disaccordo morale e politico come espressione del pluralismo.
Se avvalersi di argomentazioni razionali sembra essere l’unica strategia di decisione pubblica legittima, assumere un principio di responsabilità nella governance dell’innovazione sembra dunque corrispondere alla messa in atto e al rispetto di tali forme di procedura anche nell’elaborazione di politiche dell’innovazione. Per concludere, “mettere a punto una nuova – e anch’essa innovativa – democrazia “tecnica” o “deliberativa” è allora una risposta indifferibile se vogliamo sostenere le sfide del nostro tempo evitando il pericoloso cortocircuito tra un potere che cresce col sapere e una legittimazione morale e politica che decrescono al crescere del divario tra il sapere del potere e il non-sapere di chi lo subisce” (P. Bassetti, Nuova scienza e nuova politica, cit., p. 15).
———————
(foto: The Fire Rises di f_mafra da Flickr)
———————