Nel prossimo decennio, a puntare risorse ingenti sullo studio del cervello umano non saranno solo gli Stati Uniti con il loro BRAIN (il nuovo nome dato al Brain Activity Map, del quale si è già parlato su questo sito). A fine gennaio, infatti, la Commissione europea ha annunciato che uno dei due progetti vincitori del Future and Emerging Technologies Flagship – la competizione lanciata nel 2010 allo scopo di definire le linee su cui si concentrerà la ricerca europea nei prossimi anni – è lo Human Brain Project, proposto dal neuroscienziato Henry Markram, del Politecnico Federale di Losanna. A questo, così come al progetto Grafene di Jari Kinaret, della Chalmers University of Technology di Göteborg (Svezia), andrà il mezzo miliardo di euro stanziato dall’Europa che, unito all’altro mezzo miliardo che dovranno erogare le istituzioni che partecipano, permetterà all’ambizioso programma di contare su un miliardo tondo, da spendere in 10 anni. La somma è inferiore rispetto a quella che gli Usa hanno detto di voler destinare al loro BRAIN, ma è comunque considerevole.
Lo Human Brain Project si basa su una filosofia diversa rispetto al programma americano, sebbene entrambi abbiano fra gli obiettivi quello di colmare le lacune conoscitive attuali sul funzionamento del cervello e individuare nuove terapie per le malattie neurologiche più diffuse. Ma se BRAIN vorrebbe farlo mappando l’intera struttura delle connessioni cerebrali, il progetto europeo intende invece costruire un modello computerizzato del cervello, che riunisca tutte le conoscenze che la scienza ha già prodotto su quest’organo, e anche quelle che saranno acquisite nei prossimi anni. In un’intervista a New Scientist, Markram spiega che «gli obiettivi sono tre. Via via che il modello diverrà più accurato e inizierà a comportarsi sempre di più come un cervello umano vero, potremmo incorporarlo in un robot per studiare i processi cognitivi […]. Inoltre, abbiamo in programma di raccogliere dati dagli ospedali di tutto il mondo, per individuare i segnali biologici delle malattie. Riteniamo infatti che una classificazione di questo tipo delle patologie cerebrali possa essere utile nella diagnosi, che oggi spesso si basa solo sui sintomi. Infine, vogliamo costruire un computer neuromorfico, che possa contenere processori capaci di apprendere, simulando ciò che fa il cervello umano».
Ma sebbene le ricadute in campo medico potranno essere importanti, a spingere Markram a proporre il progetto è stato soprattutto il desiderio di capire come funziona la mente, obiettivo che egli ritiene raggiungibile integrando i campi della conoscenza che l’hanno indagata, e unendo tutte i loro risultati in un modello unico informatizzato. «Vogliano raggiungere una comprensione unificata del cervello, e lo strumento più adatto è la simulazione su un super computer» dice lo scienziato. «Oggi abbiamo neuroscienziati che lavorano su piani diversi (genetico, comportamentale, cognitivo) e abbiamo informatici, chimici e matematici che analizzano la questione sotto altri punti di vista ancora. Ciascuno ha una sua idea di come il sistema nervoso centrale funziona ed è strutturato. Come facciamo a farli dialogare? […] Il modello informatico è il nostro strumento per mettere tutto questo assieme».
Le critiche non mancano. Alcune, simili a quelle incassate dal progetto BRAIN, sostengono che investire troppo fondi in un unico programma penalizzerà altri gruppi che, se finanziati, potrebbero invece portare visioni nuove e originali (Markram risponde che queste posizioni sono poco lungimiranti). Sul versante della medicina, poi, in molti ritengono che le promesse dei promotori dello Human Brain Project sono poco realistiche («gioverà più all’informatica che alle neuroscienze» ha dichiarato alla Reuters Stephen Rose, neurobiologo della Open University di Londra). Alcuni colleghi poi rimproverano a Markram, che parla in modo affabile e carismatico, un’eccessiva dimestichezza con i media e, per contro, una scarsa attitudine a confrontare le proprie idee con la comunità scientifica (queste critiche erano già state espresse su Nature, molti mesi prima che il piano venisse approvato). Notevoli sono inoltre le difficoltà tecniche: per esempio, si valuta che un computer abbastanza potente per soddisfare i requisiti dello Human Brain Project sarà disponibile solo nel 2020.
Sulla possibilità di comprendere i processi cognitivi e la mente attraverso un computer, si esprime infine un saggio pubblicato sulla rivista Plos Biology, e ripreso da Nature in un articolo dal titolo significativo: “La neuroestetica sta uccidendo la nostra anima.” Prendendo a esempio la disciplina che tenta di carpire i segreti dell’arte e dell’estetica attraverso le tecniche di imaging cerebrale, gli autori sottolineano che i metodi della scienza, per quanto sofisticati, sono del tutto inadeguati ad analizzare campi come l’arte o l’estetica. La ragione sta in parte nell’ingenuità di far coincidere il valore di un’opera d’arte con la sua bellezza (mentre, si osserva su Nature, l’apprezzamento delle opere di artisti come Marcel Duchamp o Joseph Beuys passa attraverso altri canali). Ma ci sono ragioni più profonde. Un esempio di questa inadeguatezza, infatti, è lo studio che il premio Nobel Wilhelm Ostwald, egli stesso pittore, ha condotto sul colore, giungendo a decretare che Tiziano aveva “usato il blu sbagliato”. Rispondendo allo scienziato Paul Klee disse che seguire le teorie di Ostwald, che tendeva a stabilire regole generali e fisse nell’uso dei colori, significava «rinunciare alla ricchezza dell’anima».
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(immagine: Sounds_of_Complexity12.jpg di Zeno_ da Flickr)
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