In questo post vorrei proporre un filo che scorre lungo numerosi articoli online che, da più fronti, trattano questioni vicine alle problematiche affrontate in questo sito. In particolare quelle relative ciò che in Fondazione Bassetti viene chiamata “innovazione poiesis intensive“.
1. The Economist
A metà gennaio The Economist ha pubblicato un bellissimo articolo dal titolo “Has the ideas machine broken down?” in cui si analizza se la capacità di innovare non solo stia rallentando ma si stia avviando verso un periodo di assenza di crescita. Il sottotitolo già chiarisce la posizione della rivista “The idea that innovation and new technology have stopped driving growth is getting increasing attention. But it is not well founded”.
Una delle cose che si può dedurre dall’approfondita analisi è che l’ambito in cui la società si sta sviluppando sembra si stia spostando su campi così diversi da rendere difficile il paragone con il passato. La velocità della crescita non sembra paragonabile alla velocità del cambiamento. Quali sono le vere innovazioni?
In un altro articolo, “The great innovation debate“, che si muove parallelamente a quello già citato, si segnala come uno dei punti più critici sia la difficoltà del governo ad accogliere le istanze dell’innovazione “The state has also notably failed to open itself up to innovation.”
2. Luca De Biase
Quasi contemporaneamente all’uscita di questi due articoli, Edge ha presentato la sua “domanda annuale 2013”: What *Should* We Be Worried About? E subito Luca De Biase, il quale fa parte dei 135 autori delle risposte, ha visto nella pubblicazione una sorta di risposta ai temi affrontati del primo articolo citato di The Economist.
“Edge: la domanda annuale 2013. E’, forse, una risposta all’Economist“.
Mentre presenta la domanda di Edge, commenta l’articolo di The Economist notando che “Una preoccupazione è che l’immaginazione degli umani si stia lasciando condizionare troppo dalla ‘macchina’, cioè dal sistema di logiche e apparecchiature che costituisce la macchina dell’innovazione.”
In effetti già il giorno stesso della pubblicazione dell’Economist, Luca De Biase aveva fatto l’associazione “Imagination and innovation. Edge and Economist” aprendo una porta a noi cara. Da diversi anni parliamo di innovazione poiesis intensive, quella innovazione la cui caratteristica principale non si trova nella tecnologia o nella spinta al guadagno o in altro che non sia una visione differente del percepire umano, della visione del mondo, della poetica che da individuale si esplica in una visione collettiva. Al contempo come innovazione noi consideriamo qualcosa che somma un plus di sapere (e/o di visione) e un plus di potere trasformando qualcosa che era ritenuto improbabile in qualcosa di concreto, di “accaduto”.
Così dice De Biase: “Human imagination creates a different kind of innovations. The Apollo project, which the Economist quotes, was an imagination masterpiece, with money and organization to make it come true. And imagination doesn’t come as a feature of any known machine or system. It goes beyond expectations. And creates visions and experiments that are concentrated on entirely new possibilities. With a touch of poetry.”
Il filo del discorso continua in altri due articoli della stessa mano: uno sulle frasi che scrisse Giuseppe Ungaretti per la rivista “La civiltà delle macchine” e un secondo titolato La scienza dell’immaginazione. In quest’ultimo si aggiunge un altro elemento: l’importanza della riflessione e della condivisione di un progetto nel mentre che lo si avvia verso il fare innovazione. Una riflessione che in Fondazione Bassetti cerchiamo sempre di stimolare e accendere.
E infatti su questa strada troviamo De Biase vicino alle nostre corde: “Perché è chiaro che accostando la ricerca scientifica e la ricerca artistica si trova che hanno qualcosa in comune. E’ in una dimensione dell’immaginazione. Ed è certamente nel processo di elaborazione della visione: cioè nel momento in cui l’immaginazione allenata e concreta degli scienziati, degli innovatori, degli artisti, riconosce un’opportunità che sposta i limiti del possibile.”
3. Edge
Su Edge si potrebbero spendere un sacco di parole. E’ indubbiamente un riferimento.
La domanda annuale si rivela sempre un segno importante e quest’anno ancora di più, vista quella che è: What *Should* We Be Worried About?
Ancora sto percorrendo il lungo elenco di risposte, fra cui spicca subito quella di Dan Sperber, ospite della Fondazione nel 2011 per la lecture annuale. Questo un passaggio: “What I am particularly worried about is that humans will be less and less able to appreciate what they should really be worrying about and that their worries will do more harm than good. Maybe, just as on a boat in rapids, one should try not to slowdown anything but just to optimize a trajectory one does not really control, not because safety is guaranteed and optimism is justified–the worst could happen–, but because there is no better option than hope.”
Le risposte, tra ansietà, visioni, analisi, recriminazioni, dichiarazioni… si potrebbero raccogliere in gruppi. Qualcuno interessa il nostro percorso più di altri: come utilizzare l’esperienza fatta con le grandi catastrofi, con gli eventi imprevedibili prima del loro accadere, come non negare i rischi ma al contempo procedere, la nostra incapacità di usare o creare modelli sui grandi rischi…
Altro gruppo potrebbe essere quello sulla difficoltà creata dall’eccessiva interazione che distoglie dalle vere problematiche, da una visione concreta e da una gestione delle reali necessità dell’essere umano. Il paradigma su cui agiamo sta cambiando, il governo o i governi riusciranno a gestire lo spostamento?
Interessante che il discorso si svolga sempre sul piano al limite della filosofia, ma spesso con idee molto concrete “si deve fare così, non bisogna agire così…”
La risposta di De Biase, “The Cultural And Cognitive Consequences Of Electronics”, si muove intorno ai temi citati al punto due di questo post con l’arricchimento di ulteriori elementi, come la definizione di ‘Info-pollution’ e altri aspetti che non lo vedono distante da altre posizioni tra gli autori scelti da John Brockman (Edge).
Ma la domanda posta da Edge non entusiasma tutti, anzi per qualcuno è anche di per se stessa un segnale preoccupante. Eppure, anche nella critica, la direzione del discorso porta ancora a parlare di conoscenza e poesia: (Kai Krause) “We do not have the insight that all the problems have become much too complex to be solved by our current methodology. The way the government is defined, the way it is run, the way it is chosen, the way it is funded, how it deploys the funds–it is all broken… Nothing to do with left or right, but seeing it as abstractly as possible: the individuals in their contract with society as a whole, are on the edge of cancelling.
And the only way out of all this is…. applied Sciences, if you think about it. Smart thinking, intelligent planning, systematic analysis. Beyond partisan opinions, outside corporate brands, without financial gain. Dealing with it almost as an art form: the beauty of an optimal path, the pleasure of finding a solution.”
Il video che segue si intitola “Art without authorship” è un esperimento di arte collettiva realizzato dal gruppo Pilobolus inseme al MIT al PopTech 2012.
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(foto: Pilobolus – PopTech 2012 – Camden Maine USA di PopTeach da Flickr)