Nella Lecture del 27 novembre scorso, Michael Bruch ha brevemente accennato al fatto che i media tendono a considerare i rischi derivanti dalle nanotecnologie alla stregua di quelli determinati dall’amianto. Per comprendere la vera natura di questa critica – che, come ha rilevato Bruch, può determinare l’accettazione della nuova tecnologia oppure il suo rifiuto – è utile ripercorrere la storia dell’asbesto, perché questa, almeno nelle sue fasi iniziali, è stata straordinariamente simile a quella delle moderne nanotecnologie e perché ha lasciato una traccia indelebile nell’immaginario, oltre che ferite profonde in molte comunità, in Italia e all’estero.
Le caratteristiche che hanno determinato la straordinaria espansione dei nanomateriali, a partire dagli anni Novanta, sono infatti molto simili a quelle che permisero all’amianto di diffondersi rapidamente all’inizio del Novecento. Riguardo alla tecnologia più recente, le slides 17-23 di Bruch illustrano bene il successo nanotech, ma nel corso della conferenza è emerso più volte anche che, proprio come per l’asbesto, questa diffusione è avvenuta senza che ci sia stata una valutazione esauriente del suo impatto sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori (certamente i più esposti) e dei consumatori. Peraltro, i rischi ipotizzati per le nanotecnologie, in parte già verificati dagli studi condotti finora, sono considerevoli. Infatti, anche se i nanomateriali finiti non sembrano rappresentare un problema (ma anche per l’amianto si diceva così, inizialmente), le nanoparticelle libere possono penetrare in profondità nei polmoni e raggiungere gli alveoli, provocare infiammazioni e danni ai tessuti, raggiungere il sangue ed essere trasportare a vari organi, compreso il cervello. Se possano raggiungere anche le pleure e determinare il mesotelioma è oggetto di studio, ma probabilmente una risposta non ci sarà presto, considerato che questo tumore – quando è dovuto alle fibre di asbesto – si manifesta in media a 40 anni dall’esposizione. Studi epidemiologici hanno comunque mostrato una correlazione fra la presenza di particelle ultrafini nell’aria e la mortalità, e il rilascio di nanoparticelle nell’atmosfera è un evento probabile in molte situazioni: nei luoghi di lavoro, in primis, ma anche in seguito a contaminazioni accidentali o per via dell’usura dei prodotti, legata all’impiego normale che se ne fa.
Non siamo agli inizi del Novecento e certamente il comportamento criminale tenuto dalle grandi multinazionali dell’amianto in passato non è oggi neppure ipotizzabile. Inoltre, va precisato che gli effetti più nocivi delle nanotecnologie riguarderebbero solo quelle che impiegano nanotubi di carbonio (ma il condizionale è d’obbligo). Eppure la storia raccontata da Bruch, l’espansione formidabile di un settore che promette moltissimo, l’apparente sicurezza dei prodotti finiti, e le perplessità che già emergono non possono non richiamare alla mente la vicenda dell’amianto, un minerale che, al pari dei nanomateriali, è forte, leggero, indistruttibile, oltre che ignifugo, fonoassorbente e anche facile da lavorare.
Per vari decenni, l’amianto è sembrato il materiale perfetto. Prodotto in milioni di tonnellate, nel suo periodo d’oro, ha fatto la fortuna di imprenditori e magnati al di qua e al di là dell’oceano. Perché con l’amianto, proprio come con i nanomateriali, si è fatto davvero di tutto, prima che le prove scientifiche che lo hanno inchiodato come uno dei maggiori cancerogeni del secolo venissero finalmente accolte dai governi, e che se ne vietasse l’utilizzo in molta parte dell’Occidente e in Giappone.
Se si escludono le sigarette, infatti, nessun altro prodotto fra quelli destinati al largo consumo ha fatto tante vittime. L’asbesto ha avvelenato il mondo per quasi cent’anni, ha ucciso dentro e fuori le fabbriche, e ancora continua a farlo. Perché se produrlo era semplice ed economico, eliminarlo costa invece moltissimo ed è un lavoro complesso e delicato. In Italia, a vent’anni dalla sua messa al bando ci sono in giro ancora circa 30 milioni di tonnellate di materiali contenenti amianto.
La diffusione su vasta scala è iniziata a partire dall’Ottocento: il primo miliardario dell’amianto fu Henry Ward Johns, che nel 1858 fondò a New York la Johns Manufacturing Company, destinata a diventare una delle più importanti aziende del settore, e che sarà coinvolta – a partire dagli anni Venti-Trenta del Novecento – in uno degli scandali più significativi della storia dell’amianto, scaturito dalle morti per asbestosi e tumori di molti dei suoi operai. Lo stesso Ward Johns, nel 1898, morì di asbestosi, ma nella seconda metà dell’Ottocento la faccia oscura del minerale che sembrava voler cambiare il mondo non si era ancora manifestata e, sotto la guida del suo fondatore, la Johns Manufacturing iniziò a produrre a pieno ritmo materiali amiantati di ogni tipo: dai pannelli catramati ai tessuti, dai rivestimenti per l’edilizia ai materiali isolanti. Nel 1901 l’azienda si fuse con la Manville Covering di Milwaukee (Wisconsin), formando il colosso Johns-Manville. All’Esposizione Universale di New York del 1936, la società si presentò con un padiglione interamente costruito di asbesto: ad accogliere i visitatori all’ingresso c’era una statua alta circa tre metri, che rappresentava un uomo vestito con una tuta ignifuga, tutto fatto di amianto.
Già allora, comunque, la company newyorkese non era più la sola attiva nel settore. A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, infatti, l’apertura di alcune importanti cave in Canada aveva reso più facile l’approvvigionamento e diversi imprenditori si erano quindi lanciati su quel promettente mercato. Nel 1901, poi, l’austriaco Ludwig Hatschek aveva inventato e brevettato una miscela di amianto e cemento, destinata principalmente all’edilizia e alla cantieristica navale e l’aveva battezzata Eternit (l’italiano Adolfo Pietro Mazza, acquistò la licenza nel 1906 e aprì lo stabilimento di Casale Monferrato). E sempre nella prima metà del secolo scorso, anche il vinile era stato fuso con l’asbesto, per creare piastrelle con cui pavimentare scuole, ospedali, caserme e palestre.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, e fino almeno alla metà degli anni Ottanta, l’asbesto fu messo davvero dappertutto. Nell’edilizia, preveniva la propagazione di eventuali fiamme, proteggeva gli impianti elettrici e le tubature e permetteva anche di risparmiare sulla bolletta del riscaldamento, grazie alle sue notevoli proprietà isolanti. A New York e in altre grandi città, i grattacieli poterono salire sempre più in alto solo grazie all’Eternit e ai rivestimenti amiantati, che li rendevano più solidi e che proteggevano l’intera struttura dalle deformazioni causate dagli incendi, piuttosto comuni in quell’epoca. Contenevano inoltre amianto i sipari dei teatri, le presine da cucina, i guanti da forno, le tende, i tappeti, le tovaglie e molti abiti da lavoro. Miscelato con la plastica e la carta, l’asbesto finì poi in moltissimi oggetti di uso comune, fra cui telefoni, stivali, giocattoli, asciugacapelli, ferri da stiro, sacchi dei postini, cartone. Il minerale divenne così alla moda che furono messi in commercio anche prodotti nei quali l’utilità di includerlo pare oggi davvero remota, come un dentifricio. Dal 1950 al 1979, la produzione giunse addirittura a quintuplicare. Eppure, da molto tempo alcuni ricercatori avevano lanciato l’allerta. Nel 1936, quando la Johns-Manville esponeva a New York il suo uomo d’asbesto, i devastanti effetti sulla salute legati all’inalazione delle polveri di quel minerale erano già in parte noti. Ma era anche già cominciata la complessa strategia volta a nascondere prove del rischio, portata avanti dalle industrie con investimenti notevoli, ed estremamente efficace.
La storia della ricerca scientifica su amianto e salute è cruciale, perché nei numerosi processi che hanno visto contrapposti gli interessi degli industriali a quelli della popolazione e dei lavoratori, la difesa dei primi ha sempre sostenuto che, all’epoca dei fatti contestati, gli studi sulla nocività del materiale erano ancora molto controversi. La ricostruzione storica mostra invece chiaramente che non è così, e che anche il potere politico, per molti anni, è stato assoggettato a quello delle grandi company. I primi studi sull’asbestosi sono della fine dell’800, quelli che dimostrarono che l’esposizione provoca il tumore al polmone sono degli anni Cinquanta, mentre le prove sul mesotelioma sono di poco successive. Su queste basi, la sentenza del processo Eternit, che si è concluso a Torino nel 2012, ha condannato per disastro ambientale permanente doloso e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne, ultimi responsabili della Eternit italiana, fallita nel 1986.
La sentenza ha fatto scuola, ma in Italia e all’estero le vittime che non hanno avuto giustizia né risarcimenti sono la maggioranza, e solo lungo lo Stivale l’amianto continua a causare 3.000 morti all’anno. È stato calcolato che in Europa si sarebbero potuti evitare 400.000 decessi se le limitazioni sulla produzione e la commercializzazione dell’asbesto fossero state decise quando gli studi scientifici iniziavano a renderne manifesta la pericolosità del minerale. È inevitabile che, con una ferita così profonda ancora aperta, qualsiasi tecnologia che richiami quella vicenda sia vista con sospetto. Sottovalutare questo sentimento, quando si parla di nanotecnologie, può minare all’origine ogni tentativo di dialogo.
(foto: Anthophyllite Asbestos Scanning Electron Microscopy (SEM) di Asbestorama, da Flickr)