Nell’ultimo decennio la scienza biomedica è stata protagonista di una fortissima accelerazione, dovuta allo sviluppo di nuove tecnologie che permettono di studiare con una precisione sempre maggiore i meccanismi che sono alla base della vita e di intervenire per modificarli, con finalità terapeutiche o di human enhancement. I gameti che, unendosi, danno origine a una nuova vita, le singole cellule dell’organismo e il loro Dna, che nell’immaginario comune è l’oggetto biologico che più caratterizza il singolo essere umano, sembrano ormai non avere più segreti, al punto che la loro manipolazione è oggi alla portata di numerosi laboratori, anche non particolarmente avanzati. Queste potenzialità aprono tuttavia anche nuove domande, che risultano tanto più urgenti se si considera che la nostra capacità di creare innovazione è superiore rispetto alla capacità di prevederne le conseguenze, e che gli strumenti normativi tradizionali non sembrano adeguati a governare le possibilità che emergono dalla moderna tecnoscienza. Per dirla con le parole di John Dewey «le società tecnologiche generano costantemente issues, problemi che sono resistenti ai tentativi nell’ambito delle istituzioni esistenti».
Questa considerazione è stata il punto di partenza del seminario che la Fondazione Bassetti ha organizzato lo scorso 4 giugno, attorno al libro di Helga Nowotny e Giuseppe Testa Geni a nudo (Codice), che attraverso l’analisi di casi reali, come la vicenda della deCode in Islanda, la questione del doping genetico, o quella della genomica personalizzata, contribuisce a definire il nuovo problem setting che si va creando con lo sviluppo delle biotecnologie.
(In fondo pagina il video del seminario in quattro parti e le fotografie)
Il titolo del saggio chiarisce le intenzioni degli autori e mette i primi punti fermi. Come ha spiegato Giuseppe Testa, direttore del laboratorio di epigenetica delle cellule staminali presso l’Istituto europeo di oncologia, la versione originale tedesca era “geni trasparenti”, poi tradotto nell’inglese naked genes e infine in italiano, a indicare il processo di progressiva messa a nudo della nostra realtà biologica, operato dalla scienza. «Questa vertigine di visibilità potrebbe far pensare che ora che vediamo tutto più chiaramente la soluzione sia più a portata di mano e più semplice, in un’ottica tecnocratica in cui le cose basta vederle affinché si possa poi governarle» ha spiegato l’autore. «In realtà non è così: il grande movimento della public understanding of science dimostra che spiegare di più e meglio a quanti più attori politici possibili non permette di trovare una soluzione, ma piuttosto crea una presa di distanza».
Diversi fattori contribuiscono a determinare questo scetticismo. Michele Di Francesco, (Università Vita-Salute, Milano) ha per esempio fatto notare come l’idea di trasparenza implica un’ambiguità di fondo: «Chiamiamo trasparente ciò che in realtà è un accesso a un livello di opacità che riteniamo fondamentale. Se faccio sparire tutte le dimensioni dell’umano, tranne quella biologica, la trasparenza sono i geni. È un’operazione importante, che però permette di individuare solo uno dei livelli in cui si può descrivere la realtà umana». Si tratta, dunque, di una scelta riduzionistica, attraente per un comunicatore che deve rappresentarla al grande pubblico o ai decisori politici, ma opinabile. Il libro di Testa e Nowotny, anzi, in più punti si schiera contro la visione riduzionista, anche alla luce delle più recenti scoperte scientifiche sull’epigenetica e sui meccanismi ambientali che modificano l’espressione del Dna, contribuendo – al pari e forse più dei geni – a determinare ciò che ciascuno è.
Un secondo motivo di scetticismo è che appare ormai sempre più chiaro che, almeno in biologia, la separazione fra il momento conoscitivo e quello normativo non ha più senso, perché l’atto conoscitivo comporta l’impiego di tecniche che già perturbano e modificano quanto osservato. Aggiungendo una dimensione dinamica alla scienza, questo pone una nuova relazione fra sapere e potere. Come gli autori chiariscono nel libro, la genomica e la biomedicina pongono fin dall’inizio il problema della loro subordinazione alla politica. Giuseppe Longo (Università di Trieste), ha osservato che questa tendenza riguarda comunque anche altri rami della scienza, perché le discipline che si basano sull’osservazione pura sono in realtà pochissime (forse nessuna, eccetto la cosmologia). La caratteristica peculiare della biomedicina, però, è che tocca corde particolarmente sensibili. Quando la distinzione fra ciò che è naturale e ciò che è artificiale sfuma in un ambito così vicino all’uomo, la diffidenza e timori diventano inevitabili. «L’uomo si è sempre integrato con l’altro, per costruire oggetti che sono altro da sé» ha osservato Longo. «Oggi però le preoccupazioni sono più radicali perché l’evoluzione verso il post umano è rapidissima: con i computer e le macchine della mente questa integrazione e ibridazione è già molto forte. Questa velocità di progresso fa sorgere resistente valoriali e le intrusioni in punti ritenuti essenziali come portato evoluzionistico sono viste con grande preoccupazione».
Il doping genetico è in questo senso significativo, perché entrando in profondità nell’organismo, modificando i geni, rende sempre più difficile distinguere ciò il naturale dell’artificiale. «Questo tema è particolarmente interessante perché il doping si inserisce in un ambito, lo sport, che ha una dimensione ludica e apolitica ed è quindi astratto dalla dinamica storica» ha osservato Piero Bassetti. Qui l’accelerazione è stata più forte che altrove, motivo per cui, ha sottolineato Testa, «il doping è una grande anteprima del mondo che verrà. Ha a che fare con lo sport, che è dominato dall’ideale del perenne miglioramento, e le controversie che vediamo ora sorgere attorno a questo tema saranno riprese per questioni non agonistiche».
Ulteriori motivi di diffidenza nei confronti della biomedicina più avanzata sono poi legati agli ingenti interessi economici che muovono le ricerche in questo campo, e al fatto che gli studi – anche quelli che gli scienziati chiamano “di base” – coinvolgono ormai sempre più spesso soggetti umani e, in qualche caso, intere popolazioni. La vicenda della deCode, azienda che voleva sottoporre all’esame genetico l’intera nazione islandese con lo scopo di identificare i geni che predispongono a moltissime malattie, è esemplare. Ma se quello islandese è un caso limite, molto più comuni sono invece le controversie sui brevetti di geni legati a condizioni o patologie specifiche, o persino di animali modificati al fine di farne modelli di studio, come l’oncotopo, un animale da laboratorio particolarmente suscettibile ai tumori, il cui brevetto è stato concesso negli Usa e negato in Canada. Così, come ha indicato Adriano Pessina (Università Cattolica di Milano) il discorso sulla governance non può prescindere dagli effetti reali di queste tecnologie sulla vita delle persone, né dalla consapevolezza che lo sviluppo della tecnoscienza richiede fondi ingenti; «poiché le risorse non sono infinite, dobbiamo valutare se ne vale la pena. Di fatto, i progressi più recenti della medicina non hanno fatto altro che cronicizzare molte malattie, generando costi aggiuntivi per la società». Un limite ulteriore, sottolineato da Gianluca Bocchi (Università di Bergamo) è posto poi dal nostro essere umani: «siamo portati a pensare che per raggiungere certe conoscenze sia sufficiente avere tempo e soldi. Ma chi ci dice che per fare modelli realistici di quel che accade in biologia non dobbiamo impiegare un numero di scienziati irraggiungibile nella pratica?».
Gli interventi normativi, dunque, devono svolgersi alla luce delle conoscenze scientifiche di cui si dispone, tenuto conto, ha sottolineato Piero Bassetti, «che l’innovazione non è la scoperta, ma l’implementazione della scoperta. Scoprire non innova in sé perché affinché ci sia innovazione è necessario un gesto di potere. Se si escludono le tematiche energetiche, la scienza solitamente ignora la dimensione del potere».
«La rappresentazione epistemica e quella politica vanno studiate insieme» ha detto Giuseppe Testa. «Quindi il libro mette sullo stesso livello le tecnologie scientifiche e quelle umane (diritto, governance e bioetica) che regolano e disciplinano e incardinano lo sviluppo entro limiti socialmente robusti». Gli strumenti normativi adatti a governare un sistema complesso come la tecnoscienza, devono essere al tempo stesso flessibili e capaci di fare delle standardizzazioni confacenti a quelle della scienza. All’interno del principio di precauzione, per esempio, si potrebbe prevedere l’introduzione del concetto di reversibilità. La flessibilità e la reversibilità sono poi entrambe presenti nel modo di procedere della Human Fertilization and Embriology Authority, che regolamenta la procreazione assistita e la ricerca sugli embrioni in Inghilterra, le cui decisioni non sono definitive e sono sottoposte al doppio vaglio del comitato di esperti e di strumenti che prevedono la partecipazione di non esperti.
Il libro lascia comunque un finale aperto, nella consapevolezza, sottolineata da Sebastiano Maffettone (Luiss Guido Carli, Roma), che «la risposta politica e morale comunque è indispensabile». Nel suo intervento, Maffettone ha tracciato uno schema del tipo di considerazioni che potrebbero muovere tale risposta. Innanzi tutto, «è importante capire che cosa si può fare e che cosa non si può fare sotto il profilo dell’etica e della morale». In questo senso, è esemplificativo il quesito sulla legittimità degli interventi sul Dna delle cellule germinali, capaci di trasmettere la modifica genetica ai figli. «Se si può eliminare un difetto con un intervento genetico, non sarebbe meglio poterlo fare anche per le generazioni future?» ragiona Maffettone. «Ma occorre definire il limite fra intervento negativo o positivo, perché il rischio è di sconfinare nell’eugenetica». Un altro aspetto riguarda il livello a cui si interviene. Sebbene oggi la genomica si rivolga al singolo o, al più, alla sua stretta cerchia familiare, la possibilità di intervenire sulla società o sulla specie umana non va esclusa a priori. Il primo caso, che comporta per esempio l’esecuzione di screening genetici sulla popolazione, è di fatto già attuale per condizioni specifiche che traggono sicuro giovamento da una diagnosi certa e tempestiva (per esempio, lo screening neonatale per la fibrosi cistica permette di scoprire senza margini di dubbio, già nei primi giorni di vita, una malattia che, se diagnosticata tempestivamente, è trattata con maggiore efficacia). I problemi sorgono però per i test che individuano predisposizioni a malattie che sono in buona parte determinate anche dall’ambiente e dagli stili di vita. Considerati i costi dei test genetici, e la dubbia utilità di un risultato che non dà nessuna certezza, non sarebbe più utile per la popolazione implementare programmi di prevenzione basati sugli stili di vita? Quando si ragiona al livello di specie, infine, la tentazione del riduzionismo induce a ritenere che la genetica possa essere usata per dare pari opportunità genetiche alle persone. «Bisogna però resistere al determinismo genetico» ha concluso Maffettone. «Nessuno sa quanto le caratteristiche individuali dipendono dall’ambiente e quanto dai geni; la soluzione non è creare uguaglianza attraverso la genetica, ma creare uguaglianza di opportunità».
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