Il fenomeno Open Science non può essere relegato alla cornice della discussione accademica. Investe invece tutte le componenti delle società moderne, e in primo luogo i decisori politici e coloro che sono responsabili dell’accesso alle informazioni per i cittadini. Iniziamo il cammino di quella che è stata definita la Primavera accademica, puntando i nostri riflettori sul caso americano. Nel prossimo articolo, vedremo come l’Europa e i suoi Paesi membri hanno risposto alla chiamata all’open access.
Di open access, o accesso gratuito e libero alle pubblicazioni scientifiche si parla già da diversi anni.
E sicuramente non è stato il movimento Open Data a dare lo sprone a iniziare un percorso per ripensare in maniera profonda il sistema che sovrintende alla comunicazione tra pari nel mondo della ricerca, affinché la circolazione dei risultati scientifici potesse essere davvero libera e fruibile in maniera piena in primis dai ricercatori e poi da un pubblico più vasto.
Probabilmente possiamo dire che in qualche modo è il vero il contrario: la cultura open, che da anni permea anche il settore scientifico, ha creato solide basi per “esportare” anche in altri ambiti, come la pubblica amministrazione, la mentalità del libero accesso a dati che dovrebbero essere a disposizione dei cittadini.
Negli ultimi mesi, tra social media e banconi di laboratorio, si parla sempre più insistentemente di open science. Mentre alcuni studiosi dei processi del rapporto scienza-società (in verità, davvero pochi), come ci ha raccontato in questo sito Ann Grand, si riferiscono con l’espressione “open science” allo sviluppo di nuove forme di apertura totale dell’intero percorso scientifico (ideazione, realizzazione, pubblicazione) ai cosiddetti saperi laici (ovvero, cittadini non esperti), per la maggior parte dei ricercatori e nell’uso comune mediatico, open science coincide con l’idea dell’accesso ai paper scientifici in maniera gratuita da parte di tutti.
L’apertura della scienza pubblicata ha una motivazione forte, ormai sostenuta da più voci anche istituzionali, che, travalicando il campo strettamente accademico, approda al campo dei diritti di informazione, ma non solo, del cittadino globale: se una ricerca è stata sostenuta e portata avanti con finanziamenti pubblici, quindi mediante le tasse pagate da tutti i cittadini, perché il frutto della ricerca, la pubblicazione, dev’essere blindata dietro un sistema a pagamento oneroso che un comune cittadino non può permettersi?
Le grandi case editrici che pubblicano le più importanti riviste nel mondo della ricerca (in termini di Impact Factor, ovvero l’indice calcolato sul numero medio di citazioni di paper pubblicati da una rivista nei due anni precedenti e ricevute in un anno, e valore di riferimento per valutare la qualità di un journal scientifico) concedono l’accessibilità mediante abbonamenti o vendita del singolo articolo a caro prezzo (dai 15 ai 30 dollari circa per paper). Quindi attraverso costi che centri di ricerca e biblioteche, in tempi di tagli e austerità, fanno ormai fatica a sostenere. E, sottolineano i sostenitori dell’open science, anche alle spalle del lavoro gratuito dei peer reviewers, gli accademici che garantiscono la valutazione dei lavori scientifici, su cui si basa il processo di avanzamento scientifico.
La discussione sull’open science, ormai ribattezzata dai media come la “primavera accademica” (o “academic spring”, volendo espressamente richiamare l’espressione “arab spring”, usata per descrivere la rivoluzione politica di diversi stati in Nord Africa e Medio Oriente dello scorso anno, sostenuta dall’intensivo e massiccio uso della rete e dei social media), è diventata molto aspra negli ultimi mesi a partire da un casus belli statunitense, ma che ha intercettato l’interesse e la mobilitazione di tutta la comunità scientifica globale.
Il 16 dicembre 2011 nel Parlamento degli USA era stata infatti presentata la proposta di legge “Research Works Act” «per assicurare la continuità nella pubblicazione e la qualità degli articoli scientifici valutati da peer-reviewers da parte del settore privato». In poche parole, la proposta mirava a eliminare la possibilità, già in uso dal 2009, da parte degli NIH (National Institutes of Health, i centri di ricerca più importanti in tema di biomedicina negli States) di rendere pubblici e gratuiti i risultati delle proprie ricerche, già pubblicate in riviste a pagamento, nella consultatissima library online PMC.
La proposta di legge, prontamente appoggiata dall’Associazione Americana delle case editrici, aveva spaccato in due il mondo delle pubblicazioni. Mentre perfino grandi colossi, come le case madri di riviste quali Nature e Science, si dissociavano dalla proposta, altre case editrici come Elsevier, proprietaria di riviste molto quotate nel campo delle scienze della vita, quali Cell, hanno appoggiato formalmente il tentativo di imbrigliare l’accesso gratuito alle ricerche biomediche finanziate con fondi pubblici.
Il risultato è stato che, nel giro di poco tempo, sia sulla carta stampata (come nel caso del New York Times) che sui social media è partita una compatta campagna di boicottaggio di Elsevier da parte dei ricercatori: firmando una petizione, chiamata “The Cost of Knowledge” (“il costo della conoscenza”), gli scienziati dichiaravano di non voler più pubblicare su riviste Elsevier.
Dopo alcuni mesi di resistenza e, in parte di mediazione, la casa editrice il 27 febbraio 2012 si è arresa alle oltre 12000 firme raccolte dai ricercatori e si è trovata costretta a togliere l’appoggio al Research Work Act con una nota pubblica. E le stesse parlamentari che lo avevano proposto, lo stesso giorno hanno interrotto l’iter legislativo.
Il caso Elsevier ha quindi riportato alla ribalta tematiche che covavano sotto le ceneri del mondo accademico e che già attraverso pratiche concrete, come l’utilizzo e la creazione sempre più diffusi di riviste (emblematico è il caso PLoS) e archivi digitali ad accesso libero, stavano minando il mondo delle pubblicazioni scientifiche, così come lo conoscevamo prima che internet irrompesse sulla scena.
E a partire da un caso americano l’onda lunga è arrivata in diverse parti della diffusa comunità scientifica e politica, come ormai sovente succede in un mondo globalizzato e iperconnesso.
Anche perché garantire l’open access alle pubblicazioni scientifiche non è solo un argomento di discussione strettamente relegato alle università e ai centri di ricerca: la libera circolazione della conoscenza è un obiettivo anche di governanti e policy-makers, e di tutti coloro che sono responsabili della comunicazione della ricerca scientifica e dell’accesso alle informazioni dei cittadini.
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(photo: Three signs your corporate culture isn’t ready for the open source way by opensourceway from Flickr)