Dagli echi americani alle azioni del Vecchio Continente sul tema Open Science. L’Unione Europea punta molto sull’accesso gratuito alle pubblicazioni scientifiche, sia per una questione di trasparenza nei confronti dei cittadini europei, sia perché passaggio inevitabile in un periodo di recessione economica, con cui i decision makers della UE devono fare i conti. Tra diritto di sapere come vengono spesi i soldi pubblici e necessità di spingere il trasferimento tecnologico, l’indagine sull’open science, in questa seconda parte, pone l’attenzione sull’Unione Europea.
Il caso sul “Research Works Act” (vedi post precedente) ha risollevato un’intensa discussione tra i corridoi legislativi e accademici americani, ma ha anche riacceso i riflettori e riaperto il dibattito mai sopito sull’importanza dell’open access in tutto il mondo.
Non solo perché esigenza da parte dei ricercatori più sensibili all’argomento, ma anche perché visto come impegno non più eludibile a diffondere in maniera ampia il risultato di ricerche finanziate con soldi pubblici, da parte di decision makers e di coloro che sovrintendono alla distribuzione dei fondi alla ricerca e all’accesso alle informazioni. Sia in nome di una trasparenza che i cittadini ormai richiedono a gran voce in ogni campo, sia perché una condivisione rapida e senza oneri per i potenziali lettori velocizzerebbe l’eventuale trasferimento tecnologico e la sfruttabilità da parte delle imprese dei risultati della ricerca (in poche parole, si incrementerebbe il processo di exploitation).
L’imperversare di una crisi economica che governi (e quindi, di riflesso, Università) in più parti del globo attraversano già da alcuni anni, ha poi esasperato il dato di fatto che la sostenibilità dei costi degli abbonamenti a pubblicazioni scientifiche da parte di centri di ricerca e biblioteche è ormai in bilico.
Anche grandi e ricche università, come la prestigiosa Harvard University, nei primi mesi del 2012 hanno sollecitato i propri ricercatori a intraprendere la via delle pubblicazioni ad accesso libero per tagliare i costi crescenti e sempre più insostenibili di sottoscrizioni a riviste scientifiche a pagamento.
Uno scenario che indica che l’open science non è solo un’esigenza “ideologica”, ma ormai una ben radicata esigenza economica a cui i decisori politici, che hanno la responsabilità su come finanziare e diffondere la ricerca pubblica, devono far fronte.
L’Unione Europea già da qualche anno ha intrapreso il cammino dell’apertura alle pubblicazioni ad accesso gratuito per il pubblico. Il primo passo è stato compiuto poco dopo il lancio del Settimo Programma Quadro (Seventh Framework Programme-FP7, iniziato nel 2007 e che finirà nel 2013), lo strumento mediante cui la Commissione Europea elargisce i fondi di sostegno alla ricerca in Europa, per garantire una più ampia diffusione dei risultati derivati dai progetti sostenuti dall’FP7.
I programmi quadro, anno dopo anno, sono diventati un mezzo piuttosto diffuso e conosciuto da parte dei ricercatori: il taglio dei fondi nazionali alla ricerca nella maggior parte degli stati membri della UE ha fatto sì che la risorsa europea diventasse l’unico canale di sopravvivenza per alcuni settori di ricerca e il principale supporto per tutti gli altri. L’aver quindi abbracciato il processo di open access a partire dal Programma Quadro è stato quindi un segnale importante da parte dei decision makers europei.
Nell’agosto 2008, la Commissione si è impegnata a massimizzare la diffusione dei risultati delle ricerche europee attraverso una clausola vincolante per i ricercatori che accedono ai finanziamenti. Ha lanciato infatti l’iniziativa pilota Open Access che impone ai ricercatori, che ricevono il finanziamento per progetti FP7 in 7 specifici campi (energia, ambiente, salute, ICT, e-infrastructures, science in society, scienze umanistiche e economiche), di depositare in repositories aperte e istituzionali (di proprietà di centri di ricerca europei o speciali infrastrutture appositamente create dalla UE) i propri peer-reviewed papers.
Il deposito deve avvenire entro un periodo di embargo di 6 o 12 mesi al massimo (a seconda del settore tematico), se si tratta di articoli pubblicati su riviste non open access, mentre dev’essere contestuale alla pubblicazione, per articoli accettati da giornali ad accesso libero.
Il periodo di embargo è concepito per garantire un ritorno economico alle riviste che basano il proprio core business sulla vendita degli accessi, anche se limitato per un certo periodo di tempo, ma senza bloccare del tutto e per sempre la condivisione di quei risultati dietro la cortina di un pagamento.
Un meccanismo di open access basato sul fattore tempo e sull’archiviazione in siti-raccoglitori e accessibili a tutti, definito anche Green Open Access, che stravolge solo in parte i meccanismi classici della pubblicazione scientifica.
Allo stesso tempo, però, la UE, sempre attraverso l’FP7, sostiene e rimborsa la spesa per le pubblicazioni Gold Open Access, ovvero su journals accessibili dal pubblico senza costi, ma che per richiedono il pagamento di una fee da parte dei ricercatori che vogliono pubblicare per sostenere le spese di gestione (è il modello di business, per esempio, delle riviste come PLoS).
A marzo, la UE ha anche pubblicato i dati della consultazione online “Survey on Scientific Information in the Digital Age“, svoltasi tra giugno e settembre 2011 tra 1140 stakeholders di vario tipo e interessati all’accesso ai risultati e ai dati contenuti nelle pubblicazioni scientifiche.
Quasi 9 persone consultate su 10 hanno dichiarato che esiste un grosso problema di accessibilità alle pubblicazioni scientifiche, soprattutto a causa degli alti costi che le case editrici impongono per la lettura del singolo paper e per gli abbonamenti. E il 90% dei rispondenti crede che in linea di principio tutte le pubblicazioni, frutto di ricerca finanziata con fondi pubblici, debbano essere a disposizione della cittadinanza, senza vincoli di costo.
Andando poi a guardare le opinioni sull’accesso ai veri e propri dati di ricerca, le risposte degli intervistati non mutano di molto. L’accesso e il riutilizzo, senza costi, è ancora una volta l’obiettivo a cui tendere.
L’ultimo importante passo in campo europeo in tema di open science è stato compiuto da Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione Europea e responsabile dell’Agenda Digitale Europea, strumento per “sfruttare al meglio il potenziale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per favorire l’innovazione, la crescita economica e il progresso”.
Lo scorso aprile, in occasione dell’Opening Science Through e-Infrastructures European Federation of Academies of Sciences and Humanities Annual Meeting, dal titolo già simbolico “Open infrastructures for Open Science“, Neelie Kroes nel suo speech ha criticato in maniera aperta il modello delle pubblicazioni a pagamento che non tengono conto dell’uso ormai massivo di internet, che ha praticamente azzerato i costi di distribuzione e diffusione delle informazioni e delle pubblicazioni.
Inoltre, ha preannunciato un impegno formale e legislativo da parte della UE, tramite la preparazione e la promulgazione di una comunicazione e una raccomandazione esclusivamente dedicate al tema dell’open science in Europa.
Un impegno quindi a tutto tondo da parte della UE nel promuovere e spingere il mondo della ricerca europea sempre più verso il modello open science.
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(foto: Open windows di J. Kleyn ∞ da Flickr)