Recensione del libro di Gaia Barazzetti: Libertà e medicina. Il principio di autonomia nell’etica biomedica
Il concetto di autonomia non è certo un’invenzione recente all’interno del pensiero filosofico. Tuttavia il principio da che da esso si ispira e che vuole proporre una nuova modalità di considerare la relazione terapeutica curante-curato – il principio di autonomia del paziente – risulta un’invenzione della bioetica statunitense del ventesimo secolo, perché si tratta di una nozione sconosciuta all’interno dell’etica medica tradizionale di stampo ippocratico, nonché in quanto cambia radicalmente il modo di pensare i problemi morali posti dal progresso tecnologico in medicina.
Lo sforzo preciso e impeccabile del testo di Gaia Barazzetti – Libertà e medicina. Il principio di autonomia nell’etica biomedica – risulta indirizzato ad inserirsi all’interno di tale dibattito, da un lato ricostruendo la genesi del principio di autonomia all’interno della genesi della nascita della bioetica entro il contesto statunitense, dall’altro analizzando con sguardo critico le principali linee di sviluppo teorico del principio di autonomia, prendendo infine posizione per un modello in prima persona di stampo kantiano.
Nella prima parte del testo, Gaia Barazzetti inizia con il tracciare una storia delle origini della bioetica negli Stati Uniti, individuando in Albert Jonsen e David Rothman i nomi di coloro che hanno fornito le prime, nonché maggiormente degne di nota, spiegazioni dell’emergenza di tale fenomeno. Secondo Jonsen la moderna bioetica – in particolare il concetto di autonomia – si sarebbe sviluppata in seguito ad una crisi prodottasi all’interno dell’etica medica tradizionale a causa dei progressi della scienza e della tecnologia medica, progressi che, accanto all’indubitabile merito di aver moltiplicato le possibilità di intervento su una serie di patologie fino ad allora pressoché incurabili, hanno mostrato l’inefficacia e l’inattualità dei principi di matrice ippocratica come l’obbligo del non nocere e quello di promuovere la salute del paziente. Per Jonsen la bioetica statunitense si caratterizza fin dall’inizio come la ricerca di una conciliazione fra la convinzione che i progressi della nuova medicina tecnologica rappresentano un miglioramento, e la preoccupazione per le limitazioni morali che a tali progressi tecnologici si dovrebbero imporre. Partendo da tale condizione, l’autonomia si caratterizza dunque come quel principio che diviene baluardo di una protesta pacifica, avanzata da parte dell’establishment medico statunitense.
Troppo semplicistica appare tale conclusione agli occhi di Rothman, il quale sostiene invece che le ragioni della crisi dell’etica medica tradizionale siano da rintracciarsi in altro: in particolare, la rivendicazione dell’autonomia sarebbe da inserirsi all’interno di un movimento più ampio di rivendicazione dei diritti, movimento guidato, fondamentalmente, dalla sfiducia nei confronti dell’autorità costituita, nonché da un rifiuto nei confronti del paternalismo medico.
Ciò che Barazzetti mette in luce è che, indipendentemente dalla diversità della ricostruzione, le narrazioni qui brevemente riassunte concordano su quanto segue: la nozione di autonomia sarebbe da considerarsi lo strumento di un passaggio epocale da un’etica medica di carattere ippocratico alla moderna bioetica.
Proprio il fatto di poter essere facilmente inserita all’interno di un orizzonte normativo, come quello americano, improntato ai diritti e alle libertà personali, nonché quello di essere principio più idoneo all’interno di una bioetica che, lungi dall’essere riflessione teologica, si impone sempre di più come dominata dalla filosofia del diritto, sarebbero da considerarsi come le ragioni del trionfo dell’autonomia. Accanto ad esse, la ragione principale che mostra il perché del trionfo del principio di autonomia sarebbe da ascriversi al suo legame con la prassi, ormai consolidata, del consenso informato, nuovo modo in cui la relazione terapeutica tra medico e paziente può trovare sua attuale realizzazione. Il binomio principio di autonomia-consenso informato è anche da attribuirsi al fatto che il primo, da essere un concetto di pertinenza del diritto diviene, in un secondo momento, di pertinenza dell’etica. Il passaggio dal primo al secondo ambito di ricerca coincide con un rinnovato interesse per la regolamentazione della ricerca sugli esseri umani ed è associato al prendere forma di una serie di denunce di casi di sperimentazione condotte in manifesta violazione dei requisiti etici. Così Barazzetti: “l’autonomia, dunque, trionfa sugli altri principi dell’etica biomedica perché rappresenta il principio in base al quale è possibile giustificare il nuovo rituale della relazione terapeutica” che, se intesa come diritto negativo, “richiede ai medici di abbandonare quella parte del loro potere che consiste nel controllo delle informazioni sulla salute del paziente”.
Se fino alla metà del ‘900 l’etica medica era rimasta ancorata ad un modello paternalistico, che si esprimeva conferendo priorità al principio di beneficenza (cosa che a sua volta significava che ciò che era bene per il paziente veniva deciso dal solo medico, prescindendo da una valutazione degli interessi e delle preferenze del paziente stesso), sarebbe proprio la convinzione secondo la quale il medico non potrebbe più arrogarsi il ruolo di unico soggetto nella scelta della terapia da seguire, ad aver apportato un cambiamento di prospettiva, in base alla quale, come Barazzetti richiama più volte, il principio di autonomia si sarebbe imposto sulla scena come principio anti-paternalistico, impersonale e indissociabile dalla definizione di criteri.
A conclusione della prima parte del suo studio, Barazzetti prende in considerazione le obiezioni che sono state rivolte al principio di autonomia, in particolare sottolineandone le criticità una volta che questo non era più considerato unicamente come principio teorico ma veniva calato nell’orizzonte della prassi e, in particolare, nell’orizzonte della pluralità. Tra le obiezioni che vengono sollevate al principio di autonomia e che Barazzetti tematizza, ne riportiamo le tre principali: in primo luogo il principio di autonomia misconoscerebbe la dimensione relazionale dell’agire, presupponendo un’ideale separatezza tra gli individui; in secondo luogo esso non terrebbe conto dei vincoli di appartenenza, delle relazioni asimmetriche, e delle relazioni di dipendenza che sussistono tra gli individui; infine esso comporta una relativizzazione del cosiddetto pluralismo dei valori e una successiva imposizione dell’ideale di autonomia. Proprio perché divenuto ideale universalistico, ciò che l’individuazione del principio di autonomia all’interno della prassi sembrerebbe dunque comportare è la perdita del punto di vista in prima persona e nonché delle ragioni personali che mostrerebbero da dove poter affermare il valore normativo dell’autonomia.
Nella seconda parte del suo lavoro, Barazzetti analizza le varie linee attraverso le quali può essere considerato il principio di autonomia, in particolare ella opera un confronto tra la prospettiva in prima persona e la prospettiva in terza persona, optando, infine, per una prospettiva in prima persona. Se il punto di vista in terza persona, per poter giustificare l’agire in base a ragioni impersonali, insiste sulla simmetria tra il punto di vista dell’agente e quello dello spettatore, cosicché, se ci si vuole considerare come spettatori si deve necessariamente considerare l’autonomia come principio impersonale, la prospettiva in prima persona parte dal riconoscere che esiste un’asimmetria tra agente e spettatore, sbilanciandosi in favore del primo. Se così è, in questa seconda modalità, sussiste una differenza di valore normativo tra le ragioni: “assumendo una prospettiva in prima persona è possibile rappresentarci come gli autori di un agire riflessivo e riconoscere nell’autonomia la modalità caratteristica della deliberazione pratica”.
E tuttavia: come è possibile conferire valore normativo all’autonomia partendo da una prospettiva in prima persona? Attraverso il confronto, all’interno delle prospettive in prima persona, tra il modello gerarchico di Ronald Dworkin (che interpreta l’autonomia come espressione dell’autenticità e dell’integrità dell’agente), e il modello costruttivista kantiano nelle sue diverse formulazioni (che considera il processo di costruzione dell’autonomia a partire dall’interazione reciproca), Barazzetti mostra molto finemente che “è possibile intendere il valore normativo dell’autonomia, dal punto di vista dell’agente, come una riflessione critica sulle ragioni per agire”.
In particolare, Barazzetti compie un passo ulteriore, ampliando il punto di vista in prima persona attraverso l’assunzione di una prospettiva morale in seconda persona, così come suggerito da Stephen Darwall e Carla Bagnoli, cosa che fa sì che l’autonomia possa essere concepita certo come radicata in una relazione ma, più precisamente, in una relazione di mutuo riconoscimento che si manifesta infine nella forma di una relazione di autorità: “nel riconoscerci l’un l’altro come fonti autorevoli di ragioni morali, ci riconosciamo anche reciprocamente come autonomi. Assumendo il punto di vista deliberativo in seconda persona è possibile intendere l’autonomia come qualcosa che ci impegna moralmente, come ciò di cui siamo responsabili quando entriamo in relazione con altri”.
Nella parte finale delle conclusioni, Barazzetti considera quelle che definisce come le due rilevanti implicazioni che la concezione di autonomia finora presentata ha all’interno del contesto biomedico: in primo luogo essa ci permette di analizzare da dove abbia origine la nostra e l’altrui vulnerabilità; in secondo luogo, aspetto ancor più importante, essa comporta che anche nei confronti di coloro che non sono ancora autonomi o che stanno progressivamente perdendo la propria autonomia, si assuma la responsabilità dell’interazione. Riprendendo l’accostamento tra autonomia e fiducia tematizzato da Onora O’Neil, Barazzetti mostra che la relazione d’autorità da lei suggerita permette che si dia una compatibilità tra il rispetto per l’autonomia e il prendersi cura di coloro che non possono dirsi completamente autonomi e che, anzi, essi non sarebbero altro che due differenti atteggiamenti della medesima prospettiva morale.
Così conclude Barazzetti: “secondo la concezione dell’autonomia come ‘relaizione di autorità’ […] la scelta autonoma intesa come forma dell’interazione, può essere una dimensione riappropriante per il soggetto agente. Ciò di cui ci riappropriamo è, non soltanto, il valore che l’autonomia assume nelle relazioni di riconoscimento reciproco, ma anche lo spazio dell’interazione come orizzonte costitutivo dell’esercizio dell’autonomia“.
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(foto: Stelarc al Gam di tomcorsan da Flickr)