Nell’ambito del Venture Camp 2011, che si è tenuto a Milano il 4 e 5 novembre, la Fondazione Bassetti ha premiato la società D-Orbit con una menzione speciale «per la startup che ha dimostrato di agire con il modus operandi più consapevole». Fondata nel marzo di quest’anno da professionisti del settore aerospaziale, l’azienda sviluppa dispositivi propulsivi da installare sui satelliti prima del lancio, per favorire il loro rientro in atmosfera e per distruggerli al termine della loro vita operativa. Il progetto intende contribuire alla risoluzione del problema dei detriti spaziali, sul quale molte autorità internazionali, comprese le Nazioni Unite, hanno più volte richiamato l’attenzione.
La crescita esponenziale del numero di detriti che orbitano attorno alla Terra – fra satelliti in disuso, rottami generati da collisioni, oggetti smarriti e quant’altro – è un chiaro esempio di come lo sviluppo di tecnologie utili non abbia saputo prevedere l’impatto che queste avrebbero avuto sull’ambiente. L’ambiente, in questo caso, è lo spazio che circonda il nostro pianeta, che, colonizzato prima dai satelliti e poi dall’uomo stesso (con le stazioni spaziali), è concettualmente assimilabile ai territori un tempo selvaggi della Terra, nei quali Homo sapiens si è insediato stabilmente.
Infatti, anche l’insediamento dell’uomo nell’orbita terrestre può essere ormai considerato stabile. Anche senza considerare la Stazione Spaziale Internazionale, che dal 2 novembre del 2000 a oggi ha ospitato continuativamente da un minimo di tre a un massimo di tredici astronauti, «oggi ci sono più di 6.000 satelliti nello spazio attorno al nostro pianeta» dicono gli esperti della D-Orbit. Un boom impensabile nel 1957 (anno in cui i sovietici misero in orbita lo Sputnik), che è stato però seguito in parallelo da un incremento esponenziale anche del numero di rifiuti. Restando ai satelliti, infatti, solo 900 dei 6.000 in orbita sono funzionanti. Ai questi si aggiungono «più di 300 milioni di detriti che viaggiano a 30.000 chilometri orari» dicono alla D-Orbit. La grande maggioranza è costituita da frammenti di verniciatura, polveri o residui di carburante, con dimensioni inferiori al centimetro, capaci al più di scalfire la superficie di altri satelliti. Secondo la Nasa, quelli più grandi di 10 centimetri sono circa 20.000.
I rischi di un impatto sulla Terra sono in realtà ridotti, perché la stragrande maggioranza dei rifiuti che ricade verso l’atmosfera si disintegra a contatto con essa; se raggiunge la Terra cade in mare nel 70 per cento dei casi, mentre le probabilità che arrivi in un luogo abitato sono inferiori all’1 per cento. I detriti in orbita possono però danneggiare seriamente altri satelliti in uso e rappresentano un pericolo per gli astronauti. Per esempio, il 10 febbraio del 2009, la collisione a 789 chilometri di altitudine fra il satellite russo Kosmos 2251 (in disuso dal 1995) e l’Iridium 33 (operativo e posseduto dalla Iridium Communications) ha distrutto entrambi. Mentre sotto la minaccia di un possibile impatto, la Stazione Spaziale Internazionale è stata evacuata già due volte negli ultimi due anni. (l’equipaggio si è rifugiato nella navicella Soyuz, che in casi estremi sarebbe ripartita verso Terra). Se non si correrà ai ripari, eventi come questi sono destinati a divenire sempre più frequenti.
Per questo motivo, le principali agenzie spaziali del mondo (Nasa ed Esa) hanno attivato programmi per il monitoraggio dello spazio, ed esistono molti telescopi e radar dedicati al monitoraggio dei detriti spaziali: i primi osservano ciò che accade a oltre 100 chilometri dalla superficie; i secondo invece tengono sotto controllo le quote più basse. Il lavoro però è complicato dal fatto che nella maggior parte dei casi i dati non sono condivisi né resi pubblici e possono esserci difficoltà legate anche alla necessità di mantenere il segreto militare. Le stesse complicazioni intervengono per chi volesse proporre progetti che ripuliscano lo spazio dai rifiuti già in orbita.
L’approccio di D-Orbit è quindi diverso: più che ridurre il numero di oggetti che già ci sono, l’azienda mira a impedire la loro proliferazione. La strategia è raccomandata anche dalle linee guida dell’Onu in materia, e tuttavia la legislazione internazionale sui detriti spaziali è oggi inadeguata per un problema che richiederebbe un’azione concertata di tutti Paesi che inviano satelliti nello spazio.
«Esiste una convenzione dell’Onu che risale agli anni Settanta, che prevede che tutto ciò che è mandato nello spazio debba essere messo in condizioni di rientrare entro 25 anni dal termine dell’operatività» spiega Luca Rossettini, Ceo di D-Orbit. «La convenzione è stata ratificata da oltre 80 nazioni e include tutte quelle che oggi hanno effettivamente accesso allo spazio, ma l’impetuoso sviluppo di questo settore la rende ormai del tutto insufficiente: 25 anni sono decisamente troppi. Dovrebbero quindi essere promulgate nuove regolamentazioni che obblighino i satelliti a deorbitare appena diventino inutilizzabili. Oggi gli operatori spendono fino a 100 milioni di dollari per ogni satellite per evitare collisioni con i detriti spaziali e per deorbitarli a fine vita. D-Orbit permetterebbe di evitare questi costi spingendo il satellite non più funzionante in un’orbita di rientro (o allentamento) estremamente sicura e rapida».
Qualche immagine dell’incontro con Luca Rossettini di D-Orbit, nella sede della Fondazione Bassetti: