Il 14 e 15 novembre 2011 si è svolto a Piacenza, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore il convegno “Innovating Food, Innovating the Law“.
Pubblichiamo le fotografie dell’evento, il report di Paola Sobbrio (qui sotto a seguire) e, nei prossimi giorni, i video suddivisi per interventi con le slide utilizzate nelle relazioni.
Il convegno Innovating Food, Innovating the Law. An interdisciplinary approach to the challanges of the agrofood sector.
di Paola Sobbrio.
terza parte (qui la prima e la seconda parte).
La seconda giornata del Convegno è stata incentrata sui temi della proprietà intellettuale e della biopirateria, il primo intervento in questo senso è stato di Vinod Kumar Gupta, chair della “Traditional Knowledge Digital Library”(TKDL) indiana e ideatore di questa rivoluzionaria forma di tutela della conoscenza tradizionale. Gupta ha illustrato i contenuti della “Traditional Knowledge Digital Library”(TKDL) costituita in India per proteggere il patrimonio di pratiche mediche e prodotti medicinali locali e per contrastarne la brevettabilità che mina le fondamenta del sistema economico indiano, mettendo a repentaglio le tradizioni del paese. Con la creazione della TKDL, in accordo con l’European Patent Office (EPO), United States Patent & Trademark Office (USPTO), Japan Patent Office (JPO), Canadian Intellectual Property Office (CIPO), IP Australia, United Kingdom Patent & Trademark Office (UKPTO), German Patent Office (GPO), etc, l’India è riuscita a difendere il suo patrimonio di tradizioni mediche e di prodotti ad uso medicinale e terapeutico. Attraverso questo sistema l’India ha tutelato, ad oggi, 226 mila specialità medicinali di origine naturale facenti parte della propria tradizione.
Sulla brevettabilità delle varietà vegetali e sulle controversie che ne scaturiscono ha incentrato il suo intervento Sven Bostyn, dell’Università diu Liverpool, ricordando come la brevettabilità delle varietà vegetali abbia sollevato più dibattiti e accese proteste di quella del Dna. La spiegazione di tale situazione non si può rinvenire nella semplice dicotomia industria/agricoltori, quanto piuttosto in cause riconducibili alla sicurezza alimentare ed alla protezione della biodiversità, messe in pericolo, secondo alcuni, dal diffondersi dei brevetti sui vegetali. Tutto ciò conduce a domandarsi se l’attuale sistema dei brevetti sia ancora efficace, anche per ricompensare chi investe in queste ricerche, o se non sia ormai giunto il momento di sviluppare sistemi di tutela diversi e esaltati dalla letteratura anti-brevetto. Laurent Manderieux, dell’Università Luigi Bocconi, ha sviluppato questo tema in un’altra direzione, evidenziando come i diritti di proprietà intellettuale sulle varietà vegetali siano stati oggetto di tre interventi normativi diversi (i due testi della Convenzione Upov quello del 1978 e quello del 1991, nonché l’accordo Trips, parte integrante dell’organizzazione mondiale del commercio), che li regolano in tre modi differenti. Nella protezione dei diritti di proprietà intellettuale, tuttavia, si dovrebbe tenere conto dei diritti degli agricoltori, della protezione della biodiversità, del patrimonio di conoscenze tradizionali, dei rischi di biopirateria, nonché della libertà di accesso al patrimonio genetico vegetale. Per assicurare ciò, secondo Franco Benussi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, bisogna distinguere tra buoni e cattivi brevetti. Casi di “depredazione” delle risorse naturali sono avvenuti in Centro e Sud America e sono stati denunciati dalle Ong che operano sul territorio. Se su alcuni punti la Convenzione sulla biodiversità e l’accordo Trips collidono, nondimeno essi costituiscono l’unico mezzo per regolamentare questa situazione e per limitarne gli effetti.
Tra i diritti di proprietà intellettuale, secondo Dev Gangjee, della London School of Economics, rientrano anche le indicazioni geografiche tipiche, che mirano a proteggere prodotti regionali e/o ricette regionali basate sull’utilizzo di prodotti provenienti da una determinata regione o area geografica. Se, da un lato, vi è una tendenza alla liberalizzazione anche in agricoltura, dall’altro questo tipo di protezioni tende a creare nicchie distintive di prodotti tipici regionali. La protezione di questi marchi regionali è protetta dall’accordo Trips e riconosciuta dall’OMC. La loro funzione è anche quella di permettere al consumatore di riconoscere e fidarsi di quei prodotti su cui è apposto il marchio IGP o IGT. Tuttavia, questo binomio “prodotto territoriale unico-territorio unico” ( per posizione, clima, condizioni del suolo, etc…) crea di fatto una forma di proprietà privata su taluni prodotti che, pur provenendo da determinati territori, non hanno conservato alcunché di naturale e sono il prodotto di processi innovativi costanti e dell’intervento determinante dell’attività umana che li controlla minuziosamente in ogni fase del processo. In realtà, dunque, più che di un prodotto naturale, si dovrebbe parlare di un processo di naturalizzazione di quel prodotto al fine di limitare in pratica la concorrenza.
La stessa idea si ritrova alla base della relazione di David Lametti, dell’Università Mc Gill, Canada, secondo cui i prodotti IGP/IGT si traducono, di fatto, in prodotti di lusso. Il concetto francese di Terroir, che indica la provenienza dei vini da una certa regione, si possa trasformare in “terrore” per chi, partendo da elementi quali ad esempio il latte di pecora, non possa chiamare il formaggio ottenuto pecorino; o per chi, dopo aver cotto la pasta di pane, non possa poi chiamarla pizza, e così via. Questo modo estremamente restrittivo di proteggere certe produzioni, anche attraverso l’uso delle certificazioni private comporta anche una considerazione del consumatore come poco attento a ciò che mangia e quasi incapace di decidere in assenza di indicazioni.
Una diversa forma di protezione dell’innovazione è stata ravvisata da Andrea Rossato, dell’Università di Trento, nelle Genetic Use Restriction Technologies (GURTs), le tecnologie che limitano attraverso interventi genetici lo sfruttamento delle opere dell’ingegno biologiche. Tali tecnologie, inventate nell’ambito della protezione del software, sono passate poi al mondo delle biotecnologie. Il caso più famoso in tal senso è quello del “terminator gene”, il gene che induceva la sterilità della sementi ingegnerizzate e brevettate dalla Monsanto Corp. al fine di proteggere anche biologicamente la propria posizione di esclusiva economica. L’uso di tali tecnologie, che assomigliano molto ai Digital Rights Management Systems, equivale ad implementare forme di autoprotezione delle proprie opere che contraddice il ruolo di mediazione tra scienza e società messo in atto dalle tradizionali forme di protezione dell’innovazione.
Nel mondo della ricerca c’è, dunque, molto fermento sul tema del cibo come prodotto sempre più complesso sia in sé che come oggetto di tutela da parte delle normative. Il cibo oggi, come è emerso dalle relazioni, è sinonimo di termini che fino a poco tempo fa si associavano alla materia inanimata come brevetto, rischio, precauzione, innovazione, sicurezza, laboratori, expertise, scienza, etichettatura, tracciabilità,certificazione, ecc… Ma è, anche, sinonimo di, biodiversità, sapere tradizionale, luoghi, territorio, agricoltori, benessere degli animali, ecc… Tuttavia lì dove vi è cibo, vi è l’intervento delle norme sia perché parliamo di nuovi cibi( OGM e nano) sia perché il cibo è oggetto di regolamentazione a livello globale prima ancora che europeo. La globalizzazione, infatti, ha investito anche il cibo ed il suo consumo. Da qui la necessità di regolamentare globalmente per influire localmente.
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