Fornire alle scienze sociali un metodo di indagine scientifico, che le renda in grado di capire le conseguenze delle azioni politiche e di contribuire, in ultima analisi, a un mondo più giusto. È il senso del lavoro di Dan Sperber – scienziato sociale di fama internazionale, con un passato di militanza politica – ospite del settimo Congresso europeo di filosofia analitica che si è svolto al San Raffaele di Milano all’inizio di settembre. Nel corso della lecture promossa dalla Fondazione Bassetti, Sperber ha illustrato il suo approccio basato sulle scienze cognitive e su concetti mutuati dall’epidemiologia, frutto dei suoi studi più recenti (per approfondimenti si può guardare il video della lecture, su questo stesso sito, oppure leggere il saggio, in corso di pubblicazione, A naturalistic ontology for mechanistic explanations in the social sciences).
Ma al di là degli aspetti specifici, che pure hanno alimentato una vivace discussione al termine della prolusione, a offrire spunti di riflessione sul tema della responsabilità nell’innovazione sono anche l’approccio interdisciplinare di Sperber allo sviluppo della conoscenza, e i motivi che, all’inizio della carriera, lo hanno avvicinato prima all’antropologia, sotto la guida di Claude Lévi-Strauss, e poi alle scienze sociali nel loro complesso.
Lei ha iniziato il suo percorso come attivista nei movimenti anti-apartheid e contro la guerra di Algeria. Perché ha deciso di abbandonare la carriera politica per dedicarsi alla ricerca nelle scienze sociali?
Ho lasciato la politica attiva, ma il mio interesse nelle scienze sociali è di tipo politico. Ero militante fin dall’adolescenza e leggevo molto sulla scienza sociale marxista. All’epoca – la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 – il problema centrale era quello della fine degli imperi coloniali, e mi sembrò allora che per capire meglio le situazioni di Paesi diversi avessimo bisogno di esaminare in modo approfondito le tradizioni e la cultura locali e il contesto storico in cui si sviluppavano movimenti indipendentisti. Ho iniziato a studiare antropologia proprio per comprendere meglio i movimenti rivoluzionari del Terzo mondo. Strada facendo però mi sono reso conto che le scienze sociali non erano abbastanza solide per arrivare a conclusioni pratiche nel dominio politico, sebbene all’epoca ci fosse l’idea del marxismo e del socialismo scientifico, secondo cui la scienza aiuterebbe a decidere come andare verso un mondo più giusto. La verità è che le scienze sociali, l’antropologia e le altre, non sono in grado di garantire questo tipo di certezza. Dunque, sviluppare le scienze sociali mi è sembrato un compito centrale anche per migliorare il mondo. Entrando nella pratica della ricerca ho dovuto necessariamente darmi degli obiettivi intermedi, ma ho sempre tenuto come orizzonte nella mia mente quello di lavorare per rendere il mondo migliore.
È per questi motivi che i suoi studi si concentrano in particolare sul metodo delle scienze sociali, che lei vorrebbe avvicinare a quello scientifico?
Sì. Penso che l’ambizione di sviluppare una comprensione scientifica dei fatti sociali sia sensata, anche se difficile da realizzare: ci sono molti ostacoli legati al metodo ma anche all’oggetto dello studio, che è di una complessità estrema. Anche per questo, ritengo che sia sbagliato criticare o persino disprezzare le scienze sociali per il fatto di non essere abbastanza scientifiche; si stanno infatti muovendo in una direzione di maggiore scientificità e, pur senza far parte delle discipline naturalistiche come la biologia o l’ecologia, sono già ora piene di competenza e comprensione del mondo sociale. Quello che non è ancora possibile avere è una politica fondata sulle scienze sociali. Su questo c’è ancora molto lavoro da fare.
Fin dove possono spingersi oggi le scienze sociali?
Se guardiamo ai loro rapporti con la politica, le scienze sociali sono già in grado di aiutarci a capire quali sono gli effetti nel breve periodo una scelta piuttosto che di un’altra, per scopi di riformismo modesto. Se però vogliamo essere più ambiziosi e guardare agli effetti di cambiamenti maggiori dell’economia e dell’organizzazione sociale, la verità è che non siamo in grado di dare indicazioni.
Lei si avvale di idee e dati che provengono da molte discipline, anche distanti fra loro. Parla di epidemiologia, usando un termine e un approccio mutuati dalla medicina, tiene conto dei risultati della psicologia cognitiva, analizza la storia e così via. Qual è l’importanza dell’interdisciplinarietà nello sviluppo della conoscenza?
Ho lavorato in modo interdisciplinare per tutta la mia vita e sono interessato a superare l’organizzazione disciplinare delle scienze. D’altro lato sono convinto che l’interdisciplinarietà non vada sviluppata di per sé: non è detto che una ricerca interdisciplinare sia necessariamente più forte di una che non lo è; dipende dal progetto. Di fronte a ogni problema scientifico, dobbiamo chiederci quali sono le risorse che abbiamo a disposizione per risolverlo nel modo più efficace. A volte tutte le risorse sono già contenute dentro una singola disciplina. Spesso però non è così.
L’organizzazione accademica però non facilità l’interdisciplinarietà.
Se un progetto scientifico necessita di un approccio di tipo olistico, le frontiere tradizionali fra le discipline diventano degli ostacoli. Le difficoltà non sono solo di solo di tipo intellettuale – quando cioè si tratta di individuare e mettere insieme le conoscenze già disponibili – ma ci sono ostacoli istituzionali e legati alla consuetudine. L’interdisciplinarietà va difesa non in quanto tale, ma perché in molti casi è l’unico approccio che ci permette di sviluppare il sapere in modo utile. Tipicamente, è per esempio necessaria nei progetti che riguardano l’applicazione della scienza e l’innovazione tecnica o sociale. E anche la valutazione dei rischi e dei benefici è un problema che non può essere risolto all’interno di una singola disciplina.
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Alcune immagini della lecture di Dan Sperber “The deconstruction of social unreality” per la Fondazione Bassetti, nel contesto di ECAP7 – Seventh European Congress of Analytic Philosophy (altre fotografie nel nostro account in Flickr).