Quando bisogna legiferare su questioni che richiedono una competenza tecnica specialistica, che toccano aspetti etici e morali, e che possono incidere profondamente sulla vita delle persone, gli strumenti della normale democrazia possono non essere sufficienti. Non basta il Parlamento, che procede attraverso compromessi che alla fine scontentano molti, e non garantiscono la scelta migliore. E non basta neppure la democrazia aggregativa, che chiede ai cittadini di esprimersi attraverso votazioni, giacché solo in un sistema perfetto – e quello italiano non lo è di certo – ai milioni di votanti sono date le informazioni necessarie per esprimersi con cognizione di causa e al di là di ragioni opportunistiche.
Una possibile via, già presente nella Grecia antica e riscoperta dai politologi di area nordamericana a partire dagli anni Novanta, è la democrazia deliberativa, che si attua attraverso confronti che coinvolgono piccoli gruppi di persone non necessariamente esperte in materia, ma alle quali sono forniti gli strumenti conoscitivi che permettono loro di non parlare al vento e di esprimere posizioni sensate. La democrazia deliberativa è la protagonista del saggio Il pulpito e la piazza (Raffaello Cortina editore) di Giovanni Boniolo, docente di logica e filosofia della scienza nella Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Milano, e direttore del PhD in “Foundations of the life sciences and their ethical consequences” presso la Scuola europea di medicina molecolare (Semm) del capoluogo lombardo.
Boniolo definisce la deliberazione come un «processo razionale che porta a una scelta, sia essa etica o politica […] contraddistinto dal fatto che vi sono più posizioni iniziali, sostenute da individui o da gruppi diversi che, attraverso un serrato incontro/scontro fra argomenti e controargomenti, dovrebbero giungere a una scelta comune». Si tratta di un esempio chiaro di teoria del metodo perché, a differenza delle teorie della prospettiva, non cerca di risolvere il conflitto dimostrando la superiorità di una posizione etica rispetto a un’altra, ma lo fa attraverso una metodologia che dovrebbe alla fine far prevalere l’opzione supportata dalle giustificazioni più razionali. Al punto che, se il procedimento è stato corretto e i partecipanti sono in buona fede, alla fine non si raggiunge un compromesso, ma una posizione che tutti dovrebbero riconoscere come la migliore, in quanto sostenuta dalle argomentazioni più solide.
«La deliberazione non comporta il semplice parlare attorno a un problema» scrive Boniolo, «bensì il dibattere analizzandolo nei suoi vari aspetti e proponendo soluzioni differenti da prospettive diverse in modo che esse siano valutate stimando le giustificazioni portate a loro sostegno. La giustificazione è, infatti, il momento centrale della razionalità del dibattito: nessuna posizione viene accettata solo a motivo del fatto che qualcuno (individuo o gruppo) la presenta, quanto perché viene giustificata, ossia perché vengono portati dei motivi, sperabilmente buoni, a suo favore».
Affinché il procedimento sia corretto, tuttavia, i partecipanti devono avere requisiti che consentano loro di non parlare a vanvera, e all’interno del dibattito devono realizzarsi alcune condizioni fondamentali.
Rispetto al primo punto, Boniolo chiarisce che, per esempio in ambito biomedico, i deliberanti dovrebbero: «Sapere abbastanza di biomedicina per non dire stupidaggini scientifiche, sapere abbastanza di etica per non dire stupidaggini filosofiche, sapere abbastanza di come svolgere un argomento per non parlare a vuoto». Come lo stesso autore sottolinea, è un elenco che può apparire scontato. Non lo è, tuttavia, se si considerano i toni e gli argomenti che hanno contraddistinto nel recente passato le italiche discussioni sulla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, o quelle sul caso di Eluana Englaro e il tema delicatissimo del fine vita. Boniolo racconta per esempio di essere stato invitato a un dibattito sull’uso delle staminali embrionali con un teologo. «Prima del dibattito, il nostro, candidamente e un po’ sfacciatamente mi ha confessato di non sapere nulla di cellule staminali. Davanti al mio sbigottimento ha replicato che non serviva saperlo per poter dibattere importanti problemi sullo statuto dell’uomo. […] La richiesta di conoscenza non significa affatto suggerire che solo gli esperti di quel tema possano discettare, ma che tutti coloro che ne vogliono dibattere abbiano l’umiltà di impadronirsi di quella conoscenza sufficiente per non spostare solo aria. Chi non lo fa, compie non solo un esecrabile atto di millantato credito intellettuale, ma anche un gesto retoricamente e socialmente pericoloso, perché potrebbe indurre coloro che ascoltano ad accettare posizioni sostenute da un signore, o da una signora, che non sa di che cosa sta parlando».
La principale condizione che deve invece realizzarsi all’interno del dibattito per garantire la correttezza del processo deliberativo è l’isegoria, ovvero, l’uguale diritto (formale e sostanziale) di parola da parte di tutti i partecipanti e l’uguale diritto di tutte le posizioni di essere rappresentate, fermo restando che tutti i pareri espressi devono essere supportati da giustificazioni razionali e che è sulla forza di tali giustificazioni che deve fondarsi la decisione finale.
Se i requisiti metodologici sono rispettati, la democrazia deliberativa può diventare un momento propedeutico alla decisione parlamentare, che dovrebbe quindi tener conto di quanto espresso dai cittadini deliberanti.
Nel concreto, Boniolo porta come esempio riuscito di democrazia deliberativa quanto è accaduto nel Regno Unito fra il 2006 e il 2007, quando un piccolo gruppo di cittadini fu chiamato a decidere su un tema molto tecnico di biomedicina. Nel novembre 2006, due gruppi di ricerca (uno al King’s College di Londra e l’altro all’Università di Newcastle) chiesero alla Human Fertilization and Embriology Authority (Hfea) il permesso di poter utilizzare nei loro studi i cibridi, cellule ottenute unendo il nucleo di una cellula somatica con il citoplasma di un’altra cellula, precedentemente privato del suo materiale genetico. La questione era particolarmente delicata, perché gli scienziati volevano unire in questo modo il patrimonio genetico umano con il citoplasma di cellule animali. La Hfea decise quindi di procedere attraverso un processo deliberativo. Il primo atto è stata la preparazione di un documento pensato per i cittadini inglesi e per coloro che avrebbero partecipato alla fase deliberativa, in cui i problemi etici e le questioni scientifiche erano esposti con molta chiarezza. In seguito, sono stati organizzati un incontro deliberativo, cui hanno partecipato 44 cittadini, un sondaggio di opinione su un campione di 2.000 britannici, e un dibattito pubblico. Sulla scorta di quanto emerso in questi tre momenti, e sentita anche l’opinione degli scienziati, l’autorità ha concluso che non c’erano ragioni per mettere al bando la ricerca sui cibridi. I dettagli della strategia adottata dalla Hfea, con la registrazione degli incontri fra i cittadini, sono pubblici sul sito dell’autorità.
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(foto: Human genome printed di JohnJobby da Flickr)