Dopo Panoramica: Clonazione e Panoramica: eutanasia, Virginia Sanchini ci propone un excursus sulle problematiche legate al periodo di inizio vita.
Come abbiamo già scritto le Panoramiche pubblicate in questo sito servono a permettere di inquadrare altri articoli, già presenti o di futura pubblicazione, in un contesto ampio, relativamente agli aspetti di etica, responsabilità e innovazione.
Inizio Vita
di Virginia Sanchini
Numerose sono le problematiche del cosiddetto periodo di inizio vita: la procreazione medicalmente assistita (PMA), la nascita di neonati gravemente prematuri, l’aborto (chirurgico e farmacologico), la contraccezione, e tutti gli aspetti legati all’eugenetica. Nonostante ciascuna di esse presenti nel dibattito bioetico un caso a sé e meriti una specifica trattazione, tutte le questioni enunciate condividono però il medesimo interrogativo etico: quello che si chiede se l’embrione sia persona e se dunque esso debba essere tutelato senza riserve. L’embrione è l’essere umano nella sua fase prenatale, quella forma di vita che, se lasciata essere, dà vita ad un essere umano. Più precisamente esso è l’individuo nella fase di differenziazione cellulare e sviluppo degli organi: tale fase corrisponde all’incirca ai primi due mesi di vita gestazionale. Più problematica risulta invece la definizione di che cosa sia persona.
Qualunque sia la definizione di persona che si intende fare propria, difficilmente ci si troverà soddisfatti di fronte a quella risposta che faccia equivalere la persona all’individuo biologico, e ne riduca l’essenza alle mere funzioni biologiche. Tutti siamo cioè portati a pensare che la persona sia un qualcosa che ecceda la semplice corporeità fisica. Se così è, il problema che si pone è il seguente: se ogni essere umano è una persona, e se però la persona non si esaurisce con l’essere un essere umano, in che rapporto stanno essere umano e persona? Se tutti siamo persone ma anche individui dotati di una certa corporeità biologica, e se però persona è qualcosa che eccede la corporeità, è possibile individuare un momento in cui oltre ad essere esseri umani diventiamo anche persone? E, in particolare, si può affermare che l’embrione sia già persona, se persona esula dalla dimensione meramente biologica?
Una risposta alla domanda che chiede se l’embrione sia a tutti gli effetti persona si basa sulla constatazione che se non si può affermare che l’embrione sia già una persona, è però possibile affermare che esso è persona potenziale. Si potrebbe cioè dire, basandosi sulla distinzione aristotelica di atto e potenza, che l’embrione non è attualmente una persona, ma è una ‘persona in potenza’, ossia che dalla fecondazione in poi si avvia un processo di sviluppo per cui l’embrione non cresce “fino a diventare persona, ma cresce e si sviluppa in quanto essere umano" (E. D’Antuono Bioetica, "bioetica", Guida 2003). I sostenitori di tale posizione affermano cioè che se noi non interrompessimo il decorso della gravidanza, l’essere umano arriverebbe a costituirsi come persona, cosa da cui consegue che l’embrione va tutelato perché ha l’essere persona come essere in potenza. Punto decisivo di questa posizione è la considerazione di persona come di un soggetto morale, unita all’ulteriore considerazione che, perché sia riconosciuto un diritto alla vita, sia decisiva la capacità di diventare un soggetto morale. Il problema di questa definizione di persona è che la nozione di potenzialità è strutturalmente debole: se infatti l’embrione va tutelato in quanto in grado di portare potenzialmente allo sviluppo di una vita umana, anche l’oocita (ovulo femminile) e lo spermatozoo sono intrinsecamente e potenzialmente, ovviamente ciascuno solo per la propria parte, portatori di vita umana.
Proprio la difficoltà di proteggere la definizione di persona potenziale, porta alcuni a sostenere (orientamento bioetico funzionalista) che persona non è che una convenzione linguistica, utile a descrivere la rilevanza di alcune funzioni e capacità dell’essere umano, il quale è dunque tale solo se ha la possibilità di manifestarle. Le funzioni e le capacità a cui si fa riferimento sono funzioni e capacità cosiddette ‘superiori’, come l’attività intellettiva e riflessiva: dato questo presupposto solo a partire dalla formazione e dal regolare funzionamento del sistema nervoso, e solo in forza della percezione del piacere e del dolore, si può definire persona un essere umano – a tal proposito Harris afferma polemicamente che lo status morale della persona sembra determinato da quelle caratteristiche che rendono gli individui umani moralmente più importanti di pecore, capre e embrioni. Il problema di questa posizione è duplice: da un lato che così concepito, l’embrione sarebbe da considerarsi persona solo dopo lo sviluppo di quelle strutture che sottendono alla formazione del sistema nervoso centrale, dall’altro essa riconduce la capacità riflessiva dell’individuo alla sua base organica, cosa che non può impedire di rivolgere a posizioni, quali la presente, accuse di riduzionismo. Accanto a queste obiezioni, si potrebbe anche aggiungere una critica di ‘sostanzialismo’: si potrebbe cioè affermare che la possibilità dell’esercizio delle funzioni assicurate dalla formazione della corteccia cerebrale presuppone l’esistenza di un soggetto, il quale manifesta tali funzioni ma non si riduce ad esse. Persona non sarebbe colui che ha certe capacità, ma il fatto che esiste un soggetto il quale a sua volta possiede le strutture che permettono certe capacità, renderebbe legittimo parlare di persona. Il termine ‘persona’ sarebbe quindi attribuibile all’essere umano nell’intera fase del suo sviluppo. Persona in questo caso è colui che risponde ai requisiti individuati da Boezio nella sua definizione di substantia individua (individualità concreta), completa (va considerata come soggetto autonomo, che non inerisce ad altro oltre a sé), alteri incommunicata, rationalis (ciò che la rende individualità concreta è il suo essere persona razionale). Il problema che qui si pone è quello di come considerare l’attributo razionale: o si afferma che razionale è l’essere umano in generale, o dire che l’embrione è un essere umano razionale, nel senso comune del termine, sembra dare adito a numerosi problemi.
La posizione sostazialista è esattamente quella adottata dalla chiesa cattolica, la quale afferma che l’embrione è persona nel senso che è vita umana e che la vita umana è in quanto tale sacra, in ogni sua forma e incarnazione. A tal proposito, interessante è l’intervista rivolta da Marisa de Moliner al Vescovo Sgreccia, apparsa sul quotidiano Il Giornale con il titolo L’embrione è una persona. Qui il Vescovo, riferendosi in particolare alla clonazione ma pronunciando affermazioni declinabili nei confronti di ogni problematica di inizio vita, afferma che l’embrione è una persona e che, in tale rispetto, il fine non giustifica i mezzi: per il Vescovo cioè, in particolare nell’ambito della clonazione, anche qualora si parlasse di clonazione terapeutica e non di clonazione riproduttiva, pur tuttavia, si tratterebbe comunque di “produrre un individuo umano per poi utilizzarlo come deposito di cellule” e, in questo modo, l’embrione umano verrebbe “ridotto a materiale da esperimento“. Se il fine non giustifica i mezzi sembra corretto affermare la non liceità di “produrre e poi sacrificare degli embrioni umani per scopi sperimentali“. Se nel caso dell’aborto decisiva per il “no” della chiesa cattolica risulta la definizione dell’identità dell’embrione, il giudizio di non liceità espresso per quanto concerne le tecniche di procreazione medicalmente assistita dipende invece innanzitutto dal fatto che esse corrompono il principio fondativo della morale sessuale. La posizione del magistero ecclesiastico espressa nei due documenti della Donum vitae (1987) e della Dignitatis personae (8/09/2008) avanza come ragione fondamentale della negazione di qualunque forma di tecnica di procreazione medicalmente assistita, non solo eterologa ma anche omologa, l’impossibilità di separare la sessualità dalla generazione.
Alcuni di coloro che sostengono un punto di vista laico (i cosiddetti personalisti i quali, comunque, non esauriscono l’orizzonte laico: è infatti possibile avere posizioni che rifiutano l’aborto proprio a partire da un orizzonte laico) sostiene invece che l’esser persona non sia un dato di fatto, ma il risultato di un processo che si costruisce a partire dal tessuto delle relazioni con il mondo e con gli altri. Per questo l’essere umano che va sviluppandosi non potrebbe già dirsi persona. Se la ragione caratterizza l’identità dell’essere umano, solo l’esercizio effettivo di questa può significarne il carattere personale: ed è solo la vita umana post natale a garantire la possibilità di esercizio della capacità di intellezione (l’operazione propria dell’intelletto nell’atto di afferrare le realtà spirituali ad esso connaturali) e di autodeterminazione dell’individuo, per cui nessuna natura aprioristicamente definita restituisce all’essere umano la sua identità, sempre in costruzione, di persona. L’esser persona non sarebbe quindi cosa ereditata, così come si eredita il patrimonio genetico, ma ciò che si costruisce progressivamente attraverso la vita relazionale e l’attività deliberativa.
Ora, perché la corrente cattolica non può che adottare una concezione sostanzialista di persona? Perché l’attribuzione immediata all’embrione della dignità personale ha come scopo pratico quello di proteggerla, presupposto coerente con la morale cattolica. Questo comporta naturalmente per il magistero cattolico non solo il rifiuto di qualunque tecnica abortiva, quelle chirurgiche come anche la recente di carattere farmacologico (la cosiddetta Ru486), ma anche il rifiuto di qualsiasi metodo contraccettivo, proprio per l’implicita divisione che esso crea tra atto sessuale e atto procreativo.
Dal punto di vista etico quindi, il dibattito sull’aborto ricalca quello sull’eutanasia e vede la divisione tra sostenitori della posizione della sacralità della vita e sostenitori della vita come sistema laico di relazioni. Inoltre, per i primi, un altro punto critico rispetto alle problematiche legate all’inizio vita è prendere posizione nei confronti della pillola anticoncezionale. Dall’articolo La pillola, un farmaco che pose nuove sfide all’innovazione, a proposito del saggio di Lara Marks in occasione del cinquantenario dall’emissione in commercio della pillola anticoncezionale, emerge chiaramente la complessità che accompagna la questione della pillola anticoncezionale che se da un lato non può non far emergere l’evidente presa di responsabilità da parte della donna, dall’altro presenta la peculiarità di avere come obiettivo quello di “prevenire una condizione – la gravidanza – che non è una malattia” e di essere pensata per donne sane le quali “per evitare una ‘non malattia’ si esponevano al rischio di effetti collaterali“. E tuttavia, la motivazione, non solo sociologica ma in qualche misura anche etica che permise l’entrata in commercio della pillola fu quella dell’utilità che essa aveva per distanziare le nascite e preservare quindi la salute della donna, la quale “sarebbe stata altrimenti compromessa da maternità ripetute e vicine nel tempo“. Questa o altre motivazioni, tra cui non ultima l’indipendenza sessuale della donna, contribuirono all’ingente consumo della pillola e al suo ingente successo sul mercato, tanto che nel suo Sexual chemistry, a history of the contraceptive pill, Lara Marx riporta come agli inizi degli anni ’70 la pillola fosse usata dal 27% delle donne statunitensi sposate e dieci anni più tardi dal 34% di esse, per arrivare alla fine degli anni ’60 ad essere stata usata, almeno una volta nella vita, da più di metà delle donne statunitensi. Le perplessità dal punto di vista medico emersero quando si iniziò a mostrare la correlazione che la pillola aveva con i casi manifestatisi di trombosi. Dal punto di vista etico occorre invece chiedersi quanto la pillola anticoncezionale influisca all’interno del dibattito precedentemente esposto dell’embrione come persona. Sebbene alcuni tentino di mostrare l’identità di aborto e contraccezione alla luce dell’argomento della potenzialità è importante ricordare che “il meccanismo contraccettivo delle pillole estroprogestiniche consiste nell’impedire che il gamete femminile giunga a maturazione vanificando con ciò la capacità fecondativa di quelli maschili. Pertanto, lungi dall’avere le medesime potenzialità di sviluppo dello zigote e del feto che vengono abortiti, nella situazione contraccettiva i gameti non esistono proprio, nel senso che esistono solo i gameti maschili, i quali non hanno alcuna possibilità di sviluppo ulteriore in mancanza di gameti femminili maturi da poter fecondare” (M. Reichlin, Aborto. La morale oltre il diritto, Carocci, Roma 2007).
Problematica opposta e nello stesso tempo complementare a quella dell’aborto, e quindi più affine per certi versi alla questione della procreazione medicalmente assistita, è la questione delle nascite premature e di come comportarsi nei confronti di esse. Nell’articolo The price of life of a premature baby Jonathan Hankins menziona quanto scritto sul blog di Adam Wishart il quale riporta dati che non possono non far riflettere sull’uso, forse abuso, della tecnologia: ogni cento bambini nati prematuramente, qui in particolare si faceva riferimento a bambini nati quattro mesi in anticipo rispetto alle tempistiche definite dalla natura, solo uno di essi raggiungeva l’età adulta senza disabilità. Tali dati statistici sollevavano l’interrogativo nei managers del NHS se l’ingente somma economica utilizzata per tenere in vita neonati prematuri non potesse essere spesa per un’altra tipologia di pazienti. La valutazione etica di casi come questi risulta particolarmente complessa proprio perché, come sottolineato dallo stesso Adam Wishart “the outcomes are so starkly varied“. E tuttavia, si chiede Wishart: "tenere questi neonati in vita è compito di una medicina sempre più brillante e pionieristica o fare questo significa, in fondo, spostare i limiti stessi della natura troppo lontano?“